La battaglia per la libertà di Julian Assange non si ferma

L’editore di WikiLeaks non verrà estradato subito e i suoi legali sono già al lavoro su tre fronti differenti per capovolgere la decisione dell’Alta Corte a favore dell’estradizione.

Sara Chessa

Il processo sull’estradizione di Julian Assange non si chiude con l’assenso all’estradizione pronunciato la scorsa settimana dalla ministra britannica degli Affari Interni Priti Patel. Il team legale ha davanti tre possibili strade per capovolgere l’esito e verranno percorse tutte, in parallelo, per salvare Assange dal trasferimento in un carcere statunitense e da un processo sulla cui equità è possibile non nutrire dubbi soltanto se non si conosce l’Espionage Act americano (su cui sono basati diciassette dei capi di imputazione che pesano su Assange).

Il mito del ‘giusto processo’ dopo l’estradizione
L’Espionage Act, legge del 1917 approvata con l’intento di punire le spie e non con quello di stabilire la verità dei fatti, ha una caratteristica particolare. È l’unica a non consentire all’imputato di fare riferimento all’interesse pubblico come motivazione per le azioni che gli vengono contestate. In condizioni ordinarie, un giornalista può affermare, davanti al giudice, di aver ottenuto materiali riservati e di averli diffusi in nome del diritto dei cittadini a conoscere fatti rilevanti per le valutazioni che essi compiono nell’ambito del sistema democratico in cui si muovono. L’Espionage Act non consente questo. Il giornalista incriminato ai sensi dello stesso non può differenziare le proprie azioni da quelle di una spia che vende segreti a uno stato straniero. Eppure, per quanto si voglia forzare la realtà per scoraggiare chi intenda prendere sul serio la professione giornalistica, Assange rimane colui che ha svelato al mondo la natura reale di Guantanamo e delle guerre statunitensi per l’esportazione della democrazia in Iraq e Afghanistan. Non è un caso se Obama ha scelto, a suo tempo, di non perseguirlo. Le azioni di cui gli si chiedeva conto sono le stesse che si potrebbero contestare al New York Times o all’Washington Post: cercare un contatto con le fonti, proteggerne l’identità, sollecitare l’invio di materiali.

Le tre azioni parallele della difesa
Le tre strade parallele che gli avvocati di Assange percorreranno sono, rispettivamente:
– la revisione giudiziaria della decisione di Priti Patel;
– l’appello presso l’Alta Corte impugnando la sentenza in primo grado;
– il ricorso presso la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu).

La revisione giudiziaria consente alle persone di verificare la legittimità delle decisioni prese dal governo e da altri enti pubblici. Non può però essere utilizzata per contestare il merito della decisione presa da un’autorità pubblica, stabilisce soltanto se la decisione sia stata presa seguendo la procedura corretta.

Veniamo alla seconda strada, l’appello presso l’Alta Corte. Per chi guarda al processo sull’estradizione dal punto di vista della salvaguardia dei diritti umani, il sistema giudiziario inglese ha ‘mancato il bersaglio’ di continuo, evitando ad ogni passo – dal primo grado di giudizio in poi – di affrontare le questioni davvero centrali nel caso.

Proprio a tale aspetto si ricollega l’appello presso l’Alta Corte. Impugnando presso quest’ultima la sentenza in primo grado – che pur negando l’estradizione lo faceva soltanto sulla base delle ragioni legate alla salute mentale di Assange – si porterà l’attenzione della corte stessa sui punti “ignorati” all’epoca dalla giudice Baraitser. Il fine è comprendere se sia stato corretto “scartarli”.

Tra questi punti figurano, senza dubbio:
– il fatto che il Trattato sull’estradizione tra Stati Uniti e Regno Unito non permetta quest’ultima se le ragioni che ne hanno animato la richiesta sono politiche;
– il caso di un testimone che ha rivelato di essersi inventato le accuse su cui gli Stati Uniti hanno poi basato il loro atto di incriminazione;
– la violazione dell’articolo 10 della Carta Europea dei Diritti Umani, legato alla libertà di espressione;
– l’aver ignorato la consulenza di un analista informatico che, nel corso del processo, aveva dichiarato infondata la tesi secondo cui Assange avrebbe compiuto un’intrusione informatica;
– l’utilizzo dell’Espionage Act contro un giornalista.

