L’islam politico e l’inadeguatezza della sinistra

Nel dibattito che ciclicamente si riapre in Occidente riguardo al velo, al burqa e al burkini non possiamo trascurare un fatto fondamentale: gli indumenti di cui stiamo parlando non sono semplici ‘pezzi di stoffa’, ma dei simboli di oppressione, strumenti di una specifica battaglia politica. È anche attraverso il loro sdoganamento in nome di una malintesa libertà individuale, infatti, che l’islam politico cerca oggi di ottenere spazio e visibilità in Europa.

Mina Ahadi

Una premessa: l’islam politico
Nella discussione sul rapporto fra islam e democrazia c’è un punto che va chiarito preliminarmente perché la sua mancata comprensione inficia tutti i successivi argomenti. Quello di cui stiamo parlando è un problema politico e non culturale o religioso (o almeno non solo) e ciò con cui abbiamo a che fare è un movimento politico che possiamo chiamare appunto «islam politico». Si tratta di un movimento politico che agisce sotto diverse sigle ormai da circa quarant’anni nei paesi cosiddetti musulmani, dall’Iran alla Turchia, dal Sudan all’Afghanistan, e che oggi tenta di ottenere visibilità e spazio politico in Europa. È lo stesso movimento contro cui io stessa ho combattuto quarant’anni fa in Iran, a causa del quale non ho potuto frequentare l’università e che alla fine mi ha costretta a lasciare il mio paese. La strategia di questo movimento politico è di introdursi in Europa cercando di accreditarsi come movimento religioso: le varie organizzazioni «islamiche» presenti nei diversi paesi europei – come il Zentralrat der Muslime e l’Islmarat in Germania – non sono altro che «coperture» con cui questo movimento tenta di mettere piede in Europa. L’elemento centrale per individuare l’islam politico sta proprio nella pretesa che alcuni precetti della religione o della tradizione musulmana diventino legge dello Stato. Questo è il passaggio cruciale. Della cultura e della tradizione musulmana – che poi in realtà si articola nelle diverse culture e tradizioni nazionali – fanno certamente parte (esattamente come accade in tutte le culture tradizionali) alcuni «usi» totalmente incompatibili con la moderna democrazia: pensiamo per esempio al delitto d’onore, tipico anche della cultura cattolica di alcuni paesi del Mediterraneo. Quel che l’islam politico tenta di fare – e in questo si può ben definire fondamentalista – è rendere legge universale, legge dello Stato (questo è la sharia), queste tradizioni. E si tratta di un fenomeno relativamente recente. Quando ero bambina vivevo in un piccolo paese dell’Iran, indossavo il chador e sono stata cresciuta in modo molto tradizionale, anche dal punto di vista religioso. Quando avevo 14-15 anni però ho smesso di pregare e ho dichiarato di non essere più musulmana, senza che questo all’epoca mi procurasse la pena di morte! Anzi allora era abbastanza normale – esattamente come qui oggi – che i ragazzi non fossero religiosi. Quando ero piccola sentivo dai miei nonni frasi come «se tuo fratello ti trova con un fidanzato, ti ammazza», ma mia nonna è rimasta scioccata quando si sono viste le prime lapidazioni pubbliche, una cosa a cui lei in vita sua non aveva mai assistito.

Questo passaggio verso l’istituzionalizzazione dei precetti e delle tradizioni islamiche è quel che caratterizza l’islam politico, un movimento internazionale che ha sempre lavorato su due fronti: da un lato utilizzando gli attentati terroristici per seminare paura, dall’altro tentando di imporre la sharia. E finché gli islamisti erano lontani e lapidavano le donne o le sbattevano fuori dalle università in Iran, l’Occidente – intellettuali inclusi – ha osservato tutto con pazienza. Adesso però questo stesso movimento islamista – anche in questo caso composto da elementi diversi e talvolta anche in disaccordo tra loro, ognuno dei quali sostenuto ora dall’Arabia Saudita, ora dall’Iran, ora dalla Turchia – è giunto in Europa e tenta di imporsi anche qui.

