Iran un anno dopo, tra repressione e nuova rivolta

Il governo teocratico in Iran teme l'avvicinarsi del 16 settembre, quando ricorrerà l'anniversario della morte della giovane curda Mahsa Jina (il suo vero nome curdo) Amini. Il parlamento, il Majlis, sta discutendo nuove sanzioni e l'inasprimento di quelle esistenti per contenere la rinascita della protesta, ma lo slogan "Donne, vita, libertà" è ancora vivissimo, nonostante il tragico bilancio delle centinaia di morti e delle decine di migliaia di arresti.

Fabrizio Burattini

Il governo teocratico iraniano teme l’avvicinarsi del 16 settembre, quando ricorrerà l’anniversario della morte della giovane curda Mahsa Jina (il suo vero nome curdo) Amini, morta in una stazione di polizia 3 giorni dopo essere stata arrestata per strada dalla “polizia religiosa” dell’Iran per aver indossato “in maniera impropria” il velo islamico mentre era in visita nella capitale iraniana con la sua famiglia. La famiglia immediatamente negò che Amini soffrisse di condizioni di salute che avrebbero potuto contribuire alla sua morte, come sostenuto dalle autorità iraniane, affermando, anche con testimoni oculari, che era stata picchiata mentre veniva trascinata in carcere.

Quella morte provocò una prima protesta nella città di Saghez (nel Kurdistan), la città natale e di residenza di Mahsa, protesta che nei giorni successivi si diffuse in tutto il Paese e che alla fine rappresentò una delle più grandi minacce all’establishment clericale iraniano dalla fondazione della repubblica islamica nel 1979.

Si sviluppò un’enorme mobilitazione in primo luogo delle donne iraniane che poi alimentò la protesta generalizzata di ampi strati sociali contro gli ayatollah e il loro governo. Furono numerosissime le manifestazioni in tutto il paese, centinaia di manifestanti (si calcola oltre 500) furono uccisi, migliaia furono arrestati, accusati di aver provocato “rivolte fomentate da Israele e dal’Occidente”. Nel corso delle manifestazioni o dopo di esse più di novanta giornalisti sono stati arrestati e sottoposti a brutali interrogatori.

Narges Mohammadi, vice-presidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, che sta scontando una condanna a dieci anni di carcere, ha denunciato l’aumento delle violenze contro le donne in prigione e sottolinea che molte giovani donne entrano in carcere con segni visibili di torture subite in precedenza.

In vista di quell’anniversario, le autorità hanno intensificato la pressione contro i familiari delle persone uccise, con nuovi arresti, convocazioni per interrogatori e esplicite messe in guardia contro l’organizzazione di eventi commemorativi in ​​onore di Mahsa Amini o delle altre vittime della brutale repressione.

Saleh Nikbakht, avvocato della famiglia Amini e portavoce dell’Associazione dei prigionieri politici, è sotto processo, così come altri esponenti dell’opposizione democratica.

Molti noti attivisti sono stati arrestati, numerosi insegnanti e professori universitari (l’opposizione ne ha contati 157) sono stati licenziati per “slealtà verso il governo”. Tra questi, alla fine di agosto, anche Sharifi Zarchi, noto esperto di intelligenza artificiale dell’Università Tecnica Sharif, presidente del Comitato scientifico delle Olimpiadi Mondiali di informatica, che sui social ha annunciato il suo licenziamento pubblicando il verso di una nota poesia persiana che invita a sfidare ogni prepotenza.

Migliaia di studenti (al momento in cui scriviamo oltre 13.000) hanno firmato un manifesto per denunciare che “esperti di testi islamici” stanno sostituendo i professori licenziati e per chiedere il loro ritorno in classe.

Sui media del regime si moltiplicano gli avvertimenti verso le famiglie perché si controlli che le donne indossino regolarmente il velo islamico in pubblico. E si susseguono gli arresti di giovani donne che fanno colazione o pranzano nei caffè senza velo. Si reagisce alla repressione anche in modo scherzoso e con umorismo. Una nota regista ha suscitato l’ilarità generale in un ristorante quando le è stato chiesto di coprirsi il capo e lei l’ha fatto con un sacchetto di plastica che portava con sé. L’umorismo corrosivo è parte della rivolta, nonostante la rabbia e la durezza usata dagli agenti della repressione.

Sono state pubblicate fotografie che illustrano la crescente disobbedienza civile: donne che camminano, fanno la spesa o entrano nei caffè senza indossare il velo religioso. Il regime ha minacciato di chiusura i negozianti che permettono alle donne senza veli di fare acquisti nei loro locali. Ma così il risultato è solo quello di aumentare la base dell’opposizione.

Ashkan Amini, fratello di Mahsa, ha fatto sapere che una loro parente, Safa Aeli, è stata arrestata il 5 settembre a Saghez, senza che siano stati chiariti i motivi dell’arresto né che si possa sapere dove è stata condotta.

Il cantante Mehdi Yarrahi è stato arrestato per aver composto ed eseguito “una canzone illegale che sfida i costumi e la morale della società musulmana”, dove si invitano le donne ad abbandonare l’obbligo di coprirsi con il velo. Il popolare rapper Dorcci è stato arrestato per le sue performance contro la repressione e la corruzione. Il suo ultimo successo Damn things (con 20 milioni di visualizzazioni) viene ascoltato da molti giovani, così come la canzone vietata di Mehdi Yarrahi.

La giornalista Nazila Marufian è stata picchiata in pubblico e poi arrestata per non aver coperto i capelli. Ma il motivo reale è che la giornalista aveva pubblicato un’intervista ad Amjad Amini, padre di Mahsa, nella quale ribadiva che le autorità hanno mentito sulle circostanze della morte della figlia, deceduta per i colpi ricevuti alla testa durante la detenzione. Nei 12 mesi trascorsi dalla morte di Mahsa, Nazila Marufian, che si è incaricata di seguire il caso, è stata imprigionata quattro volte.

I giornalisti e le giornaliste arrestate sono tenuti a seguire “corsi di etica professionale” e non potranno lasciare il paese per cinque anni.

Javad Rouhi, un uomo di 30 anni in attesa di un nuovo processo dopo che la Corte Suprema aveva annullato la sua condanna a morte, è morto il 31 agosto per “un attacco epilettico”. Era accusato di aver guidato diverse proteste e di aver incitato alla violenza. Secondo le organizzazioni per i diritti umani in Iran, Rouhi è morto in seguito alle torture subite in carcere. Il “caso Rouhi” non giunge nel momento migliore per le autorità di Teheran, perché la morte del giovane, in circostanze analoghe a quelle di Mahsa, inevitabilmente rafforzerà la mobilitazione in occasione dell’anniversario del 16 settembre.

Il parlamento iraniano, il Majlis, sta discutendo nuove sanzioni e l’inasprimento di quelle esistenti per contenere la rinascita della protesta, ma lo slogan “Donne, vita, libertà” è ancora vivissimo, nonostante il tragico bilancio delle centinaia di morti e delle decine di migliaia di arresti.

CREDITI FOTO: EPA/CLEMENS BILAN



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