Kant, Foucault, Habermas: che cos’è l’Illuminismo

Un volume curato da Umberto Curi (Mimesis) presenta tre scritti di Immanuel Kant, Michel Foucault e Jürgen Habermas sull’Illuminismo.

Alfonso Liguori

Questo libro a cura di Umberto Curi – Che cos’è l’Illuminismo (Mimesis, 2021) – presenta, in versione italiana, il celebre scritto kantiano Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, del 1784, lo scritto di Michel Foucault sull’Illuminismo e sulla rivoluzione in Kant, Qu’est-ce que les Lumières?, e l’articolo di Jürgen Habermas a commento del testo foucaultiano – Mit dem Pfeil ins Herz der Gegenwart gezielt. Zu Foucaults Vorlesung über Kants “Was ist Aufklärung?”.

Umberto Curi, nell’ottima introduzione, sottolinea l’epocalità del saggio kantiano, pubblicato illo tempore su di una rivista non particolarmente autorevole o specializzata: un testo ispirato più dalla curiosità linguistico-concettuale che da un’esigenza sistematica. Eppure, come evidenziò Foucault nel 1984 – duecento anni dopo –, trattavasi d’un testo epochemachend, il cui significato genuino, richiamato dal Sapere aude di Orazio, era una nuova “postura del pensiero”: l’uso autonomo delle proprie facoltà intellettuali da parte del soggetto Selbstdenker; in breve, il segno peculiare della modernità.

Curi ricorda, altresì, la genesi dello scritto: il predicatore Johann Friedrich Zöllner (un personaggio tutto sommato “minore” entro il dibattito culturale della Prussia di fine Settecento) ebbe a scrivere un articolo nel novembre del 1783, sulla rivista “Berlinische Monatsschrift”, a difesa del “vincolo religioso per le unioni matrimoniali”; ma in una nota a piè di pagina Zöllner formulava, quasi en passant, la controversa domanda “Cos’è l’Aufklärung?”: una domanda importante per l’autore quanto la questione della “verità”, cui dover rispondere prima di “rischiarare”; una risposta che tuttavia non aveva ancora rintracciato. Eppure, nonostante la banalità della vicenda, scende in campo per fornire la “risposta” Immanuel Kant, all’epoca già prestigioso intellettuale.

L’autore compie poi una dotta precisazione terminologica: Aufklärung non significa tanto “Illuminismo”, nel senso della corrente filosofico-culturale affermatasi in Europa a metà Settecento; bensì, indica il “rischiarare”, il portare alla luce ovvero a una possibile verità filosofica (analogamente al mito di Platone dell’uscita dalla caverna). Se è così, si può dunque “comprendere (…) per quali motivi di fondo (…) nel rispondere alla domanda sul rischiaramento Kant non si limiti affatto a descrivere una dinamica riduttivamente gnoseologica, ma imposti invece fin dall’inizio il problema della conoscenza nel più ampio contesto delle sue relazioni con la tematica etica, e inoltre riconduca entrambe le dimensioni – gnoseologica ed etica – al piano di una vera e propria ontologia del presente” (pp. 26-27).

Come per il mito della caverna, in Kant Aufklärung è “fuoriuscita”, in particolare dallo stato di minorità, per diventar maggiorenni; uno stato di minorità di cui il soggetto è colpevole; si tratta di uscire “da quella ‘non-maturità’ che non scaturisce da circostanze esterne alla nostra volontà, poiché al contrario è conseguenza di qualcosa di cui dobbiamo ritenerci addirittura colpevoli” (p. 34). Restare minorenni, per Kant, è “comodo”, giacché pensare è una faticosa occupazione, specie se si preferisce che altri pensino per noi, magari “a pagamento”. Il rimedio è la libertà, l’uso libero e pubblico della ragione, vincendo pigrizia e “viltà”; e qui vale il motto oraziano: “si diventa adulti combinando l’ardimento dell’aude e l’esercizio attivo del sapere” (p. 40).