Velo, burqa, burkini: simboli politici (da vietare)

Fatta questa premessa riusciamo forse a guardare più correttamente ai dibattiti che periodicamente si svolgono in Europa su velo e dintorni. L’ultimo in ordine di tempo è quello sul burkini in Francia. Per esprimere un giudizio su questi argomenti dobbiamo prendere coscienza che non si tratta di semplici «stoffe» o abbigliamenti tradizionali. Sono dei veri e propri simboli politici. Sono esattamente i mezzi attraverso cui quel movimento di cui parlavo prova a rendersi visibile e con questo a espandere la propria influenza culturale e politica nella società. Consentire di portare il burkini – lungi dall’essere un’occasione per le donne musulmane di uscire finalmente da casa – avrà come conseguenza che molte donne di famiglie musulmane in Europa da molti anni, che fino a oggi andavano a nuotare tranquillamente in costume, subiranno sempre maggiori pressioni per indossare il burkini. Questa storia la conosciamo molto bene: è esattamente quello che è accaduto in Iran quarant’anni fa, quello che è accaduto in Afghanistan e quello che sta accadendo in Turchia oggi. Élisabeth Badinter ha dichiarato che indossare la «divisa islamica» sulle spiagge di Nizza subito dopo gli attentati del 14 luglio è stata una «provocazione disgustosa», e io condivido questo pensiero. Perché si tratta appunto di una «divisa», simbolo di una precisa ideologia.

Io capisco che per un paese liberale sono questioni molto difficili da affrontare, perché nell’ambito della democrazia liberale è complicato trovare una giustificazione a un divieto che di fatto limita la libertà personale, eppure i fondamenti giuridici si possono e si debbono trovare. Oltre alle ragioni di natura igienica, per esempio, si possono certamente invocare la civile coesistenza tra diverse confessioni, che implica la necessità di evitare simboli religiosi in luoghi pubblici, ma soprattutto – e questo mi parrebbe già una ragione più che sufficiente – l’eguaglianza e la parità fra uomini e donne. Il burkini infatti – come il hijab, il chador e il burqa – sono i segni esteriori e visibili della posizione inferiore e subordinata della donna. Perché dietro a questi «pezzi di stoffa» c’è una precisa ideologia per la quale la donna è una merce di proprietà dell’uomo, che non può mostrarsi agli altri uomini. Come mai non viene mai previsto un obbligo per gli uomini? Per esempio di andare in giro con dei paraocchi per evitare di guardare le donne? Accettare i simboli di questa ideologia significa darle cittadinanza tout court.

Il (colpevole) fraintendimento della sinistra

Se vivessimo in un periodo «normale» io non avrei nessun problema a che una, due, dieci donne in Germania indossino il burkini. Ma questo non è un periodo normale: stiamo assistendo al tentativo da parte dell’islam politico di farsi spazio in Europa e il velo (soprattutto per le bambine), il burkini, l’ora di religione musulmana a scuola – branditi come diritti di una comunità religiosa – sono in realtà gli strumenti di questa strategia politica. Uso con moltissima cautela la parola islamizzazione perché molto spesso strumentalizzata dalla destra in chiave xenofoba, ma questo è il pericolo che stiamo correndo e non mi capacito di come le forze democratiche, e in particolare quelle del campo progressista, non lo capiscano. Anzi peggio, minimizzino o addirittura – e siamo al paradosso – difendono l’idea che si tratti di un diritto delle donne. Come si fa a sostenere che indossare un indumento che impedisce il contatto della pelle con l’acqua, o indossare un lunga stoffa che copre collo, capelli e spalle e impedisce i movimenti liberi, per non parlare ovviamente del burqa, una prigione ambulante, sia un diritto delle donne? Io non nego ovviamente che ci siano donne – specialmente europee convertite – che scelgono questi capi liberamente. Ma in quanto attivista dei diritti delle donne non mi occupo di questi sparuti casi isolati, ma del 99 per cento di donne che, qui in Europa e nei paesi cosiddetti musulmani, sono costrette (esplicitamente con la violenza, ma molto spesso con pressioni di ordine psicologico molto potenti, che affondano le radici nella famiglia e nella tradizione della comunità) a nascondersi sotto questi abiti. Queste sono le donne di cui dovremmo occuparci e che dovremmo difendere, donne che vivendo in Europa sentivano di avere qualche speranza di affrancarsi da queste imposizioni e che rischiano invece di essere nuovamente abbandonate alle pressioni della loro famiglia e della loro comunità. E se non agiamo subito, prendendo consapevolezza della portata politica della questione e facendo leva sulle lotte per l’emancipazione che in Europa sono già state fatte, ci ritroveremo un grosso problema in futuro. Se la sinistra non si sveglia da questo sonno che dura ormai da quarant’anni, movimenti populisti come l’Afd sono destinati a crescere.

