Israele-Palestina: frammenti di analisi da una prospettiva laica

Fra paragoni azzardati e messe alla gogna di voci dissonanti, la semplificazione è all’ordine del giorno nel dibattito sull’attuale fase della questione israelo-palestinese. Eppure, denunciare l’occupazione israeliana, rivendicare il diritto del popolo palestinese alla terra e contestualmente sottolineare il pieno diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza, non solo è possibile, ma deve essere il nostro imperativo.

Cinzia Sciuto

Più di una settimana è trascorsa dall’attacco terroristico senza precedenti sferrato da Hamas in territorio israeliano, con il deliberato massacro di più di mille civili e la presa in ostaggio di 120 persone, e dalla immediata reazione di Israele, che ha messo la Striscia di Gaza sotto un assedio totale e l’ha bombardata incessantemente, provocando a oggi già più di duemila vittime e centinaia di migliaia di sfollati. Proprio come nei giorni e nelle settimane successive al 22 febbraio 2022, quando le truppe di Putin invasero l’Ucraina e l’Europa si ritrovò improvvisamente con un fronte di guerra vicinissimo, lo shock delle vicende dell’ultima settimana è tale che la ragione fa fatica a districarsi fra le emozioni che stringono il cuore. Qui di seguito un tentativo di analisi, per forza di cose frammentaria.

Solidarietà con i popoli palestinese e israeliano
Mai come oggi è indispensabile separare i popoli dalle élite che li governano. Non perché il popolo abbia sempre ragione e il governo sempre torto, ma semplicemente perché il “popolo” non è una massa uniforme e omogenea. Dentro “il popolo” si trovano movimenti politici plurali che non necessariamente condividono metodi e obiettivi non solo con chi li governa ma anche con altri movimenti del loro stesso popolo. Come abbiamo già osservato, la società civile israeliana non è un monolite compatto, tutt’altro. È dall’interno del mondo israeliano che si levano le voci più potenti e credibili di critica non solo all’attuale governo Netanyahu (un leader che, val la pena ricordarlo, è sempre stato ostile a qualunque processo di pace con i palestinesi, a partire dagli Accordi di Oslo che all’epoca aveva ferocemente attaccato), ma anche alla politica israeliana precedente a questo esecutivo.
Se dunque la solidarietà al popolo israeliano non può prescindere dalla denuncia dell’occupazione, dell’apartheid, delle colonie (tutte violazioni più volte condannate dall’Onu), anche per la solidarietà al popolo palestinese è giunto il momento della chiarezza.
Oggi qualunque manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese che voglia rimanere nel solco della democrazia, della laicità e del rispetto dei diritti umani non può prescindere da tre premesse irrinunciabili: la condanna totale e senza nessun distinguo delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso; il rifiuto della cornice religiosa fondamentalista nella quale Hamas ha inserito la lotta del popolo palestinese; la dichiarazione convinta che Israele ha diritto a esistere e vivere in sicurezza.
Denunciare l’occupazione israeliana, rivendicare il diritto del popolo palestinese alla terra e contestualmente sottolineare il pieno diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza possono essere considerati obiettivi in contraddizione solo da chi di contestualizzazione in contestualizzazione arriva in fondo a quel 1948 quando nacque lo Stato di Israele, che per molti è il suo peccato originale. Ora, il punto è il seguente: anche chi ritenga che la nascita dello Stato di Israele fu un errore e una violazione dei diritti dei palestinesi, non può oggi, 75 anni dopo, pensare seriamente che Israele debba sparire per riparare quel torto. Il che non significa non poter storicamente discutere dell’opportunità o meno della risoluzione Onu 181 dell’Onu, ma che la decisione di allora non può essere oggi oggetto di discussione politica o può esserlo solo come punto di partenza per guardare al futuro. Un futuro che non può riavvolgere il nastro della storia.

Cancellazioni, epurazioni, messa alla gogna
All’indomani della guerra scatenata da Putin all’Ucraina assistemmo a scomposte reazioni di messe al bando e cancellazioni di voci, personalità, artisti russi. Ci fu persino chi iniziò a dire che non bisognava leggere più Tolstoj o Dostoevskij. Oggi assistiamo a un analogo rigurgito censorio nei confronti di voci che, per le loro posizioni critiche nei confronti di Israele, vengono additate alla pubblica gogna come tout court fiancheggiatrici di Hamas e per conseguenza vengono bandite dallo spazio pubblico. È quello che è accaduto a Patrick Zaki, la cui partecipazione alla trasmissione di Fazio è stata annullata dopo che sui social aveva definito Netanyahu un “serial killer”, o Moni Ovadia che ha deciso di rassegnare le sue dimissioni da direttore artistico del Teatro di Ferrara su richiesta di Fratelli d’Italia (il cui pedigree di rispetto dei diritti umani e posizioni specchiatamente democratiche è francamente dubbio). La più recente e illustre vittima di questo atteggiamento censorio è la scrittrice Adonia Shibli, scrittrice palestinese il cui romanzo Un dettaglio minore (in Italia edito dalla Nave di Teseo) è stato insignito di un premio letterario in Germania che avrebbe dovuto ritirare durante la Fiera del libro che si apre fra pochi giorni a Francoforte. Evento annullato perché alla luce della nuova situazione geopolitica è stato ritenuto inopportuno. Come ha dichiarato la scrittrice tedesca Eva Menasse, portavoce del PEN-Berlin, “nessun libro diventa diverso, migliore, peggiore o più pericoloso perché cambia la situazione politica. Un libro o è degno di un premio oppure non lo è”.
Questi atteggiamenti censori sono espressione di un atteggiamento moralistico che pretende di stabilire chi ha diritto a prendere parola e chi no, impedendo un confronto netto, franco e leale fra posizioni politiche anche radicalmente diverse. Quando scoppiò la guerra in Ucraina MicroMega prese una posizione nettamente controtendenza rispetto a quella della stragrande maggioranza del suo mondo di riferimento (incluso lo stesso Moni Ovadia), ma le posizioni lontane dalle nostre non le abbiamo mai ostracizzate né messe alla gogna. Al contrario le abbiamo sempre invitate al confronto.