Michel Foucault – ricorda Curi – dedica al saggio kantiano tre scritti, elaborati tra il 1978 e il 1984, nell’ultimo periodo della sua vita. Nel primo, Qu’est-ce que la critique?, il pensatore francese riconduce il tema dell’Aufklärung nell’alveo della discussione sulla critique: essenzialmente, Foucault considera il tema in re come particolare “postura del pensiero”, come quell’atteggiamento critico correlato al progetto moderno. Al contempo, l’autore considera il tratto socio-politico della critica: nelle sue riflessioni sulla governamentalità (incluso il nesso “potere-verità”), la critica di ascendenza kantiana è anche la possibilità di “porre un limite all’assoggettamento”, di contrapporsi al potere secondo pratiche di libertà. In tal caso, l’atteggiamento critico “prende la forma della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata” (p. 45). L’autonomia evocata da Kant, secondo Foucault, non coincide tanto con i canoni universali delle Critiche kantiane, bensì con un movimento contingente, un congedo dalla realtà data (Ausgang, “fuoriuscita”): sapere aude è dunque “disobbedisci”!

Nel secondo scritto (What is Enlightenment) la questione dell’Aufklärung viene vista come novità radicale dell’atteggiamento moderno, come interrogazione del proprio presente come pura attualità. Soprattutto, qui Foucault sostiene che la modernità critica, nel senso kantiano, implichi una rielaborazione del soggetto, un elaborarsi da sé, come compito dell’Aufklärung: la critica implica l’“autocritica” del soggetto. Invece, nel testo Qu’est-ce que les Lumières? – pubblicato nel 1984 e riprodotto nel libro di Umberto Curi – l’autore francese sottolinea il “rapporto sagittale” che la domanda sull’Illuminismo pone con il proprio presente, l’attualità. Se, tradizionalmente, il moderno veniva considerato nella sua differenza (superiorità o inferiorità) con l’Antico, nel saggio kantiano – secondo Foucault – la modernità interroga se stessa, proponendosi come un vero e proprio “evento filosofico”. Inoltre, Foucault ricollega il tema dell’Aufklärung con il testo kantiano sul Conflitto delle facoltà, in guisa che l’interrogazione della contemporaneità porta a rintracciare quegli eventi da considerare possibili “cause del progresso”: la domanda “Che cos’è la rivoluzione” si affianca dunque a quella sull’Illuminismo, secondo il tipico ethos della modernità. Insomma, secondo Foucault, “Kant si presenta come capofila ed eponimo di entrambe le anime critiche del filosofare moderno: da una parte, con le sue opere maggiori, egli avrebbe fondato la cosiddetta analitica della verità, che sonda le condizioni necessarie a una conoscenza vera. Dall’altra parte, in lui può essere rintracciato il primo esempio di una diversa modalità di riflessione critica, un’ontologia di noi stessi, del presente” (p. 54).

Infine, Curi dedica cenni interessanti alla pedagogia kantiana, per la quale il discente deve diventare da uomo “intellettivo” uomo “razionale”, e dunque dotto, e ciò non solo per fini scolastici ma esistenziali. In questo quadro, per Kant, il “pensare con la propria testa” si traduce nella differenza tra il mero apprendimento e il pensiero autonomo e creativo: un conto è “imparare la filosofia”, altro è “imparare a filosofare”: un’attività, quest’ultima, che implica una condizione di autonomia e libertà. Si tratta – e Curi rileva anche questo – di tesi che furono criticate da Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, secondo il quale il “pensare con la propria testa” (selbstdenken) sarebbe ovvio e ineludibile per chiunque, ad esempio, si accosti seriamente al sapere e alla filosofia: l’esaltazione del selbstdenken sarebbe una sorta di smania individualistica che allontana dalla “verità”. Su questo punto, Curi, pur riconoscendo la validità della tesi hegeliana, difende Kant, quanto meno nel senso che nel pensatore di Königsberg vale il nesso tra l’attività intellettuale e la qualità morale del coraggio e della “decisione”. Il tema si riallaccia all’Aufklärung: “affinché la ‘risposta’ kantiana possa essere considerata come atto fondativo di una ‘ontologia del presente’ (…) in essa va colta una peculiarità (…) vale a dire l’enfasi sulla necessità che il pensare abbia un carattere radicalmente innovativo, che esso non si limiti a riprodurre (…), ma piuttosto crei qualcosa che non sia stato già ‘pensato’ da altri” (pp. 71-72).