La sinistra non capisce che l’islam politico non è l’espressione di popoli oppressi che lottano contro l’imperialismo americano. Se pensiamo che l’imperialismo americano sia la causa di tutti i mali del mondo e che l’islam politico sia lo slogan con cui i poveri del mondo lottano contro l’imperialismo americano, rischiamo di scivolare nel giustificazionismo: «Questi musulmani hanno un’altra cultura, picchiano le mogli, lapidano alcune donne, ma pazienza, quel che conta è che lottino contro gli Usa». E mentre noi portiamo avanti la nostra lotta antimperialista, le donne vengono sottomesse, picchiate, nascoste, lapidate. La sinistra non capisce che non stiamo parlando di una religione, di una cultura, stiamo parlando di un movimento politico, molto aggressivo, che non è il risultato della lotta del popolo, ma che è anzi contro il popolo. Il regime islamico in Iran non è il risultato della nostra rivoluzione contro lo scià, è anzi il rovesciamento dello spirito di quella rivoluzione, è un regime che ha ucciso vari «figli» di quella rivoluzione, ha ottenuto e mantenuto il potere con assassinî, esecuzioni capitali per strada eccetera e non capisco come faccia la sinistra a essere cieca di fronte a queste cose. Non ho mai sentito un esponente della Linke in Germania fare delle dichiarazioni contro le esecuzioni capitali. Quando Rohani ha ucciso con esecuzione capitale 740 persone in un anno, dalla Linke non c’è stata nessuna reazione. E cosa ha fatto o detto contro la lapidazione di molte donne in Iran e Afghanistan? La lapidazione non è un fatto culturale ma uno strumento di intimidazione politica: se una donna viene lapidata per strada, allora tutte le donne avranno paura e abbasseranno la testa. Io questa sinistra che tace di fronte a simili orrori non la capisco più.

è poi anche curioso che nel movimento femminista ci sia chi argomenta così: chi siamo noi, donne europee senza velo, per parlare a nome delle musulmane? Innanzitutto l’argomento può essere usato anche in senso contrario: se ciascuno è autorizzato a parlare solo per sé, allora portare il velo non autorizza nessuna a parlare a nome di tutte le donne che portano il velo. Le motivazioni che stanno dietro al velo possono essere molteplici, e il fatto che qualcuna lo abbia scelto liberamente non implica affatto che sia così per tutte. È chiaro che quando io parlo, parlo innanzitutto a nome mio, ma sarebbe utopistico pensare che ogni esser umano sulla faccia della terra sia nelle condizioni di autonomia e libertà per parlare per sé. Purtroppo non è così e io parlo a nome di tutte le donne che per paura non possono parlare, per tutte coloro che subiscono violenze e pressioni psicologiche, per tutte le donne lapidate che ho cercato di aiutare nel corso della mia vita. Nelle mie orecchie risuonano le loro voci ed è a quelle voci che intendo prestare la mia.

