Israele e Palestina: perché si nega la sofferenza dell’altro?

Hamas è un'organizzazione politica e religiosa che si oppone alla pace, all'uguaglianza e ad ogni altro valore universale sostenuto dalla sinistra. Pretende di incarnare oggi la lotta per l’emancipazione nazionale palestinese, ma ciò che mostra nelle sue azioni è solo un mortifero nichilismo, pieno di odio e di sete di vendetta. Di una narrazione diversa e coraggiosa, di un discorso pubblico che stenta a emergere, a sinistra così come dentro il movimento delle donne, abbiamo enorme bisogno.

Monica Lanfranco

Sia la lettera/appello di decine di intellettuali e attivisti israeliani pubblicato da Micromega nei giorni scorsi contro l’insensibilità della sinistra globale verso il massacro del 7 ottobre, così come la manifestazione di attiviste e attivisti israeliani al Campidoglio negli Usa contro la guerra, che chiedevano il cassate il fuoco, parlano di un’altra narrazione rispetto alla spaventosa realtà del  mortifero scontro tra due popoli che condividono molta storia e cultura.
Di una narrazione diversa e coraggiosa, di un discorso pubblico che stenta a emergere, a sinistra così come dentro il movimento delle donne, abbiamo enorme bisogno.
Nel femminismo sono state partorite forme straordinarie di medietà, intermediazione e pratiche nonviolente, originarie proprio da quella zona del mondo, come Le donne in nero o come l’esperienza del Tribunale delle donne nella ex Iugoslavia.
Poche sono le voci in Italia che stanno provando a riflettere, nella consapevolezza che ci sono sedimentazioni di decenni di sangue, vendetta e morte nella storia di questi popoli.
Vorrei per questo lasciare spazio ad una testimonianza, quella di Sabina Zenobi, insegnante, attivista di ArciLesbica, che ha scritto questa breve riflessione, perché penso che possa servire a iniziare un confronto fuori dagli slogan.

“Circa 100 persone che vivevano nel kibbutz di Be’eri, uno dei più vecchi tra i kibbutzim sorti in Israele negli anni ’50, sono state assassinate dai membri di Hamas tra venerdì e sabato 7 ottobre. Altre sono state prese in ostaggio e portate nella striscia di Gaza. Il kibbutz è una comunità agricola autogestita in cui la proprietà è collettiva e i rapporti sono basati sul principio dell’uguaglianza e della solidarietà. Forse per questo io – che mi sono sempre riconosciuta nella tradizione socialista e marxista – rimango impressionata dalla gravità dell’azione compiuta da Hamas. Leggo sul sito Shalom achshav (Pace subito), un articolo in cui Sylvaine Bulle – docente di sociologia presso l’ENSA Paris- Diderot e attualmente ricercatrice al CNRS francese di Gerusalemme – scrive che tra le vittime del kibbutz figurano militanti pacifisti e anarchici, attiviste e attivisti in campo ecologico, oppositori e oppositrici del governo Netanyahu. Il kibbutz di Be’eri è oggi completamente devastato. A pochi chilometri si svolgeva il rave-party della pace, che aveva coinvolto più di mille giovani. Si stima che almeno 250 di questi ragazzi siano stati assassinati. Di nuovo rimango colpita. Una manifestazione ‘hippy’ di giovani la cui unica ‘colpa’ è stata quella di aver voluto ballare e divertirsi a pochi chilometri da uno dei confini più pericolosi del mondo. Probabilmente molti di loro erano a favore dei diritti dei Palestinesi. Immagino la loro festa come simile alle tante feste delle/dei giovani di sinistra qui in Europa. Contro queste espressioni, oserei dire, preziose, della vita democratica israeliana si è scatenata la barbarie islamista. Nella mia ingenuità ho pensato che finalmente la sinistra europea avrebbe condannato con vigore questi attentati che colpivano luoghi e valori per noi importanti, invece, come sempre quando si tratta di Israele, alcuni hanno addirittura gioito delle azioni di Hamas utili, a loro giudizio, per la causa del popolo palestinese, come se non sapessimo che il fine di Hamas è sempre stato quello di boicottare e far fallire i piani di pace tra Israele e Palestina, a partire dagli accordi di Oslo tra Yasser Arafat e Itzhak Rabin. Movimenti, associazioni e partiti politici di sinistra non negano che ci siano stati dei massacri nel kibbutz di Be’eri come in quello di Kfar Azà, ma ciò che conta, per questi compagni e compagne, prima di ogni altra cosa, è dimostrare che Israele è colpevole, ontologicamente colpevole.
Il movimento JCall[1] che riunisce alcuni cittadini ebrei europei insieme ad amici di Israele ha scritto in questi giorni un comunicato in cui rende noto che più di 60 intellettuali israeliani e attivisti per la pace hanno pubblicato domenica scorsa una lettera aperta in cui esprimono la loro profonda delusione per la ‘risposta inadeguata’ dei progressisti americani ed europei nei confronti del massacro perpetuato dai terroristi di Hamas contro i civili israeliani. ‘Con nostro sgomento, alcuni settori della sinistra globale che noi consideravamo nostri partner politici, hanno reagito con indifferenza a questi orribili eventi e talvolta hanno persino giustificato le azioni di Hamas’, si legge nella lettera. ‘Alcuni si sono rifiutati di condannare la violenza, sostenendo che gli estranei non hanno il diritto di giudicare le azioni degli oppressi. Altri hanno minimizzato la sofferenza e il trauma, colpevolizzando la società israeliana. E ci sono anche quelli – non pochi – per i quali il giorno dei massacri è stato motivo di festa’. Tra i firmatari della lettera figurano la prof.ssa Eva Illouz della Scuola di Studi Avanzati in Scienze Sociali di Parigi, Adam Raz, storico e attivista per i diritti umani, Mossi Raz, ex parlamentare del partito di sinistra Meretz, il prof. Aviad Kleinberg, presidente del Centro Accademico Ruppin, Alon-Lee Green, co-direttore di Standing Together, un’organizzazione che promuove la società condivisa arabo-ebraica, Odeh Bisharat, autore ed editorialista di Haaretz, la dottoressa Yael Sternhell, professoressa di storia all’Università di Tel Aviv e Vered Livneh, ex direttore esecutivo dell’Associazione per i diritti civili in Israele. In questo momento, più che mai, abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili da entrambe le parti”.