Seguono poi il testo di Kant sull’Aufklärung, e quelli di Foucault e Habermas.

Le riflessioni di Curi sono eccellenti; potrei soltanto aggiungere, a mo’ di glossa, il rilievo che nel pensatore di Königsberg assume la distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione: “intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidato (pp. 82-83). Ne deriva certo un elogio del pensiero critico dal lato kantiano – laddove “studioso” è chiunque rifletta pubblicamente – ma in ogni caso compensato dall’obbedienza dovuta al proprio ufficio. Molto apprezzabile, inoltre, la tesi contro la censura, motivata dalla necessaria libertà dell’opinione pubblica e degli studiosi: “il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo (…) Caesar non est supra gramaticos” (p. 88). Per Kant, la sua era l’età del “rischiaramento”, ma essa coincideva “con il secolo di Federico”: chiaro il riferimento a Federico II di Prussia. Quest’inciso non per relativizzare l’approccio critico kantiano, ma per collocarlo storicamente entro le istituzioni politiche della borghesia europea in ascesa, per cui solo uno Stato forte e legittimato avrebbe permesso il dispiegarsi della “pubblica ragione”. Così si motiva, a mio avviso, tale affermazione kantiana: “Ma solo chi, illuminato egli stesso, non teme le ombre e dispone, al contempo, di un esercito numeroso e ben disciplinato a garanzia della pubblica pace, può affermare quello che invece una repubblica non può arrischiarsi a dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!” (p. 91).

Tuttavia, non va sminuita l’ermeneutica foucaultiana, laddove Foucault identifica l’approccio kantiano con la possibile disobbedienza, nel senso della “indocilità ragionata”: un’interpretazione coerente non solo con il milieu di un certo Illuminismo, ma anche con la stessa impostazione di Foucault, notoriamente critico del potere. Peraltro, sebbene Kant abbia avversato, nei suoi scritti politici, lo ius resistentiae, arretrando sotto questo profilo rispetto a Locke, – un diritto riconosciuto persino in epoca medioevale da Tommaso d’Aquino – al contempo si schierava con entusiasmo per la Rivoluzione francese. È un dato forse contraddittorio ma non casuale, laddove lo stesso Kant, in quanto liberale, sosteneva le ragioni della borghesia europea (sarebbe utile ricordare, nondimeno, che il liberalismo kantiano assumeva tratti anti-popolari, tanto da escludere i non proprietari e i salariati dal diritto di voto e dalla cittadinanza pleno jure). Invero, l’affermazione del moderno principio democratico, persino in senso radicale, che pure si nutre del “pensiero critico”, è storicamente dovuta a tradizioni altre da quella simpliciter illuministico-liberale: si pensi alla tradizione socialista e a Marx, il quale pose con decisione la questione sociale entro il capitalismo, delineando i tratti di una libertà universalistica (e positiva).

Sulla medesima linea di Foucault, si colloca anche un autore come Antonio Negri, il quale distingue un Kant “maggiore”, proteso nonostante tutto alla legittimazione delle istituzioni borghesi, da un Kant “minore”: in tal caso, “osa pensare” significa anche “conosci come osare”, per cui la ragione porta alla libera disobbedienza. Secondo Negri, “il criticismo kantiano agisce in due direzioni: da un lato, la critica detta il sistema delle condizioni trascendentali della conoscenza e dei fenomeni; dall’altro, esso si distacca occasionalmente dal piano trascendentale per concettualizzare la potenza e la creatività umana, la chiave di una libera costruzione biopolitica del mondo” (cfr. M. Hardt, A. Negri, Commonwealth, trad. it. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 30).