Io sono una donna di sinistra, sono sempre stata e continuo a definirmi comunista, anche se so che questa parola è problematica. La storia del comunismo è purtroppo anche storia di orrori. Io ho sempre militato nel campo del comunismo antisovietico, in formazioni minoritarie che si contrapponevano ai tradizionali partiti filosovietici (i cui eredi non a caso sono oggi i più fervidi multiculturalisti e sostenitori del «diritto» al velo). In molti ancora oggi a sinistra pensano che la lotta anticapitalistica e quella per i diritti umani siano due cose diverse, se non addirittura contrapposte, perché ritengono i diritti umani espressione di una concezione liberale. Io penso al contrario che i diritti umani possano essere garantiti solo superando l’attuale sistema capitalistico ed è per questo che la lotta per la laicità e per i diritti umani è una lotta di sinistra.

Il paradosso del multiculturalismo

È davvero curioso come la lente dell’antimperialismo possa distorcere le cose. Prendiamo appunto la questione dei diritti umani. Non è raro sentire esponenti della sinistra sostenere che in fondo i diritti umani sono il prodotto della cultura occidentale e volerli «imporre» ad altre culture è una forma di nuovo colonialismo. Siamo alla follia. I diritti umani sono universali, anzi devono essere considerati universali (poco importa chi li ha «inventati») perché sono l’unico strumento contro l’oppressione degli individui da parte delle loro comunità. E sono stati la bandiera di molte lotte anche nei paesi cosiddetti musulmani. Quando Khomeini prese il potere in Iran proclamava: «Noi non siamo né occidentali né orientali, siamo il regime islamico». La risposta delle donne che scesero in strada è stata: «Anche noi non siamo né occidentali né orientali, siamo universali». Se non guardiamo i diritti umani in maniera universalistica cadiamo nel relativismo culturale che in nome della «tolleranza» giustifica tutto. È così che il velo, da questione politica e di rapporti di potere fra uomini e donne, diventa un mero costume culturale.

Il multiculturalismo è un grande equivoco, alimentato dal pensiero postmoderno. Da più di vent’anni in Germania, e prima anche in Austria, porto avanti il mio lavoro contro la lapidazione, per i diritti delle donne, contro l’obbligo del velo eccetera e, parallelamente, contro il multiculturalismo e il pensiero postmoderno. Purtroppo su questo terreno gli intellettuali in Europa hanno fatto un pessimo lavoro, e credo sia oggi necessario un grande sforzo teorico. Questo multiculturalismo postmoderno ha fatto gravissimi danni sul piano politico, proprio perché ha trasferito su un piano «culturalista» questioni eminentemente politiche.

Il paradosso del multiculturalismo è che in nome della difesa dell’autonomia delle singole culture e comunità finisce per ignorare i singoli individui che compongono quelle comunità, in particolare quelli che sono in posizione subalterna. È esattamente quel che accade alle donne nelle comunità musulmane: esse sono costrette ad accettare la propria condizione subordinata perché questa è la loro cultura! E a causa di questo multiculturalismo imperante le voci dei dissidenti non si sentono, vengono ignorate. Personalmente, per esempio, non sono mai stata invitata nei principali talk show tedeschi, dove invece la fanno da padrone solo coloro che portano avanti questo becero relativismo culturale.