Analogia Hamas-Isis
In molti, a partire dal presidente israeliano Netanyahu, hanno paragonato in questi giorni Hamas all’Isis. Un paragone che serve a mobilitare l’opinione pubblica mondiale a sostegno di una guerra che, se Hamas è come l’Isis, non riguarda più solo Israele ma il mondo intero. Una strategia speculare a quella della stessa Hamas che, adottando i metodi dell’Isis punta (sciaguratamente) a connettere la causa nazionale del popolo palestinese con la jihad islamica mondiale, nel tentativo di mobilitare la umma islamica ovunque nel mondo.
Se qualche elemento di analogia dunque è certamente rinvenibile, non mancano però le differenze. Hamas è un movimento con un radicamento territoriale forte e un innegabile ampio consenso nella popolazione palestinese, governa dal 2007 la Striscia di Gaza, ha suoi rappresentanti in altri Paesi arabi e ha, in maniera più o meno velata, inevitabili rapporti con il governo israeliano. Nonostante infatti Israele si sia ritirato dalla Striscia nel 2006, ne controlla completamente i confini facendo parlare diversi osservatori internazionali nonché l’Assemblea generale dell’Onu di una occupazione di fatto.

Il paragone con l’Ucraina e con l’11 settembre
Un’altra analogia sovente proposta è quella con l’Ucraina, proposta persino dal presidente Zelensky stesso, un paragone però del tutto fuori fuoco. L’Ucraina ha subìto una invasione militare in pieno stile novecentesco da parte dell’esercito di uno Stato sovrano, che è anche una potenza militare mondiale. Israele non è stato invaso da nessun esercito, ha subìto un atroce attacco terroristico da parte di un movimento politico-terroristico che certamente vorrebbe vederlo sparire dalla carta geografica, che gode sicuramente di supporto da parte di qualche Stato ma che non rappresenta esso stesso nessuno Stato, nessun esercito, nessuna potenza né militare, né economica, né politica. E così come Hamas non è la Russia di Putin, la reazione di Israele non è paragonabile a quella ucraina: non risulta, infatti, che per difendersi dall’invasione russa l’Ucraina abbia assediato né bombardato nessuna città russa.
Quello che è accaduto sabato 7 ottobre in Israele è molto più simile a quello che è accaduto l’11 settembre 2001 negli Usa. E anche le due reazioni sono paragonabili. Già allora in molti sostennero che il terrorismo – specie quello internazionale di stampo jihadista – non si combatte con le stesse armi con cui si combatte una “normale” guerra fra Stati. Si parlò allora della necessità di azioni di polizia globali piuttosto che di azioni di guerra, bombardamenti, invasioni di Paesi. Parole rimaste ahimè inascoltate.

La sicurezza di Israele
E anche oggi le parole di chi chiede che la risposta di Israele rimanga nell’ambito del diritto internazionale e non si traduca in una pura vendetta, quelle di chi sostiene che non si può rispondere a un crimine contro l’umanità come quello commesso da Hamas con un crimine di guerra come quello che sta commettendo Israele con l’assedio di Gaza e con la programmata invasione di terra (parole che con toni e sfumature diverse vengono dall’Onu, da tanti ebrei fuori e dentro Israele, persino dagli Stati Uniti) sembrano destinate a rimanere inascoltate.
Eppure, oltre a ragioni di diritto internazionale e umanitarie, è anche nel preciso interesse di Israele trovare un’altra via. Israele non può infatti seriamente pensare che la propria sicurezza possa essere garantita sul lungo termine dalla forza militare. Israele è un Paese di neanche 10 milioni di abitanti letteralmente circondato da Paesi a maggioranza araba che vedono nel popolo palestinese un popolo martire. E così come trucidare israeliani innocenti non è nell’interesse del popolo palestinese, alimentare l’odio e la rabbia nei propri confronti con un’azione militare che rischia di avere conseguenze devastanti sulla popolazione civile palestinese non è nell’interesse di Israele.

CREDITI FOTO EPA/MARTIN DIVISEK



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