A questi punti si aggiungeranno, con molta probabilità, lo spionaggio del governo inglese ai danni di una legale di Assange (confermata a inizio giugno da una sentenza della Cedu) e la volontà della CIA di rapire o avvelenare Assange, emersa da un processo in corso in Spagna e da un’inchiesta di Yahoo News.

La terza via che il team legale percorrerà è quella del ricorso presso la Cedu. Un membro della squadra sta già lavorando al ricorso, che non potrà però essere presentato prima di aver esaurito i canali giudiziari britannici.

Le tempistiche
Secondo fonti vicine al team legale, del caso sentiremo parlare di nuovo soltanto nell’autunno 2022. L’appello contro la sentenza in primo grado può essere portato avanti per una o più questioni alla volta, tra quelle elencate sopra. Inoltre, se il processo presso l’Alta Corte dovesse iniziare, i testimoni verrebbero riascoltati (e ne sarebbero ammessi di nuovi). Assange non verrebbe trasferito negli Stati Uniti nel corso di tale appello. Se però quest’ultimo venisse negato, dovrebbe essere subito inoltrato il ricorso presso la Corte Europea dei Diritti Umani. Un rifiuto di procedere da parte di quest’ultima è considerato, dai consulenti legali di Assange, molto improbabile. E, una volta aperto il caso, scatterebbe un’ingiunzione in grado di vietare il trasferimento di Assange negli Stati Uniti, in modo simile a quanto avvenuto di recente con il blocco del volo dei rifugiati che stavano per essere deportati in Rwanda, fermato proprio dai giudici della Corte Europea.

Anthony Albanese, la soluzione diplomatica e i sostenitori di Assange
Già nel 2015, quando Assange era rifugiato presso l’ambasciata ecuadoriana, il parere ufficiale di un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite definiva la sua condizione come “detenzione arbitraria”, auspicandone la liberazione e la compensazione per gli anni di prigionia subiti. Da allora, il numero di voci autorevoli nell’ambito dei diritti umani che si sono levate a suo favore è cresciuto. La fabbricazione di accuse a suo carico, a partire da quelle di violenza sessuale ricevute in Svezia e poi archiviate, è stata denunciata dall’ex Relatore Onu sulla Tortura Nils Melzer, che ha affermato di non aver mai visto, in vent’anni di lavoro con le vittime di trattamenti inumani, un individuo “bullizzato” da quattro stati democratici allo stesso modo di Assange.

Da quando Nils Melzer ha lanciato questo allarme, affermando di vedere in Assange tutti i segni della tortura psicologica, molte voci gli si sono unite, tra queste l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa – con un emendamento approvato all’unanimità – e la Commissaria del Consiglio d’Europa sui Diritti Umani. Oggi la speranza dei gruppi di attivisti che difendono Assange è Anthony Albanese, che a dicembre, poco prima di essere eletto presidente australiano, aveva affermato “quando è troppo è troppo” circa la detenzione di Assange, sostenendo di non sapere quale utilità avesse. Come l’ex ministro degli Esteri australiano Bob Carr ha affermato qualche giorno fa, “in una alleanza tra America e Australia, una richiesta su Assange è poca cosa”. Spiegando che l’Australia dà già abbastanza prove di essere un alleato importante, ha messo in evidenza il fatto che il suo paese ospita talmente tante infrastrutture nell’ambito delle comunicazioni, talmente tante navi, aerei e Marines da correre il rischio costante di essere obiettivo di attacchi nucleari. Considerando questo, secondo Carr, Biden non potrebbe che dire di sì, se Albanese gli chiedesse di archiviare le accuse ad Assange. Oggi Albanese e il suo governo affermano, a riguardo, che la diplomazia non si fa sotto i riflettori. Questo fa pensare a un possibile tentativo di dialogo dietro le quinte. Sarebbe un grande cosa. Anche perché, in un mondo in cui tanti spingono per potersi definire filoamericani, l’unico modo per essere davvero “amici” degli Stati Uniti è quello di avere il coraggio di dir loro chiaramente che, perseguendo un editore, stanno perdendo l’anima stessa del loro Primo emendamento.

Credit Image: © Nikolas Georgiou/ZUMA Press Wire

 

 



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