I ‘fatti di Colonia’ e l’accusa di islamofobia

Tutti ricorderete quel che è successo lo scorso anno la notte di San Silvestro a Colonia. Bene, io vivo proprio a Colonia e già il giorno dopo sapevo cosa fosse successo. Proprio nel quartiere della stazione uno dei nostri soci ha un chiosco e anche altre otto persone della nostra associazione (il Consiglio degli ex musulmani in Germania) erano lì quella notte. Il giorno dopo ci siamo sentiti telefonicamente e queste persone mi hanno detto che diversi stranieri avevano aggredito numerose donne. Si trattava di uomini che non parlavano tedesco, ma arabo e un po’ di inglese. Insomma, il giorno dopo io sapevo già che quella notte era davvero accaduto qualcosa eppure per tre giorni non se ne è sentito parlare, i media tacevano, la polizia mentiva. Dopo, quando la cosa è esplosa, c’è stata una prima manifestazione alla quale ho partecipato anch’io. Tutte coloro che hanno parlato, tra cui anche molte femministe, hanno incentrato i loro discorsi sul tema: «Anche in Germania succedono queste cose, non è una cosa che riguarda solo gli stranieri» e via seguitando in un vortice di minimizzazioni. Quando ho preso la parola io, ho detto che dal mio punto di vista invece si trattava di un caso abbastanza unico, che in simili modalità e in tale misura accadeva per la prima volta in Germania: il fatto che così tanti uomini aggredissero sistematicamente e in maniera preventivamente pianificata decine di donne, arrivando in alcuni casi persino a violentarle, non si era finora mai verificato. Le persone della nostra organizzazione che erano presenti mi hanno confermato questa mia impressione, ovvero che si trattasse di un fenomeno nuovo, un fenomeno di cui è indispensabile parlare. A questo riguardo, non accetto che qualcuno mi accusi di islamofobia: io voglio capire cosa è successo. Quello dell’aggressione sistematica alle donne è un tratto tipico di alcuni paesi cosiddetti musulmani, io in prima persona lo posso testimoniare come iraniana. Nei paesi islamici le donne hanno paura ad andare in giro, perché la donna è proprietà dell’uomo, che ne può avere diverse e deve proteggere le proprie, esattamente come si difende una proprietà privata. Le donne che non «appartengono» a nessuno – quelle che per esempio vanno in giro per strada non accompagnate – sono alla mercé degli altri uomini. Certo, non è un tratto distintivo esclusivamente del mondo musulmano: gli estremisti di destra che dopo i fatti di Colonia sono scesi in piazza urlando «proteggiamo le nostre donne» mostrano un’analoga forma mentis. Ma questo non ci autorizza a mistificare quel che è successo quella notte.

Se non parliamo apertamente di questi problemi rischiamo di tornare al medioevo e ad approfittarne saranno movimenti populisti di destra come l’Afd, che ha occupato uno spazio politico lasciato vuoto. È necessario rifiutare entrambe le semplificazioni: da una parte quella che viene da sinistra, che minimizza e non vuole riconoscere la specificità del problema, dall’altra quella degli estremisti di destra che colgono queste occasioni per creare un clima ostile agli stranieri. In mezzo ci siamo noi, stranieri laici. Qualcosa si muove nella società, in Germania la gente è per mentalità molto incline ai ragionamenti razionali e se si propongono risposte razionali trovano accoglienza; ci sono organizzazioni, associazioni della società civile, ma il panorama politico è desolante. Io auspicherei un partito umanista, solidale, in campo per i diritti umani, laico e con una posizione molto netta contro l’islam politico. Perché stiamo parlando di un fenomeno politico, ed è sul terreno politico che va combattuto.

Quando sono arrivata in Germania pensavo che avrei trovato un interlocutore politico nei Verdi, un partito impegnato sul fronte dei diritti umani, e sono andata da loro a parlare del mio lavoro contro la lapidazione delle donne. Ebbene, sono rimasta così delusa da come questo partito minimizzasse la problematica e da quanto freddamente guardassero alla questione. E tutt’oggi il loro atteggiamento non è mutato. Quando Simone Peter, leader dei Verdi, sostiene che «il divieto del burqa sarebbe uno zuccherino dato agli elettori in fuga dal centro verso l’Afd», risulta evidente che la signora Peter non ha la minima idea di ciò di cui stiamo parlando. La invito a venire a parlarne, e magari a indossare il burqa per qualche ora, per capire cosa si prova. È uno strumento che fa perdere la propria identità, la propria persona, il proprio volto, si perdono persino le sensazioni fisiche. È una tomba ambulante, cammini con una prigione addosso – e la parola prigione è già un eufemismo. Difendendo il «diritto» di portare il burqa, tu difendi una piccola parte di donne attive politicamente, di norma europee convertite, non certo il 99 per cento delle donne che sono obbligate ad andare in giro con questa tomba nera addosso. Il punto centrale è che il burqa non è un semplice abito tradizionale, ma è un modo per dare dei segnali, per dire al resto della società varie cose: che quell’essere umano che cammina lì sotto appartiene a qualcuno, che non ha diritti, per esempio non può divorziare, che la sua testimonianza in tribunale vale la metà, che il suo sangue costa la metà di quello di un uomo e così via. L’abbiamo già visto, e lo continuiamo a vedere. Purtroppo non è storia.

