Maschere democratiche. La figura dell’ipocrisia tra storia e critica

Per Leonard Mazzone, il quale l'ha argomentato in "Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi", (uscito da poco per Orthotes), la nostra vita politica è affollata di esempi di “ipocrisia democratica”, dal tradimento sistematico dei valori di eguale libertà, pure affermati in generale. Si tratta di una strategia di immunizzazione dal potere della critica.

Camilla Emmenegger

Tra il 2015 e il 2016 la deregolamentazione del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act – che include tra le altre cose l’eliminazione dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa – è stata promossa dal governo in carica in nome dei benefici che ne sarebbero derivati per i lavoratori, soprattutto in termini di aumento dell’occupazione. Tra il 2018 e il 2019 il primo governo Conte ha giustificato la politica dei “porti chiusi” sostenendo che le nuove misure avrebbero dissuaso i migranti a partire dalle coste nordafricane, diminuendo così il numero di morti nel mar Mediterraneo. Più recentemente, l’operazione politica che ha portato alla nomina di Mario Draghi a Presidente del Consiglio è stata presentata come l’unica soluzione possibile per far fronte a un’emergenza politica e istituzionale, al punto da ottenere uno dei sostegni più ampi nella storia della Repubblica.

Secondo l’analisi proposta da Leonard Mazzone in Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi, uscito da poco per Orthotes, questi sono tutti esempi di “ipocrisia democratica”. Definibile come “il tradimento pratico dei valori di eguale libertà a cui gli attori istituzionali sono soliti richiamarsi per giustificare pubblicamente le loro decisioni” (p. 23), essa indica specificamente l’esistenza di uno scarto tra politiche adottate e ideali professati per giustificarle. In una sorta di paradossale inversione dei mezzi e dei fini, i valori democratici sono evocati strumentalmente per legittimare politiche che, nei metodi decisionali che hanno portato alla loro elaborazione, nei mezzi adottati per realizzarle o nei loro effetti pratici, risultano totalmente estranee, se non contrarie, a tali valori: “guerre dichiarate in nome della pace, legalizzazione dello stato di eccezione in nome della salvaguardia delle democrazie, cancellazione delle tutele a sostegno di chi lavora in nome dell’equità” (p. 14).

Nel rilevare questi scarti ipocriti nella politica democratica contemporanea, Mazzone rifiuta due distinte prospettive interpretative. Da un lato, la celebre diagnosi di Peter Sloterdijk sulla “ragion cinica”: a fronte di una ormai imperante “falsa coscienza illuminata” – del tutto disillusa verso le grandi promesse utopiche della modernità e ben consapevole del carattere fittizio dei proclami idealistici del potere – ogni mascheramento ipocrita risulterebbe superfluo. Come ha scritto Sloterdijk in Falsa coscienza, “facendo cadere la maschera, i potenti rinunciano a nascondere la propria indifferenza nei confronti del bene pubblico di cui sono ufficialmente responsabili” [P. Sloterdijk, Falsa coscienza. Forme del cinismo moderno, Mimesis, Milano 2019, p. 25]. Al contrario, sostiene Mazzone, la persistenza di richiami ipocriti a valori democratici sembra suggerire che la “svolta cinica” delle democrazie occidentali non si sia definitivamente compiuta.

Dall’altro, si tratta di non cedere alle posizioni di coloro che vedono nell’ipocrisia l’ultimo – e auspicabile – argine al cinismo spudorato, a una politica che non solo persegue fini esecrabili, ma non sente neanche il bisogno di nasconderli. Secondo queste posizioni, il continuo ricorso a mascheramenti ipocriti sarebbe cioè il segno della persistenza di un riferimento al valore, la dimostrazione che, nonostante tutto, nelle democrazie contemporanee non è ancora possibile dire e fare qualunque cosa. Se l’ipocrisia è l’inchino del vizio alla virtù, è segno che qualcosa della virtù – per quanto anche solo un vezzo – è rimasto: così Judith Shklar definisce l’ipocrisia un “vizio inevitabile”, mentre per Jon Elster diviene addirittura una “virtù desiderabile” della democrazia.

