Kabul come Saigon? Le illusioni sul declino americano

Quel che rende gli Stati uniti così peculiari è che più guerre perdono, più accrescono e rafforzano la loro presa sul mondo.

Marco d'Eramo

Non si può accendere una radio o una Tv senza sentir paragonare con la caduta di Saigon il 30 aprile 1975 quello che è successo a Kabul nelle ultime settimane. Ma nessuno, tra i nostri pensosi commentatori, si prende la briga di valutare il seguito della vicenda, di considerare cioè Saigon (e Kabul) non come la fine di una storia, ma come un capitolo a cui seguono nuovi sviluppi.

Allora, negli anni ’70, la caduta di Saigon parve l’ultimo chiodo piantato nella bara della potenza americana, l’evento simbolico di un declino irreversibile e ravvicinato. Torniamo con la mente a quegli anni: intanto la caduta di Saigon poneva fine a una guerra molto più sanguinosa e impegnativa per gli Stati uniti di quanto sia mai stata l’invasione dell’Afghanistan: il picco della presenza americana in Afghanistan è stato di 95.000 soldati (più 7.800 mercenari), su una popolazione Usa di 310 milioni, mentre in Vietnam il picco della presenza militare era stato di 536.000 soldati (su una popolazione Usa di 196 milioni); in Afghanistan sono morti 2.500 soldati Usa, che arrivano a 6.400 se si contano i mercenari, mentre in Vietnam i morti erano stati più di 58.200 su una popolazione di 196 milioni.

Non solo, ma gli Stati uniti venivano da un decennio di tumulti (movimenti dei diritti civili, movimenti studenteschi, rivolte dei ghetti neri): l’ultimo episodio clamoroso era avvenuto nell’ottobre 1972 quando i marinai neri della portaerei Kitty Hawks, che bordeggiava al largo del Vietnam, si ammutinarono contro il personale di bordo. Un decennio di omicidi politici (John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X, Bob Kennedy), di crescenti spese militari per la guerra del Vietnam e quindi una crisi della bilancia dei pagamenti senza precedenti, tanto che nell’agosto del 1971 gli Stati uniti dichiararono morti e sepolti gli accordi di Bretton Woods (1944) che per 27 anni avevano regolato il cambio delle valute mondiali, e decretarono che il valore internazionale del dollaro non era più ancorato all’oro. Alla rottura della stabilità monetaria internazionale era seguita due anni dopo la prima, più inaspettata e quindi più devastante, crisi petrolifera (ottobre 1973).

D’altronde l’egemonia mondiale degli Usa scricchiolava ovunque: avevano dovuto provocare un colpo di stato (1973) con il generale Augusto Pinochet per riprendere il controllo del Cile “caduto in mano ai socialisti”. Nel marzo del 1974, appena un anno prima della caduta di Saigon, la rivoluzione dei garofani aveva fatto cadere Lisbona “in mano ai rossi”, facendo pendere Angola e Mozambico verso il campo sovietico. Nell’agosto di quell’anno, veniva deposto in Etiopia il Negus Haile Selassie, aprendo la via al regime filosovietico di Mengistu Haile Mariam (1976). Sempre nell’agosto del 1974 si concludeva a Washington lo scandalo Watergate scoppiato due anni prima, con le dimissioni del presidente Richard Nixon.

Insomma, mentre Saigon cadeva, gli Usa erano in preda a una crisi interna ed economica senza precedenti, una perdita di legittimità politica persino della Casa bianca. La bandiera americana veniva ammainata in mezzo mondo, la sfera d’influenza dell’Unione sovietica sembrava espandersi senza tregua.

Facciamo un salto di 16 anni, siamo nel 1991 e l’Unione sovietica non esiste più, quello che sembrava il competitore economico più pericoloso degli Usa, il Giappone (i giovani non lo ricordano ma negli anni ’80 l’isteria per il pericolo economico giapponese era salita alle stelle) entra in una stagnazione che si prolunga ancora oggi a 30 anni di distanza; il controllo dell’economia mondiale da parte statunitense è totale e gli Usa esercitano un’egemonia planetaria tale da poter guidare una mega coalizione per umiliare (1991) il rais Saddam Hussein dell’Iraq.

Questo salto ci fa capovolgere la prospettiva con cui avevamo guardato quelle immagini dell’aprile 1975: non erano la fine dell’impero americano, erano l’inizio della controffensiva, il segnale del ritorno in forza sulla scena internazionale. Quindi dovremmo andarci cauti con le conclusioni: oggi la Cina sembra uscire vincitrice dalla disfatta Usa in Afghanistan, ma allora era l’Urss che sembrava prendere il sopravvento, e abbiamo visto come è andata a finire.

È da quando sono bambino piccolo che sento parlare di declino americano (in realtà questa tesi circolava anche da prima che io nascessi, eppure sono anziano). Noam Chomsky situa il declino a partire dall’indomani della Seconda Guerra Mondiale, quando gli Usa “persero la Cina”. Addirittura il dibattito infuriava nel 1992 (“Is America in Decline?” Harvard Business Review), l’anno dopo il crollo dell’Unione sovietica. Viene in mente la frase di Hegel per cui “a letteratura vive del suo sentirsi morta”: infatti il famoso libro di Oswald Spengler su Il tramonto dell’Occidente data del 1918, quando lo strapotere occidentale doveva ancora celebrare i suoi fasti.

Ora è vero che l’Urss del 1975 non regge il confronto con la Cina di oggi e che l’equilibrio del potere sembra spostato, ma quel che rende gli Stati uniti così peculiari (e, da un certo punto di vista, così simili all’impero romano) è che più battaglie, più guerre perdono, più accrescono e rafforzano la loro presa sul mondo. Dal 1945 hanno perso praticamente ogni guerra che hanno ingaggiato, ma ogni volta la loro potenza globale (finanziaria, simbolica, tecnologica, linguistica, non solo militare o diplomatica) si è accresciuta.

Mi scrive Victoria De Grazia, storica della Columbia University: “Un passo indietro, un grande balzo in avanti. Ogni volta che gli Stati uniti hanno perso una guerra seria dalla Seconda Guerra Mondiale (guerra di Corea, Vietnam, Iraq/Afghanistan), prende il via una ristrutturazione della società americana. Si pensi agli immensi investimenti in autostrade, istruzione, Arpa, negli anni 1950. Alla Grande Società nei 1970. Fin dagli anni 1990 gli imperialisti liberal vecchio stampo (Joseph Nye, Bound to Lead, 1990) hanno insistito che non c’è soft power senza ricostruire gli Usa in un nuovo modello di un qualche tipo di New Deal. È quel che Joe Biden cerca di fare col suo progetto di infrastrutture Trillion Dollar (…) La realpolitik globale non è il solo modo di guardare alla sconfitta americana in Afghanistan. È obsoleto il pensiero a somma zero, per cui quel che gli Usa perdono è vinto dalla Cina o dall’Urss.”

Se allora spingessimo il paragone Saigon/Kabul oltre le apparenze, oltre le foto a effetto, forse dovremmo chiederci quale tipo di controffensiva gli Stati uniti stanno cercando di organizzare e soprattutto in che modo pensano di riorganizzare la loro società che oggi, proprio come negli anni ’70, sembra sull’orlo della guerra civile.



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