L’errore (fatale) dell’Occidente

Di fronte a questo movimento politico i governi dei paesi occidentali hanno condotto una politica a dir poco miope negli scorsi quarant’anni, e continuano a perseverare nell’errore ancora oggi. Nel corso della guerra fredda infatti i movimenti islamisti mediorientali sono stati non solo tollerati ma finanziati e sostenuti dall’Occidente in chiave antisovietica. E oggi i governi europei, che con i regimi islamici hanno grossi interessi economici, continuano a collaborare, qui in Europa, con quelle organizzazioni che altro non sono che rappresentanti di quel movimento politico. In Germania, per esempio, il governo ha organizzato la Conferenza islamica, chiamando a quel tavolo organizzazioni come l’Islamrat o il Zentralrat der Muslime, che pretendono di parlare a nome di quattro milioni di «musulmani». Ogni volta che c’è un attentato di matrice islamica o qualunque altra questione che riguarda l’islam, sentiamo il presidente del Zentralrat der Muslime, Aiman A. Mazyek, fare dichiarazioni a nome di «tutti i musulmani tedeschi», la stragrande maggioranza dei quali, invece, non si sente affatto rappresentata da lui. Anche questo fa parte della strategia di questo islam politico: primo, etichettare come automaticamente musulmani tutti gli stranieri che provengono dai paesi cosiddetti musulmani e, secondo, pensare che tutti i musulmani la pensino come Mazyek! Noi siamo innanzitutto quattro milioni di persone, poi siamo quattro milioni di stranieri, ognuno con la sua provenienza e con la sua storia. Fra questi ci sono certamente molti musulmani, ma anche molti fedeli di altre religioni e persino dei non credenti! E ancora: fra i musulmani, solo una piccola parte sono praticanti e ancora meno i fedeli di una visione integralista dell’islam. Insomma, queste organizzazioni rappresentano, a voler essere generosi, un 5 per cento di quei 4 milioni di persone, mentre pretendono di parlare a nome di tutti noi! Anche questo è parte della strategia dell’islam politico e infatti è un fenomeno relativamente nuovo: fino a qualche anno fa eravamo quattro milioni di stranieri, adesso siamo improvvisamente diventati quattro milioni di musulmani, un’etichetta che ha un fortissimo significato politico. Ed è per questo che il velo è diventato così importante. Oggi portare il velo ha un valore politico, nei mass media vengono invitate sempre più spesso donne col velo, che diventano sempre più importanti, sempre più famose. Perché ogni giorno c’è un dibattito sul velo, sul burqa, sul burkini? Perché non si parla degli indù? Degli italiani? Si continua a parlare sempre e solo dei musulmani e non perché siano particolarmente numerosi o importanti, ma proprio perché simili dibattiti fanno parte della strategia di questo movimento politico che sta tentando di introdurre anche in Europa una sorta di apartheid. E la cosa grave è che il governo riconosce loro questo diritto, accreditandoli come «rappresentanti dei musulmani tedeschi».