Tra una apologia indifferenziata delle forme contemporanee di ipocrisia e la rassegnazione cui conduce la tesi sloterdijkiana del cinismo spudorato, il libro di Leonard Mazzone mira allora ad aprire uno spazio teorico in cui risulti possibile elaborare una critica della ragione ipocrita. L’obiettivo, certo ambizioso, consiste nel “riprendere il filo della teoria critica là dove Sloterdijk l’aveva reciso” (p. 53): nel fare cioè dell’ipocrisia uno strumento concettuale capace di interrogare la complessa fenomenologia della falsa coscienza che risulti al contempo meno oneroso dell’ideologia e meno rassegnato del cinismo. A differenza di quest’ultimo, dove il falso collassa sul vero, l’ipocrisia mantiene, in quanto forma del mascheramento, la possibilità di distinguere una duplicità dei piani, sul cui scarto si innesta, tradizionalmente, la possibilità della critica. E se la categoria più celebre del mascheramento è certamente l’ideologia, Mazzone si preoccupa di sottolinearne la distanza dalla nozione di ipocrisia: strumento della critica geniale e al contempo estremamente ingombrante, l’ideologia presuppone l’esistenza di sistemi concettuali complessi che agiscono all’insaputa degli individui, i quali risultano dunque figure passive di un gioco che si svolge alle loro spalle. Al contrario, sottolinea Mazzone, l’ipocrisia “riconosce il ruolo attivo degli attori sociali nella creazione e nella riproduzione delle credenze socialmente funzionali alle relazioni di dominio” (p. 18), permettendo dunque di mettere in luce la dimensione attiva dell’agire soggettivo nella costruzione delle messinscene ipocrite.

Con l’intento dunque di conferire consistenza teorica e capacità critica a una categoria trascurata dalla teoria sociale e politica, l’operazione che Mazzone conduce intorno alla figura dell’ipocrisia è duplice. Anzitutto, un’immersione analitico-concettuale – condotta nella corposa introduzione – nelle diverse forme di ipocrisia: finta modestia, millanteria nascosta, cinismo mascherato, moralismo incoerente, biasimo paranoico, sarcasmo, dissimulazione, riservatezza sono tutti modi, tra loro eterogenei, di “dire il falso su di sé”. Obiettivo di tale immersione è l’elaborazione di una mappa concettuale capace di fornire un orientamento tra le differenti figure che compongono la galleria fenomenica della coscienza ipocrita.

All’interno di tale mappa concettuale, Mazzone insiste sulla distinzione tra “ipocrisia morale” e “ipocrisia psicologica”. La prima consiste nel “tradimento pratico delle qualità professate”, dunque in quello scarto tra valori e pratiche di cui l’ipocrisia democratica costituisce una sottospecie, e si contrappone quindi alla veracità, al “fare ciò che si dice”. La seconda rappresenta invece un tipo di dissimulazione della personalità tra cui rientrano le varie forme di reticenza dei subordinati nei confronti del potere, e che risulta opposta alla franchezza, cioè al “dire tutto ciò che si pensa”.

Tale distinzione mira in primo luogo a produrre una neutralizzazione assiologica dell’ipocrisia, disinnescandone l’immediato portato polemico, l’effetto di condanna morale spesso implicito nell’uso della nozione. In secondo luogo, essa consente di operare una politicizzazione dell’ipocrisia, in quanto riconduce le sue diverse forme alle differenti posizioni di potere di chi le esercita, permettendo così di ripensare criticamente le varie articolazioni del rapporto tra verità, potere e soggetto tanto nelle sue declinazioni dominative che in quelle emancipative.

Ma l’operazione principale condotta da Mazzone consiste nella ricostruzione genealogica della figura dell’ipocrisia all’interno del pensiero filosofico-politico occidentale: un’archeologia del termine che consente di ricostruirne la genesi e ripercorrerne le principali tappe e svolte semantiche. Già nelle sue origini, rinvenute nei testi greci antichi come l’Odissea e l’Iliade, ma anche nelle Storie di Erodoto, l’ipocrisia mostra una certa affinità semantica con la figura della critica, con cui condivide la radice etimologica: il verbo ὑποκρίνομαι è usato infatti inizialmente – e sorprendentemente – come sinonimo di “spiegare, interpretare” e si riferisce in particolare alla capacità di “spiegare eventi enigmatici”, come gli oracoli o i sogni. È con questa accezione, significativamente distante dal suo significato attuale, che l’ipocrisia entra nel lessico teatrale: nella tragedia greca l’ὑποκριτής è infatti la figura artistica preposta a rispondere alle domande del coro, finendo poi per designare, più in generale, l’attore teatrale.

