La “Super League” dell’arte ridotta a finanza tossica: Jeff Koons

Il posto di rilievo che Koons occupa nel sistema dell'arte non ha nulla a che vedere con il merito, ma risponde ad altre logiche, soprattutto commerciali.

Claudia Santeroni

Frieze London è una delle fiere più prestigiose della scena internazionale, organizzata annualmente, covid permettendo, a Londra a Regent’s Park, come contraltare lezioso di Frieze Master, ospitata dall’altra parte del parco.
Durante l’anno l’esercito che popola il mondo dell’arte si sposta di città in città per presenziare agli opening delle fiere più patinate, seguendo un’agenda fagocitante e quasi obbligata che da Basilea passa a Parigi, Londra, Milano, Miami, Hong Kong, New York, Madrid, Bruxelles e contempla eventualmente una pluralità di aggiunte: Rotterdam, Barcellona, Ginevra, Monte Carlo, Lugano, Città del Messico, solo per citarne alcune.

Armati di VIP Card e soprattutto di cellulare, collezionisti, curatori, giornalisti, galleristi e artisti si impegnano, possibilmente nei giorni del vernissage, a testimoniare tramite social la loro presenza sulla scena. Anche a causa di questa compulsione a validare la propria partecipazione a questi appuntamenti, in molti ricorderanno la chiacchierata opera di Jeff Koons che accoglieva all’edizione 2017 di Frieze London: Gazing Ball (Giotto The Kiss of Judas).
Riprodotto in maniera eccellente con l’aiuto di algoritmi il capolavoro di Giotto della Cappella degli Scrovegni, Koons innesta all’altezza delle gambe di Giuda un globo blu, sulla cui superficie specchiante si riversa il passaggio del pubblico.

«the painting is reflected, and you’re reflected into it – you become part of the painting, it takes you back in time»

Koons asseconda l’idea, a suo dire centrale nella sua pratica, di collegamento tra il pubblico e l’opera

«viewer completes the work»

assunto debole che Elly Parson riporta in un articolo pubblicato da Wallpaper a fronte di una conversazione con l’artista.

Premesso che il ripensamento del ruolo spettatoriale fu già radicale in Duchamp, «C’est le regardeur qui fait l’oeuvre», di cui Koons è consapevole debitore ma figlio deforme, di lavori che abbisognano realmente della presenza dello spettatore per attivarsi è costellato il ‘900.
Capitale è stata, ad esempio, Esposizione in Tempo Reale n.4 di Franco Vaccari, operazione la cui riuscita dipendeva, letteralmente, da un’azione del pubblico, cui tra l’altro era richiesto un esborso;
l’interattività della Optical Art o la poetica happening ma, per attenerci al riflesso, si possono ricordare gli specchi di Michelangelo Pistoletto, lavori mitici purtroppo ripetuti all’eccesso.

In collaborazione con il Whitney Museum, nel 2014 il Centre Pompidou ha ospitato una retrospettiva dell’artista americano, ripercorrendone 35 anni di storia.
È disponibile su YouTube la conversazione che Koons fece con il curatore della mostra, Bernard Blistène, allora direttore del Pompidou nonché una delle personalità più influenti del sistema dell’arte: questo documento è meritevole di essere guardato con attenzione, perché per 30 minuti Blistène e Koons (che appare anche nell’aspetto e nei modi un perfetto uomo d’affari, sebbene parli con trasporto da life coach) sollevano temi quali spiritualità, eternità, il posto dell’essere umano nell’universo (!) usando a pretesto opere che nulla hanno a che vedere con queste materie e che, fieramente, questa distanza dovrebbero rivendicare.

Al minuto 8.20 si parla di Rabbit (edizione di tre del 1986 anticipatrice di Gazing Ball, nonché opera più costosa venduta all’asta di un artista vivente) e Koons afferma che la carota che il coniglietto si porta alla bocca può essere letta come un simbolo della masturbazione, e che l’opera allude anche alla resurrezione: l’arte è polisemica, e tutti gli artisti possiedono una molteplicità di riferimenti che li sostengono nel processo creativo che sembrano non avere connessione logica all’opera compiuta ma, per evitare che valga sempre tutto e che ad ogni opera si possa associare qualunque lettura sperticata, occorre tornare alla lucida disamina del lavoro.