È esattamente per questo motivo che ho fondato qualche anno fa il Consiglio degli ex musulmani. L’occasione è stata proprio la convocazione della Conferenza per l’islam da parte del governo tedesco: all’epoca noi abbiamo protestato, abbiamo fatto delle manifestazioni per proclamare la nostra contrarietà, per dire che volevamo essere considerati in quanto persone, non in quanto «musulmani» e che le organizzazioni islamiche non ci rappresentavano, ma nessuno ci ha preso sul serio, né i politici né i media. Per questo abbiamo pensato fosse necessario darci un’organizzazione. Credere o non credere dovrebbe essere un affare privato, e tutti coloro che vivono in Germania e che vogliono fare politica possono farlo nei partiti e nelle associazioni che già esistono, a prescindere dal loro essere musulmani, cristiani o atei. Ma il movimento dell’islam politico pretende appunto di fare un uso politico della fede e questo «costringe» anche i non credenti a scendere in campo, quantomeno per non essere accomunati tutti sotto una stessa etichetta. E poiché per l’islam integralista uscire dalla religione è una violazione gravissima – una volta musulmano, sempre musulmano – che in alcuni paesi può persino portare alla condanna a morte, abbiamo pensato che fosse importante uscire allo scoperto e dichiarare il nostro non essere più, o non essere mai stati, musulmani. Una sorta di atto di disobbedienza, una provocazione politica, un po’ come le donne che negli anni Settanta proclamavano di aver abortito. Del Consiglio degli ex musulmani fanno parte persone che o hanno abbandonato la fede o non sono mai stati musulmani ma che, per il solo fatto di provenire dai cosiddetti paesi musulmani, vengono considerati tali. Gli stranieri sono innanzitutto persone, ciascuna con la propria fede, o con nessuna fede, e ciascuna col proprio orientamento politico. Siamo parte di questa società, molti di noi sono in parlamento nei diversi partiti, non abbiamo bisogno di nessuna specifica organizzazione, tanto meno islamica.

Laicità o barbarie

L’unico modo di affrontare le sfide poste da questo movimento dell’islam politico è una radicale scelta di laicità. La Germania, il paese in cui vivo ormai da vent’anni, non è completamente laica, la Chiesa cattolica e quelle protestanti hanno ancora una grande influenza nella società, e questo rappresenta un problema. Finché le Chiese cristiane avranno un tale ruolo – e così tanti soldi tramite le Kirchensteuer 1 – non avremo nessuna chance contro le pretese avanzate dall’islam politico. È assolutamente necessario che la separazione fra Stato e religione – per la quale gli europei hanno lottato negli scorsi secoli e che rappresenta una conquista di civiltà – venga sistematicamente implementata. I luoghi pubblici – scuole, tribunali, ospedali – non devono recare nessun simbolo religioso. Se io vado in un ospedale non voglio che i medici e gli infermieri mi vengano a dire «io sono marxista» o vadano in giro con una maglietta con il faccione di Marx; allo stesso modo non voglio una donna con il velo, che è un’ostentazione di un’identità religiosa. È mio interesse in quanto cittadina che i luoghi di lavoro siano neutrali. Se una donna vuole andare in giro col velo, liberissima di farlo per strada ma non sul luogo di lavoro, men che meno per esempio nelle scuole pubbliche. La recente sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha stabilito la possibilità per le insegnanti di indossare il velo anche nelle scuole pubbliche (a meno che questo non rappresenti un rischio «concreto» di turbativa delle attività scolastiche) è emblematica del clima politico che stiamo vivendo ed è una vittoria dell’islam politico, che così si fa sempre più visibile, persino nelle scuole. Ed è proprio dalle scuole che bisognerebbe riprendere la strada della laicità, a partire dall’abolizione delle lezioni di religione. I bambini non nascono appartenenti a una religione ed è assurdo che fin dalle elementari vengano divisi in gruppi per confessione religiosa. Quando saranno grandi faranno le scelte che vorranno ma a scuola la lezione di religione andrebbe sostituita con una di etica uguale per tutti. La laicità è la nostra unica salvezza.

(testo raccolto da Cinzia Sciuto)

1 La Kirchensteuer è il sistema di finanziamento delle religioni in Germania. È una tassa che ciascuno versa automaticamente alla Chiesa di cui è membro (per lo più si diventa membri di una Chiesa alla nascita, per esempio con il battesimo). Per non pagare più la tassa bisogna fare una vera e propria procedura di cancellazione dall’elenco di coloro che professano quella fede religiosa e non si può più di conseguenza accedere ai servizi religiosi, n.d.r.

(da MicroMega 8/2016)

credit foto ANSA /AKHTAR SOOMRO/JI



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