“Non c’è più tempo, serve un’agenda radicale per ridurre le disuguaglianze”

Tra pandemia, crisi e politiche che non bastano. Intervista ad Andrea Morniroli responsabile dello staff del Forum Disuguaglianze Diversità.

Daniele Nalbone

“Non c’è più tempo”. Aprendo il sito del Forum Disuguaglianze Diversità si legge subito questa presa di posizione netta. Per questa intervista, quindi, non possiamo che partire da qui.

Perché non c’è più tempo?
Oggi quello delle disuguaglianze è problema riconosciuto, molto affrontato a livello teorico, ma poco a livello pratico. Le disuguaglianze in questo Paese sono viste come ineludibili, quasi come fossero il prezzo da pagare per lo sviluppo. La pandemia ha reso le disuguaglianze più visibili e ci ha fatto capire che non sono inevitabili ma frutto di scelte, di politiche, della perdita di potere del lavoro, dei diritti smantellati. “Non c’è più tempo” è riferito al fatto che in Italia stanno per arrivare risorse come mai si era visto. E allora, o prendiamo di petto oggi la questione, o sarà la fine. E non sto esagerando. La “normalità di prima”, di cui tanti parlano, stava creando derive autoritarie che ci avrebbero portato, e ci porteranno se non si cambierà rotta, verso “l’uomo forte”.

“Non c’è più tempo” è un messaggio decisamente netto, radicale oserei dire.
È radicale, perché oggi serve radicalità informata, robusta perché fondata sulla realtà e sulle competenze e insieme gentile perché attenta alle persone. Serve mettere mano a cose che non funzionavano: orientare democraticamente il cambiamento tecnologico, ridare potere ai giovani e al lavoro, perseguire una transizione ecologica che sappia unire giustizia ambientale e sociale. La destrutturazione delle tutele è andata talmente in profondità che, in alcuni settori, il lavoro non è più un diritto ma un dono, da accettare a qualsiasi condizione. E poi è necessario cambiare paradigma assumendo la prospettiva di genere come sguardo trasversale sui cui orientare gli interventi e le politiche. E da tale prospettiva pretendere che si sviluppi un’economia dei diritti, dove la cura torni a essere responsabilità pubblica, in un’ottica inclusiva, dentro e con le comunità e non scaricata sulle famiglie, e quindi sulle donne, o agita come mero contenimento, istituzionalizzazione o messa a profitto della sofferenza. Sono tante le cose da fare. Per questo “non c’è più tempo”.

Come Forum state lavorando soprattutto a livello locale, sia in termini di partecipazione che di costruzione di alternative. Perché questa scelta?
La pandemia è stata democratica nel colpire tutti, ma non nelle sue conseguenze. In questi mesi abbiamo proposto il Reddito di emergenza, visto che i ristori via via approvati non hanno toccato quelle persone, e sono circa sei milioni, che non avevano nessuna tutela. Parlo di lavoratori e lavoratrici in nero, precari e tutti quelli che non sono coperti dalle forme di ammortizzazione sociale. Ed è tra questi sei milioni che la pandemia sta incidendo maggiormente. Faccio un esempio: guardando alle famiglie che ruotano intorno alla Cooperativa Dedalus, dopo una settimana dal primo lockdown, nel 70 per cento dei casi non c’era più alcun reddito. Zero. In una settimana l’ansia di arrivare a fine mese si è trasformata in ansia di arrivare a fine giornata. E quando è così salta ogni attenzione a qualsiasi bisogno che non sia materiale. Le carriere scolastiche dei figli non sono più un problema, se c’è da disinvestire, mandando ad esempio un figlio a lavorare in nero, la famiglia lo fa.

Parlando di carriere scolastiche, non posso non chiedere un giudizio sulla didattica a distanza.
Nonostante gli sforzi straordinari di molti insegnanti che si sono inventati anche cose belle, nuove, a pagare il prezzo più alto sono stati gli alunni più fragili, figli dei poveri, migranti, i bambini e i ragazzi con Bisogni educativi speciali (BES). Anche qui, porto un dato concreto. In due quartieri napoletani, Scampia e Miano, i servizi sociali territoriali hanno segnalato come il rischio di abbandono e dispersione non solo diventi più denso nelle situazioni conosciute ma si stia allargando velocemente a nuclei familiari e minori che prima riuscivano a portare avanti le loro carriere scolastiche. E, soprattutto, segnalano la loro impotenza perché queste nuove situazioni si aggiungono alle tante preesistenti e di cui il welfare territoriale, massacrato da anni di sottrazioni economiche e politiche non riesce a farsi carico in modo adeguato. Sono bambini e ragazzi che spesso vivono in case di pochi metri quadrati, con famiglie numerose, dove, se c’è, il computer è uno solo a fronte di più figli. Dove spesso non ci sono spazi adeguati per studiare con la giusta attenzione. Ricordo, durante un incontro, una frase detta da una ragazza: “Sono stanca di fare lezione con il sedere di mia zia che passa davanti alla telecamera”. La pandemia ha colpito duramente chi era già diseguale e “non riconosciuto”. Per questo il Forum ha sempre sostenuto che le scuole dovevano essere l’ultima cosa a chiudere, perché in molte periferie, in molte aree marginali, sono l’unico presidio pubblico che ha relazioni con questo pezzo di popolazione. Come ha detto in un incontro una preside di Palermo: “Nel mio quartiere se chiude la scuola chiude anche la piazza, perché altra piazza non c’è”.

C’è stato però, in questi mesi difficili, un nuovo protagonismo che è emerso, penso a chi ha dato vita a esperienze di mutualismo. Cosa dimostra?
Dimostra che la politica, oggi, dovrebbe ricostruire la sua autorevolezza nel dialogo con la società, offrendo spazi di ragionamento e confronto, individuando cornici in cui ascoltare i territori, perché oggi è nei territori che troviamo la maggiore sapienza pubblica, una sapienza incentrata sul fare. La politica è ormai abituata, invece, a dialogare su rappresentazioni e non sulla realtà perché è più facile andare verso “il bianco e il nero”, più difficile farsi carico delle complessità. Serve un confronto sano, acceso, aperto, che diventi appartenenza. Il futuro del Paese passa da qui, dai territori: non dimentichiamoci che il 60 per cento dei fondi del Next Generation EU arriverà calato sui territori. O avremo la capacità di attivare reti integrate di governo pubblico o per l’ennesima volta assisteremo a spreco di soldi, servizi sbagliati, progetti disomogenei, dando nuova linfa a quella dinamica autoritaria che già era in atto prima della pandemia.

 

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