In ricordo di Javier Marías

Lo scrittore spagnolo, uno tra i maggiori autori moderni, è scomparso l'11 settembre, a 70 anni.

Maria Concetta Tringali

La notizia è un’ultima ora di quelle che freddano: è morto a settant’anni, a Madrid, Javier Marías. E questo non è un coccodrillo: decisamente non era un pezzo che avremmo voluto preparare. Ricoverato da qualche tempo, lo scrittore madrileno, tra i più apprezzati della contemporaneità, se ne va certamente troppo, troppo presto. E succede, pare, per gli esiti di una polmonite.

Era uscito a febbraio per Einaudi il suo ultimo lavoro, Tomás Nevinson, al quale MicroMega aveva dedicato un contributo poche settimane fa. Seguiva di pochi anni Berta Isla, altro romanzo dal respiro immenso.

Donne e uomini autentici, dentro le sue pagine, sinceramente costretti e confusi in una dimensione di tempo e di spazio sempre troppo rigida per non risultare inadeguata.

A riguardarla adesso, quella produzione letteraria, ci si trova immediatamente invasi dalla perdita che annichilisce.

Il lutto è un grumo di sofferenza da elaborare, lasciar defluire, sciogliere, ciascuno lo sa bene. Quando non è sentimento perché non ci ferisce da troppo vicino è però, indubbiamente, emozione: una roba che ci si appiccica sulla pelle tutte le volte in cui a lasciare questo mondo è qualcuno cui dobbiamo qualcosa. A Marías dobbiamo molto, per la verità.

Con lui se ne va lo scrittore, il traduttore e il giornalista, una penna che ha saputo creare suggestioni magiche che pur rimanendo al di fuori dagli schemi della narrazione classica diventavano però eterne, nel momento stesso in cui raggiungevano il lettore o la lettrice. Un ritmo che incatena, una riga dopo l’altra, libri che seguono chi li sceglie e lo accompagnano fino all’ultima sillaba. E oltre.

Se ne va un visionario che ha saputo raccontare come pochi la profondità dell’animo umano: echi di vibrazioni irraggiano le sue pagine, come radiazioni che illuminano e oggi feriscono.

Marías si consacra uno tra i maggiori autori moderni. Come chi, nell’arte, ha saputo rendere la vita per ciò che più autenticamente è: una tragedia senza tempo. Scomodare Shakespeare è il meno che si possa fare: tutti i suoi romanzi in qualche misura lo evocano, ci trascinano e ci corrompono, ci fanno ragionare e ci interrogano.

A chi resta non può che avanzare un compito che è insieme privilegio: leggere (o rileggere) le sue preziose pagine. Tirare giù dagli scaffali, uno a uno, Un cuore così bianco, Gli innamoramenti, Domani nella battaglia pensa a me, Tutte le anime, L’uomo sentimentale, la trilogia di Il tuo volto domani. E ritrovare, così, le donne di Marías, Berta tra tutte; quella che ci insegna che l’attesa non è per forza negarsi la vita, né sfuggirla; quella che pare dirci che il tavolo può essere ribaltato e quella vita affrontata, attraversata, fin dentro la cortina di nebbia che tutto sembra invadere.

A noi, in fondo – insieme alla certezza amara di avere perduto con lo scrittore chissà quanta altra magnificenza – non rimane che ripercorrere l’ambiguità dell’esistenza, la menzogna e la verità, il dovere e il piacere, il denaro e gli intrighi, la passione e la fermezza, la precarietà e la bellezza. E restare abbacinati dai tremori, dalle paure e dal coraggio, dalla rassegnazione che cede il passo alla resistenza un momento prima della fine. O un momento dopo.



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