L’atto di accusa a Trump e lo spettro di commistione fra politica e diritto

Il perseguimento dell'ex presidente Trump per un reato minore rischia di portare acqua al suo mulino e avvantaggiarlo nelle prossime elezioni.

Elisabetta Grande

Nessun Presidente degli Stati Uniti ha mai fino ad oggi rischiato di subire un processo penale, sia pure successivamente al suo mandato. L’atto di accusa (indictement) che, su iniziativa del procuratore statale di Manhattan, Alvin Bragg, il Grand Jury ha emanato giovedì 30 marzo nei confronti di Donald Trump apre quindi la via a territori inesplorati. È proprio l’imprevedibilità delle conseguenze di un processo penale a carico di un ex Presidente, in corsa per di più per un nuovo mandato, quel che solleva i maggiori dubbi sulla sua opportunità. Ciò anche perché nel sistema processuale penale statunitense i confini fra politica e diritto sono più porosi che altrove, in quanto il prosecutor, ossia l’organo dell’accusa, è scelto in via politica. È nominato dal Presidente previo consenso del Senato, se è un prosecutor federale (U.S. District Attorney), ed è invece eletto, per lo più su base partitica, se è un prosecutor statale (State Attorney General). È quest’ultimo il caso di Alvin Bragg, il quale, per quanto rappresenti la voce della giustizia penale, è anche un democratico che muove un’accusa contro un repubblicano in corsa per la presidenza.  Si tratta di un contesto che rende problematico il suo esercizio dell’azione penale nei confronti di Trump, tanto più che (sempre che non ci siano sorprese dell’ultimo minuto) quegli stessi fatti di cui l’ex presidente viene oggi accusato erano già stati indagati tanto dal Dipartimento di giustizia federale, quanto dal precedente prosecutor di Manahttan Cyrus Vance, senza che le indagini avessero condotto a muovere l’accusa.

Fra le varie condotte che lo potrebbero vedere sul banco degli imputati e rispetto alle quali Donald Trump è oggi indagato (gli eventi del 6 gennaio, i documenti riservati detenuti a Mar-a-Lago e le interferenze sul voto in Georgia), il fatto per cui Trump martedì si dovrà presentare di fronte alla Supreme Court of New York (che nonostante il nome è una corte di primo grado) è il meno grave, il meno socialmente riprovevole, il meno pericoloso per la tenuta democratica del paese e muove da una “untested legal theory”, ossia una teoria giuridica mai esperita in precedenza. Nel caso in questione, infatti, il prosecutor pare voler collegare -in termini di mezzo a fine- la falsa attestazione come spesa legale del pagamento effettuato dall’avvocato Cohen a Stormy Daniels, la donna che minacciava di rendere pubblica la sua relazione con Donald Trump, all’illegale contribuzione di quella spesa alla campagna elettorale per la presidenza. In difetto di un simile collegamento il reato di falso sarebbe, infatti, qualificabile solo come misdemeanor, ossia come reato molto lieve, e si porrebbe il dubbio di una sua possibile prescrizione.

Non solo, tuttavia, un simile collegamento non è mai stato effettuato in precedenza (da qui la preoccupazione per una untested legal theory), ma il secondo reato, che nell’ipotesi accusatoria attraverso il primo Trump avrebbe cercato di occultare, è un reato federale per il quale il Dipartimento di giustizia non ha ritenuto di dover agire. Al di là della difficoltà per Bragg di provare l’accusa o della pena massima che Trump rischierebbe (che si attesta sui quattro anni di detenzione), è difficile non domandarsi quale reale motivazione stia dietro la scelta del prosecutor di Manhattan di esercitare l’azione penale. Fare da apripista alle altre possibili imputazioni nei confronti di Trump, dando coraggio a chi ha in mano elementi ben più consistenti per dimostrare la sua indegnità ad un eventuale secondo mandato? Tramutare l’infedeltà coniugale di un uomo in una questione politica per vanità personale? Colpirlo per un fatto minore, laddove i fatti seri sono più difficili da provare, soddisfando così una reale esigenza di giustizia (giacché nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un ex Presidente) per vie traverse?  Qualunque sia la risposta, la scelta di esercitare l’azione penale da parte di Bragg presenta conseguenze serie. La sensazione collettiva prodotta, ossia che il piano giuridico e quello politico si siano intrecciati, rischia di fare di Trump una vittima del sistema giudiziario agli occhi non soltanto dei suoi sostenitori incalliti, ma di un numero più ampio di americani; ciò che porterebbe acqua al suo mulino, con conseguenze paradossalmente positive per la sua nuova campagna presidenziale. Vi è poi il timore che Bragg abbia aperto il varco a un intervento senza precedenti dei prosecutors statali su fatti posti in essere da presidenti o ex presidenti federali, con effetti dagli scenari assai preoccupanti sotto il profilo tanto della tensione dei rapporti fra piano federale e piani statali, quanto della neutralità del diritto e della sua stessa legittimazione.

Trump non si farà certamente sfuggire l’occasione di sottolineare gli aspetti contraddittori della sua imputazione. E martedì 4 aprile, quando si presenterà di fronte alla corte di Manhattan per essere identificato, posto in custodia e poi rilasciato a seguito della promessa di presentarsi al processo (lo stato di New York non permette infatti la detenzione cautelare per fatti lievi, non violenti), dopo aver dichiarato la sua innocenza al giudice, farà certamente in modo che le manette che chiederà gli vengano messe veicolino appieno il messaggio di delegittimazione del diritto che quell’accusa agli occhi di molti comporta. E ciò non sarà un bene, né per il diritto né per la politica.

Foto Official Portrait, President Donald J. Trump. (White House photo)



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