Si inaugura così un gioco di rimandi e ribaltamenti tra teatro e politica che costituisce il movimento sotterraneo della storia del concetto fin nella modernità. Se è ancora unicamente nella sua accezione teatrale che Platone critica l’ipocrisia, all’interno della sua più generale condanna dell’arte come mera imitazione del mondo delle idee, già con Aristotele e poi soprattutto con Demostene si avvia il processo di metaforizzazione del termine, in cui il teatro – e con esso l’ipocrisia – è assunto a metafora della vita sociale e della politica in particolare: l’ipocrita diviene allora colui che recita una parte, che finge senza però offrire al suo pubblico gli strumenti per riconoscere la finzione.

La ricostruzione delle diverse tappe storiche che la figura dell’ipocrisia attraversa è condotta da Mazzone in riferimento costante alle specifiche immagini del mondo, agli universi di senso che dominano una certa epoca e che contribuiscono a determinare i mutamenti nelle accezioni semantiche e nelle connotazioni assiologiche del termine. Così, è con il cristianesimo –  cioè con un’immagine del mondo che declina la fede nel senso di un intimo convincimento individuale e prescrive la confessione come pratica di auto-veridizione – che l’ipocrisia subisce la sua condanna più radicale, in quanto forma di menzogna verso dio prima ancora che verso gli altri.

Con la modernità, invece, Mazzone mostra come “l’economia politica e la teoria politica diventino i principali canali della sua legittimazione teorica” (p. 135): il doppio sganciamento della morale dalla politica e dall’economia contribuisce infatti a fare dell’ipocrisia “il più socievole dei vizi”. Nella teoria politica essa viene assunta a strumento legittimo del potere, auspicabile in quanto alternativo alla violenza manifesta: è la volpe machiavelliana, le cui astuzie e dissimulazioni risultano spesso ben più efficaci della forza bruta del lione. Da strumento precipuo del potere, l’ipocrisia finisce poi per divenire la virtù per eccellenza di una figura centrale della politica moderna: il cortigiano, che fa dell’arte della simulazione e della dissimulazione la propria professione.

Ed è proprio la corte, come sottolinea giustamente Mazzone sulla scia di Norbert Elias, a costituire il “laboratorio antropotecnico in cui si sperimentano inedite forme di auto-controllo destinate a diffondersi nel resto della società” (p. 162). Non più unicamente prerogativa dei potenti né virtù precipua del cortigiano, l’ipocrisia assurge a vettore di neutralizzazione degli effetti socialmente deleteri delle passioni umane: è qui che emerge il potenziale civilizzatore dell’ipocrisia, forma di “auto-censura emozionale” che fa delle buone maniere una strategia di imbrigliamento degli impulsi più violenti. In particolare, è nell’economia politica che tale potere civilizzatore trova il suo campo privilegiato di estrinsecazione: se per Mandeville la virtù produce effetti deleteri sull’intera società, l’ipocrisia rappresenta il collante sociale indispensabile a rendere socialmente produttive passioni come l’avidità e la lussuria.

Attraversando l’epoca illuminista – dove il mito della trasparenza segna una tappa d’arresto nel percorso di valorizzazione sociale dell’ipocrisia – e le articolate riflessioni di pensatori quali Kant e Hegel, l’affresco storico proposto da Mazzone si conclude con l’analisi delle “ipocrisie strutturali” della tarda modernità: Marx, Freud, Nietzsche e Sartre sono gli autori chiamati in causa per rendere conto delle differenti declinazioni della figura dell’ipocrisia all’interno di immagini del mondo in cui definitivo risulta il congedo dalla rappresentazione di una coscienza trasparente a se stessa, e dove gioca invece un ruolo centrale la messa in luce delle dinamiche strutturali che contribuiscono a formare le soggettività. Qui l’ipocrisia è messa a confronto con le categorie ad essa affini, e spesso ben più celebri, di ideologia, inconscio e malafede. Un ultimo breve paragrafo è infine dedicato agli effetti di “neutralizzazione assiologica dell’ipocrisia” prodotta nel Novecento dalle scienze sociali, che intravedono nell’attitudine a “recitare una parte” – esemplificativa è in questo senso la sociologia drammaturgica di Erving Goffman – un tratto antropologico tipico dell’umano in quanto essere sociale.