In ogni caso, Kant si conferma un filosofo peculiare nella modernità occidentale: per un verso, eredita il côté empiristico e gnoseologico, integrandolo con l’approccio trascendentale; per altro verso, apre il discorso dell’ontologia del presente, come diceva Foucault, inaugurando il pensiero teoretico successivo. Peraltro è pacifico che Kant sia all’origine dell’idealismo tedesco, laddove anticipa il nesso dialettico tra soggetto e oggetto, e fonda l’oggettività sull’attività del soggetto conoscente. In definitiva, l’Illuminismo, con Kant, assume tratti maturi: si considerino anche il primato della ragion pratica e l’umanesimo. Vi è stato persino un socialismo neokantiano e di Kant sono state offerte letture “rivoluzionarie” (si pensi ad André Tosel). È poi di gran pregio il contributo kantiano alla filosofia del diritto e al Rechtsstaat.

Tornando a Foucault, va sottolineato come il pensatore francese, nell’ultima fase, non solo veda un Kant aperto all’ontologia storica, tale da inaugurare la tradizione della modernità matura, ma addirittura si autocollochi in quel filone teorico.

Va quindi condivisa la “sorpresa”, in positivo, di Jürgen Habermas, così come enucleata nel suo scritto su Foucault. Il pensatore tedesco, invero, evidenzia come nel testo foucaultiano si descriva un Kant diverso da quello di Les mots et les choses, ossia il mero critico della conoscenza e il pensatore analitico. Foucault scopre il Kant della “ontologia dell’attualità”, precursore dei giovani hegeliani, attento alla lettura del tempo storico. Così Habermas: “nella risposta kantiana alla domanda ‘Che cos’è l’Illuminismo?’, Foucault vede sorgere un’‘ontologia dell’attualità’ che – attraverso Hegel, Nietzsche e Max Weber – conduce a Horkheimer e Adorno. Ed è certo sorprendente che Foucault (…) iscriva se stesso in questa tradizione” (pp. 117-118). Habermas, altresì, annota con interesse l’elogio foucaultiano per il Kant apologeta della “rivoluzione” e, in particolare, dell’entusiasmo che essa ha suscitato nella coscienza europea, come segno del “progresso storico”; al contempo, nota la contraddittorietà di Foucault, pensatore stoicamente critico del potere (anche di quello moderno) e dell’arbitrarietà degli “ordini del discorso”, ma che nell’ultimo periodo aveva saputo cogliere, forse, le basi normative stesse del progetto di emancipazione della modernità. Si tratta però di una felice contraddizione: “[E’] istruttiva la contraddizione in cui s’impiglia Foucault, quando pone la sua critica del potere in tale contraddizione con l’analitica della verità, per cui quella si vede sfuggire quei parametri normativi che dovrebbe mutuare da questa. Forse, è stata proprio la forza di questa contraddizione a recuperare Foucault – in questo suo ultimo testo – a quel circuito di discorso del Moderno che egli pure voleva infrangere” (p. 126).

Ha dunque ragione Habermas. Eppure, se è vero che nella modernità rientrano a pieno titolo l’idealismo e soprattutto Marx, si potrebbe allora cogliere anche nel filosofo tedesco una certa incongruenza, laddove Habermas, pur difendendo le pretese emancipative del moderno, ha notoriamente promosso una critica forse un po’ ingenerosa del pensiero di Marx: ovvero di un indirizzo teorico che, probabilmente più di altri, ha rappresentato quell’universalismo dell’emancipazione e della libertà, così proprio del “discorso della modernità”.



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