A prescindere da quanto si possa pensare delle opere di Koons, il posto di rilievo che occupa nel sistema dell’arte, e anche nella storia dell’arte, è un fatto incontestabile. Questo però non ha nulla a che vedere con il merito, ma risponde ad altre logiche, commerciali in primis, ma anche legate all’informazione.

L’obiettivo di questa nostra riflessione non è infatti valutare le opere di Koons, ma analizzare le letture che vengono fatte sui suoi lavori, rilevando le vacue ma copiose sovrastrutture concettuali che non hanno aderenza con l’oggetto in questione ma che sono strumentali ad attribuire e mantenere loro un valore.

Riducendo all’essenziale, la museificazione degli oggetti di consumo è un’operazione innescata da Duchamp e consolidata da Andy Warhol, artisti la cui raffinatezza intellettuale e il cui peso specifico nella storia dell’arte è indiscusso.
Quando, come e perché l’arte è diventata una forma di intrattenimento borghese e non uno strumento di pensiero?
Quando è successo che l’arte si è trasferita nella sua personale Seahaven Island, la cupola di Truman Show, dove tutti con una complicità al limite della collusione contribuiscono a questa grande recita dove è sconveniente esaminare e dove ci si beve tutto senza farsi domande?
Come mai, le rare volte in cui accade, le riflessioni che vengono fatte sulla contemporaneità e le problematiche da cui è attraversata sono superficiali?
Perché gli artisti hanno perso il loro ruolo all’interno del dibattito pubblico?
(abbiamo fatto una ricerca sui talk organizzati negli ultimi cinque anni in alcune fiere d’arte contemporanea italiane e straniere: eccettuate rarissime anomalie, gli ospiti sono sempre e solo addetti del settore).

I collezionisti che posseggono le opere di Jeff Koons sono potentissimi uomini d’affari, e il solo fatto di essere entrato a far parte di queste collezioni diviene una garanzia di inviolabilità rispetto alla svalutazione.
Koons è infatti il prodotto, l’esito perfetto di un mondo venato da superficialità e maxi speculazioni: la sua ricerca è imperniata principalmente sul fascino della cultura consumistica, e solo il dilagare di attribuzioni arbitrarie ed elefantiache mistificazioni che divengono notizie possono portare a falsificare questo, accostando la sua pratica a massimi sistemi da cui è avulsa.
Si tratta di un lavoro altamente accessibile, pensato per non intimorire, così come dichiarato dallo stesso artista, e costruito sull’immaginario consumistico occidentale, american beauty, provvisto di un’estetica che dal pop passa inesorabilmente al kitsch (Bluebird Planter, Ballet Couple, Woman Reclining, Ballerinas sono esempi calzanti), questione sulla quale Koons si esprime così:

«I don’t believe in kitsch, I believe in sublime beauty» riferendosi proprio a Ballerinas

«qualcuno pensa che le mie opere siano kitsch, ma io non ho mai visto le cose in questo modo [] Le mie opere dicono semplicemente di non rifiutare una parte di sé, di tener conto della propria storia»

Sin dal primo articolo La “Super League” dell’arte ridotta a finanza tossica: Damien Hirst la nostra tesi di fondo ha voluto essere questa: il mondo dell’arte è lo specchio di quanto accade nella società contemporanea, certamente almeno quella italiana, solcata dalla crisi economica dell’editoria che ha prodotto nell’incoscienza generale una minaccia per la libertà di stampa, essendo l’editoria assoggettata alle convenienze di chi la possiede e finanzia.
Fatto salvo un ristretto panorama di voci irregolari che resistono alla maniera imperante di fare informazione, si assiste a un desolante abbattimento e banalizzazione dei temi, all’asservimento a quanto è conveniente scrivere per salvaguardare degli interessi, consolidare degli investimenti, supportare e mantenere crescite professionali, scongiurare svalutazioni.
Questo, che appunto non riguarda solo l’arte e i suoi sistemi d’informazione faziosi, ma anche alcune delle testate generaliste nazionali considerate tra le più autorevoli, accade non nell’indifferenza, perché già implicherebbe una consapevolezza, ma proprio in una completa ignoranza.

 

(credit foto ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI)



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