Sebbene costituisca la parte più corposa del libro, la ricca ricostruzione storica – lo si è già accennato – è intesa da Mazzone in senso funzionale all’elaborazione di una prospettiva critica sulle forme contemporanee di ipocrisia democratica. Sulla scorta della tassonomia presentata nell’introduzione, Mazzone delinea i principali tipi dell’ipocrisia democratica, mostrando in particolare come essa funzioni nel senso di una “strategia di immunizzazione dei poteri dal contropotere della critica” (p. 284). All’attacco mossogli dalla critica a fronte di un avvenimento che stride con i valori professati, il potere opera cioè una delle seguenti mosse ipocrite: ad esempio, la “funzione di irresponsabilità” del potere, tra cui rientrano la simulazione di impotenza o la dichiarazione di ignoranza (“non ero in grado” o “non sapevo”); oppure la “giustizia simulata”, in cui si fa passare per interesse generale un’istanza funzionale a soli interessi particolari; o, ancora, la “finzione tragica e la necessità simulata”, quando certe scelte politiche vengono presentate come inevitabili, o vengono attribuite all’urgenza del momento.

La disamina di Mazzone risulta in questo senso approfondita e puntuale per quanto riguarda gli arcana imperii: nel libro viene via via affinato un utile strumento di individuazione, analisi e decostruzione di alcune delle principali strategie di mascheramento del potere. Un’operazione tanto più essenziale a fronte della “crisi epistemica” che stanno attraversando le democrazie contemporanee, in cui i confini tra verità e finzione, critica e complotto sfumano fino a confondersi, e di cui il fenomeno Trump oltreatlantico è stato ad oggi l’esempio più manifesto e (tutt’ora) pericoloso [L. Celada, Autunno americano, manifestolibri, Roma 2020].

Ma è proprio il carattere diffuso e radicato di questo annebbiamento epistemico a suggerire un approfondimento dell’approccio critico proposto da Mazzone. La distinzione, cui si è accennato, tra ipocrisia morale (annoverabile tra le strategie dominative del potere) e ipocrisia psicologica (comprendente invece le strategie critiche dei subordinati) lascia sullo sfondo un’opzione cui Mazzone accenna ma che non approfondisce: lo specifico tipo di ipocrisia morale che prende le forme dell’auto-inganno, consistente nel nascondere a se stessi la propria incoerenza. Anche qui si è di fronte a uno scarto tra azioni e dichiarazioni, ma il destinatario del mascheramento ipocrita è lo stesso soggetto che opera lo scarto.

All’interno di questa specifica figura dell’ipocrisia, rientrerebbero ad esempio tutte quelle strategie “difensive” dei subordinati che risultano però funzionali alla riproduzione delle relazioni di dominio. Ad esempio, recenti studi di psicopatologia sul new management nel lavoro, soprattutto di area francese, hanno mostrato l’esistenza tra i lavoratori di meccanismi di autoinganno [Si veda, per esempio, C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, Il Saggiatore, Milano 2000]: forme di diniego della propria complicità al sistema di dominio nel luogo di lavoro, che risultano fondamentali per evitare la sofferenza che la coscienza delle propria complicità potrebbe provocare; ma che contribuiscono al tempo stesso a riprodurre tale sistema, e con esso la sofferenza psichica e fisica che tale sistema provoca sui lavoratori.

Un approfondimento della figura dell’auto-inganno, come sotto-specie dell’ipocrisia morale, permetterebbe così di affinare la prospettiva critica proposta da Mazzone, rivolgendo lo sguardo non solo agli arcana del potere, né unicamente alle strategie emancipative dei soggetti, ma anche alle dinamiche paradossali di auto-asservimento. Consentirebbe infatti – portando fino in fondo l’assunzione preliminare di un riconoscimento del ruolo attivo degli attori sociali – di prendere in conto le dinamiche di costruzione e riproduzione attiva da parte dei subordinati delle proprie maschere. Maschere protettive, ma in fondo funzionali al mantenimento della propria posizione di subordinazione.

In ogni caso, in termini di critica delle strategie dominative, il libro di Mazzone offre un utile strumento per individuare e discernere le forme contemporanee di mascheramento del potere. In particolare, individuando nello scarto tra valori professati e politiche praticate la “condizione epistemica” fondamentale dell’ipocrisia democratica, la prospettiva proposta da Mazzone permette di “declinare in senso anti-idealistico la critica sociale” (p. 306): di spostare cioè il suo campo di intervento dallo scontro normativo tra valori differenti a quello pragmatico delle incoerenze tra ideali dichiarati e pratiche effettive. Senza giustamente pretendere di offrire un’arma di attacco risolutiva, la proposta di Mazzone ha però il grande merito di delimitare un terreno su cui risulta possibile costruire un “consenso in negativo”, circoscritto cioè al rifiuto delle messinscene politiche più che alla condivisione positiva di valori.

 

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