L’Italia impoverita avanguardia dell’economia del debito

L’Italia si può definire un’avanguardista dell’economia del debito. Lo illustrano magistralmente Marco Bertorello e Danilo Corradi in “Lo strano caso del debito italiano. Storia di un anomalia divenuta globale”. Se infatti il debito pubblico è stato al centro dello sviluppo economico italiano anche prima della Seconda guerra mondiale e negli ultimi cinquant'anni escluso qualche periodo di impennata della crescita economica, è diventato normalità in tutto il mondo occidentale dai processi di finanziarizzazione dell’economica, culminati nella crisi finanziaria del 2007-2008, fino ad oggi.

Piero Bevilacqua

La prima nota di merito che va al lavoro a quattro mani di  Marco Bertorello e Danilo Corradi (Lo strano caso del debito italiano. Storia di una anomalia divenuta globale, Alegre 2023, pp. 362, 18 €) è il coraggio intellettuale con cui i due autori hanno affrontato uno dei più complessi problemi dell’economia nazionale entro un quadro temporale secolare, con sistematici raffronti internazionali, pur senza avere alle spalle le solide istituzioni (Banca d’Italia, Università o gruppi privati) con cui normalmente gli studiosi si avventurano in tali imprese.
Per la cronaca, Bertorello è un operaio del porto di Genova, Corradi un giovane storico uscito dalla Sapienza di Roma, che insegna nelle scuole della Repubblica. Il merito si accresce e si comprende meglio se si considera che oggi i giovani ricercatori dell’Università italiana, per via del processo di aziendalizzazione avviato in Europa con il cosiddetto “Processo di Bologna”, iniziano  la propria carriera con ricerche iper specialistiche e di immediata resa, finalizzando i propri studi a massimizzare le convenienze di carriera e bandendo dal proprio orizzonte ogni progetto di grande respiro, e qualunque impresa  necessiti di anni di studio.
Non appaia questa premessa una sorta di excusatio non petita per mettere preliminarmente i risultati del lavoro a riparo da una critica di dilettantismo. Siamo di fronte a un testo storiograficamente maturo, che padroneggia le fonti istituzionali e quelle accademiche, sorretto da ipotesi interpretative scientificamente plausibili, consapevole dei limiti inevitabili e della difficoltà del compito. È sufficiente leggere l’introduzione per constatarlo.
Bertorello e Corradi non solo affrontano un nodo di grande complessità, ma lo fanno partendo dalla fondazione dello Stato unitario, che nasce, com’è noto, nei debiti, avendo dovuto sostenere i costi di ben tre guerre d’indipendenza. Un punto di partenza di doppio significato, perché in questo modo la periodizzazione copre l’intera vicenda dell’Italia unita, arrivando sino ai giorni nostri, e perché l’inizio costituisce uno dei punti fermi di tutta la ricerca, secondo cui «guerra ed espansione del debito pubblico sono intimamente legate».
La periodizzazione proposta dai due autori appare abbastanza lineare e ben documentata, soprattutto per la storia dell’Italia repubblicana, quando le fonti statistiche sono più certe e i criteri metodologici di misurazione più raffinati, soprattutto quando esiste la possibilità di misurare il Pil e quindi di valutare comparativamente la percentuale del debito. L’Italia è un paese che ha avuto sempre un debito elevato, che ha conosciuto momenti di significativa riduzione e contenimento solo di rado – tra il 1943-1947, in coincidenza con il crollo della lira, e nella fase dei cosiddetti Trenta gloriosi, grazie alla costante e rilevante crescita economica – ma ha dovuto fare i conti con lunghe fasi di ascesa, quando non  di impennata. Ad esempio durante le due guerre mondiali, e negli anni Ottanta, allorché comincia un incremento elevato che per alcuni decenni ha fatto dell’Italia una grave anomalia nello scenario europeo e internazionale. Ma il nucleo di originalità de Lo strano caso del debito italiano si condensa nella tesi sulle cause di questo indebitamento cumulativo, che condiziona da quasi mezzo secolo l’economia e la vita del nostro paese, e sul carattere per così dire anticipatore dell’anomalia italiana: nel senso che il processo di grave indebitamento pubblico dell’Italia, che a lungo è stato un caso a sé, dopo la grande crisi del 2007-2008 diventa una fenomeno globale che investe gran parte dei grandi Paesi avanzati.
Un fenomeno quest’ultimo, che sembra confermare empiricamente la spiegazione. I due autori, infatti, pur senza sottovalutarli, non attribuiscono le ragioni strutturali del processo di indebitamento alla cattiva politica dei governi e dei partiti, al clientelismo, alla corruzione, ecc. Ma a ragioni che hanno a che fare con le contraddizioni e la fragilità del sistema capitalistico nazionale. Verrebbe a tal proposito spontaneo osservare che manca nel calcolo delle cause del debito il peso dei trasferimenti finanziari dal centro alle Regioni dopo il 1970, che dilatò notevolmente la spesa pubblica, e che può ben giustificare le statistiche di incremento che partono da quegli anni. Tuttavia, nella  logica di un racconto a scala globale e comparativa – che non può più di tanto indulgere negli aspetti settoriali – le interpretazioni avanzate dagli autori appaiono più persuasive del senso comune.