“Non avremmo mai immaginato che persone di sinistra, sostenitori dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia e del welfare, avrebbero rivelato una tale insensibilità morale e sconsideratezza politica”, hanno scritto gli intellettuali israeliani e gli attivisti per la pace nella loro lettera.
Hamas è un’organizzazione politica e religiosa che si oppone alla pace, all’uguaglianza e ad ogni altro valore universale sostenuto dalla sinistra. Fin dagli anni ’90 ha dichiarato di avere come fine la distruzione dello Stato di Israele e la lotta contro l’occidente, che persegue attraverso la strategia del “suicidio offensivo” portata avanti dai martiri, spesso donne e bambini, già praticata largamente da Hezbollah in Libano. Tuttavia, diversamente dalle operazioni condotte da Hezbollah contro i militari israeliani, gli attentati di Hamas e della Jihad islamica hanno sempre fatto numerose vittime tra i civili, forse anche per il fatto che i bersagli civili sono più facili da colpire e offrono una maggiore eco mediatica, rispetto alle vittime militari. Pretende di incarnare oggi la lotta per l’emancipazione nazionale palestinese, ma ciò che mostra nelle sue azioni è solo un mortifero nichilismo, pieno di odio e di sete di vendetta, niente a che vedere con l’immaginario politico e le forme in cui si esprimeva la resistenza palestinese durante l’intifada ai tempi di Yasser Arafat e Marwan Barghouti (vecchio leader del braccio armato del partito Fatah[2], a lungo imprigionato in Israele per reati terroristici). Hamas, come sostiene lo storico Georges Bensoussan, intervistato nei giorni scorsi dall’emittente radiofonica Europe 1, ha messo in scena la violenza allo stato puro, un’esplosione selvaggia e primordiale capace di assassinare donne e bambini guardandoli negli occhi. Questa violenza è particolarmente angosciante per noi, in quanto ci costringe a interrogare i confini della nostra comune umanità.

[1] JCall è un movimento autonomo di ebrei europei che vogliono fare sentire la loro voce senza essere legati a partiti o movimenti israeliani. I promotori e firmatari di JCall non contestano la legittimità e rappresentatività delle organizzazioni ebraiche ufficiali. Intendono però dissociarsi da un loro sostegno troppo spesso acritico alle politiche dei governi di Israele. Rivendicano inoltre il diritto di esprimere il loro dissenso allorché tali politiche sono pericolose per gli interessi stessi dello stato. Al tempo stesso condannano con forza le campagne di delegittimazione di Israele in quanto stato in atto in più paesi europei.

[2] Al-Fatah oppure Fatah, in arabo “l’Apertura”, è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, facente parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)

CREDITI FOTO: ANSA/Laurence Figà-Talamanca



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