Quando avevamo la pelle scura. Intervista a Guido Barbujani

Il genetista spiega perché la biodiversità umana non può essere strumentalizzata per giustificare il razzismo.

Simona Silvestri

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Questo contributo è inserito nel numero di MicroMega+ del 28 maggio 2021.

Grazie al Dna, siamo in grado di ricostruire l’aspetto dei nostri lontani antenati: una delle evidenze che emerge da questa analisi è che un fattore considerato innato e quindi “naturale” da molti europei, e cioè l’aver sempre avuto la pelle chiara, è tutt’altro che vero. Da quand’è che gli europei hanno la pelle chiara?

Attenzione: il DNA ci permette di ricostruire approssimativamente l’aspetto dei nostri antenati; per il colore della pelle, il margine d’errore è del 4%. I fossili ci dicono che fino a 5.700 anni fa gli europei avevano pelli molto scure, come oggi nel sud dell’India, e spesso occhi azzurri. Le più antiche pelli chiare conosciute sono in Asia, a sud del Caucaso, 12mila anni fa. Poi, con il neolitico, a partire da 10mila anni fa, c’è una vera rivoluzione: nel vicino oriente e in Anatolia cominciamo a produrre cibo; le risorse aumentano, le popolazioni crescono e si diffondono verso nord e verso ovest, portando con sé il proprio DNA, le tecniche agricole, forse (ma non è sicuro) le lingue Indoeuropee, e insieme a tutto questo le pelli chiare e gli occhi scuri che erano arrivati dal Caucaso.

L’analisi dei genomi e della biodiversità nelle popolazioni antiche mostra una matrice comune, da cui poi si sono determinate le diverse popolazioni. Come è avvenuto questo processo?

Direi che da questa matrice comune si sono differenziate varie popolazioni, ognuna un po’ diversa, tutte biologicamente imparentate. Allo stesso modo, un po’ diversi fra loro ma tutti parenti sono gli individui che le compongono. Le differenze si sono accumulate nell’isolamento, ma gli scambi migratori le hanno ridotte. Vale per i nostri geni, e vale in parte anche per le culture, perché isolamento e scambi favoriscono, rispettivamente, una minore o maggiore somiglianza fra culture. Ma si tratta di fenomeni complessi, tutt’altro che meccanici, che vanno studiati nel dettaglio.

L’assunto secondo cui, visto che non siamo tutti uguali, allora significa che apparteniamo a razze diverse, è ancora la giustificazione preferita di chi si richiama al concetto di identità come appartenenza ad un determinato gruppo, strumentalizzando il pregiudizio e l’esasperazione del ‘noi contro loro’. Perché è così difficile convincere le persone che le razze altro non sono altro che una invenzione umana, e che la comune radice è quella della migrazione?

Non lo so; posso dire quello che penso. Penso che razza e razzismo abbiano in comune l’etimologia e poco più. La razza è il modo, grossolano, con cui per secoli abbiamo classificato i nostri simili, generalmente mettendo noi in alto, e gli altri tanto più in basso quanto più ci sembravano diversi da noi. Oggi abbiamo visto che si tratta di etichette arbitrarie, e inutili per la pratica medica e per lo sviluppo di nuovi farmaci. Ma il razzismo ha a che vedere con i diritti dei cittadini, e con l’idea che a origini, pelli o passaporti diversi non debbano corrispondere gli stessi diritti. Perciò per essere razzisti non c’è bisogno che le razze esistano, anche se fa comodo per trovare qualche scusa.

La storia dell’umanità dimostra che uno dei tratti evolutivi determinanti nello sviluppo di Homo Sapiens è stata la sua capacità di astrazione, la possibilità di inventare concetti immateriali, come ad esempio l’idea di giustizia o di Stato, o quella di un Dio. Eppure questa straordinaria potenzialità ha finito con il rappresentare in alcuni casi un limite: penso alle sovra-costruzioni mentali, tra cui il pregiudizio o appunto il razzismo. Come se lo spiega?

Non so spiegarlo però, anche qui, ho qualche opinione. I pregiudizi non sono solo un ostacolo alla convivenza sociale. Nelle situazioni in cui siamo inesperti, quando non abbiamo avuto modo di formarci dei giudizi, i pregiudizi sono inevitabili e a volte indispensabili. In una città che non conosco, non vado in giro con il portafoglio in mano, anche se in seguito magari scoprirò che è un posto tranquillo in cui non c’è rischio di essere derubato. È un pregiudizio, ma semplifica la vita. Il limite dei pregiudizi è che così si mettono insieme nella stessa categoria (i milanesi, gli immigrati, i pensionati, le suore, gli autostoppisti…) persone in realtà molto diverse. Quindi, per una civile convivenza, conviene rimpiazzare appena possibile i pregiudizi con giudizi sulle persone concrete con cui abbiamo a che fare.

Il nostro continente è stato punto di arrivo e poi base di partenza di tantissimi migranti, e oggi torna a essere ancora una volta luogo d’approdo, come testimoniano le immagini dal Mediterraneo e non solo. La storia globale dell’uomo è fatta di migrazioni e di spostamenti alla ricerca di un luogo sicuro dove garantire la sopravvivenza di se stessi e del proprio nucleo familiare. Se quindi la migrazione è strettamente connessa alla natura di Homo sapiens, come si può impedire alle persone di spostarsi?

Si può impedire alle persone di spostarsi in tanti modi: modi più o meno violenti, che generano infallibilmente conflitti e a lungo andare non funzionano. Varrebbe la pena, quindi, di chiedersi non se, ma come, misurarsi con i fenomeni migratori. Non penso che serva a molto spiegare una cosa pur vera, e cioè che l’umanità è stata nomade per 180mila anni, e anche adesso continuiamo a spostarci. Ma non capisco neanche come si possa negare a priori la possibilità che gli immigranti si integrino nelle nostre società (lo fa Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera del 17 maggio 2021) quando, dagli Stati Uniti alla Germania all’Argentina, abbiamo chiari esempi del contrario. Aiutando (e non dico che sia semplice) l’inserimento dei migranti, nella scuola e nel mondo del lavoro, si creano cittadini consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. Scuola e lavoro sono i due livelli a cui, se si vuole, si può intervenire.



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