L’espansione della spesa pubblica in quegli anni e quindi l’aumento del debito, appare più realisticamente una scelta pragmatica “delle classi dirigenti di allora, a sostegno di un capitale che faticava a reggere la conflittualità sociale e la minore protezione dalla concorrenza internazionale”. Dopo le grandi lotte operaie della fine degli anni Sessanta, che intaccarono il processo di accumulazione capitalistica, “il debito pubblico svolse, in una prima fase, un ruolo fondamentale nel mantenere la domanda aggregata, e fu espressione di una iniziativa statale che favorì un basso indebitamento del capitale privato e un rafforzamento dei suoi rendimenti che sostenne la ristrutturazione dell’industria e una collocazione degli investimenti privati in settori a minor rischio d’impresa”. Ma l’osservazione più persuasiva avanzata dagli autori è che nel corso degli anni Settanta anche gli altri grandi Paesi europei, Germania, Francia e Regno Unito accrescono la spesa pubblica in misura ben maggiore dell’Italia e a fronte di un aumento della pressione fiscale sui propri cittadini. In Italia, peraltro, la spesa non è indirizzata su settori strategici, scuola, ricerca, servizi avanzati, ecc., mentre le entrate fiscali sono comparativamente inferiori e il debito conosce significativamente un incremento che non si ritrova negli altri Stati.
Questo a mio avviso costituisce un aspetto non secondario dell’anomalia italiana, che forse meritava una maggiore centralità nell’economia della narrazione. Anche perché, se è vero che tanti grandi Paesi si sono indebitati come l’Italia, noi tuttavia siamo anche avviati a un generale declino. Ancora oggi il sistema fiscale iniquo, con poche aliquote, gravato da una vasta evasione, è alla base di una scarsissima redistribuzione della ricchezza, del blocco della mobilità sociale, delle gravi disuguaglianze che deprimono la domanda aggregata e impoveriscono il welfare. L’Italia è un paese con una rilevante e crescente ricchezza finanziaria privata – come documentano i periodici bollettini della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie – cui si accompagna un crescente impoverimento della sfera pubblica. Il resto l’hanno fatto le politiche del lavoro, che hanno concesso alle imprese forza-lavoro precaria e a basso costo, incentivandole a risparmiare sull’innovazione tecnologica. Senza la sottolineatura di questo nodo, che segnala una cieca politica di classe dei gruppi dirigenti nazionali e l’asservimento delle élites politiche alle pressioni disordinate dei ceti e delle forze prevalenti, gli autori rischiano, contro la loro volontà, di far sparire la colpevole anomalia italiana  nel grande mare della sua generalizzazione internazionale
“Gli anni Ottanta sono il decennio in cui il rapporto debito/Pil raggiunge livelli mai toccati in tempo di pace”, ricordano gli autori. Ma da lì parte il fenomeno che innesca il circolo vizioso, tuttora all’opera, della  crescente spesa per interessi. Nel 1990 il rapporto spesa per interessi/Pil è diventato in Italia più del doppio degli Usa, oltre due volte e mezzo quello del Regno Unito e del  Giappone, quasi quattro volte quello della Francia. L’Italia entra dunque negli anni  della deregulation, della crisi e sconfitta del movimento operaio internazionale, del crollo dell’Urss, della cosiddetta globalizzazione, con un peso crescente del debito che ne acuisce la debolezza strutturale, ma finendo paradossalmente col porsi come avanguardia negativa di un processo destinato a diventare mondiale.
In quegli anni si consolida, a partire dal Regno Unito, un meccanismo di accumulazione del capitale fondato sull’indebitamento privato  che viene supportato da un’espansione senza precedenti del sistema finanziario. Si assiste di anno in anno alla moltiplicazione degli asset finanziari e immobiliari sostenuti da una politica monetaria di bassi tassi d’interesse da parte delle banche centrali, che rende conveniente l’indebitamento. Allora non erano in vista  pericoli d’inflazione, il costo del petrolio restava basso, i salari erano stati messi sotto controllo grazie anche alla precarizzazione del lavoro e all’emarginazione dei sindacati,  così l’espansione si autoalimentava. S’innescò allora un circolo esaltante: i bassi tassi permettevano un alto livello di indebitamento, l’indebitamento stimolava la domanda di prodotti finanziari e immobiliari, questi salivano di prezzo e accrescevano il valore dei patrimoni che venivano messi a garanzia di nuovi prestiti. Il capitalismo finanziario che Luciano Gallino mise in luce nei suoi ultimi grandi lavori, celebrò allora i suoi trionfi, soprattutto negli Usa. E negli USA, com’è noto, il castello di carte venne giù con il fallimento della Lehman Brothers e con la crisi dei mutui sub-prime.
Gli autori, nel descrivere l’avvio di quell’evento, fanno un felice richiamo alle sue cause sociali. I mutuatari che non potevano più pagare il mutuo per le case acquistate costituivano “una fotografia potente delle contraddizioni in campo: il mondo del lavoro povero, precario, espressione della decennale politica di compressione dei salari diveniva improvvisamente l’innesco di una profonda crisi finanziaria”, mondiale.
Dalla crisi del 2007- 2008 l’anomalia italiana diventa golobale. Tra il 2011 e il 2013  il debito pubblico  crebbe in Italia di 923 euro,  di 2.034 sterline nel Regno Unito e di 3.863 dollari negli Stati Uniti. Un  tendenza che la pandemia da Covid 19 ha accresciuto e reso universale e che la crescita nefasta della spesa in armamenti, prima e dopo la guerra in Ucraina, rischia di portare a livelli di insostenibilità dagli esiti imprevedibili.

 



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