La censura dei libri di Roald Dahl è un triste inganno verso tutti

La censura dei libri di Roald Dahl da parte della casa editrice britannica Puffin, che ne ha modificato centinaia di espressioni e definizioni per adattarle al nuovo perbenismo, è un inganno perpetrato contro l'autore, l'opera e i suoi lettori.

Federica D'Alessio

Roald Dahl è stato un grande autore di libri per bambini. I suoi libri hanno venduto più di 250 milioni di copie nel mondo; in Italia si calcola che ne abbia vendute più di 3 milioni. Fra i grandi capolavori che tutti conoscono, Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, Il GGG (Grande Gigante Gentile), e Le Streghe, del 1983. L’autore è morto nel 1990. Nel 2017, per gestire l’impero dei proventi derivanti dai diritti d’autore per le sue opere, le traduzioni, gli adattamenti cinematografici e televisivi, gli eredi hanno costituito la società Roald Dahl Story Company, che fin dall’inizio nasceva in partnership con la piattaforma di contenuti digitali Netflix. Nel 2021, Netflix ha infine acquisito la totalità dell’azienda, e da allora gestisce in piena libertà gli adattamenti delle opere dello scrittore britannico-norvegese. Fra questi adattamenti, c’è anche quello che molti di recente hanno definito un caso di censura dei libri di Roald Dahl: la casa editrice britannica Puffin ha infatti deciso di ripubblicare i libri dell’autore mettendo mano, come ha analizzato il Telegraph, in modo molto invadente al linguaggio utilizzato dallo scrittore nei romanzi, allo scopo di eliminare tutte le espressioni che secondo la sensibilità oggi prevalente in un certo ambito sociale, sono ritenute offensive.

Fra le parole che sarebbero state cancellate ci sono termini come “grasso” e “brutto”. Sono state eliminate le espressioni ritenute “sessiste” nei confronti di alcuni personaggi femminili, come le streghe. Termini come “madre” e “padre” sono stati sostituiti da “genitori”, e in generale l’intero spettro di tutto ciò che è ritenuto oggi offensivo è stato limato, rendendo così le nuove opere perfette per un nuovo segmento di genitori/clienti/bambini sensibili all’adozione di quel linguaggio spesso definito “politicamente corretto”, ma che a buon diritto si potrebbe denominare “perbenista” o “neoperbenista”.

L’edulcorazione del linguaggio allo scopo di compiacere la sensibilità del tempo e quanto essa davvero produca una educazione al maggiore rispetto gli uni nei confronti degli altri è una questione aperta, controversa e che si pone, specialmente nel campo della letteratura dell’infanzia, da molto tempo: le favole per i bambini sono popolate da secoli di creature mostruose e di incontri con il brutto, il cattivo, il male e l’ingiustizia. “Ogni fiaba è nera”, ricorda su Doppio Zero la scrittrice ed editrice di libri per l’infanzia Giovanna Zoboli, che in un altro articolo descrive così il genere: “La fiaba, cioè, in tutto il suo intramontabile splendore, la cui ambiguità è quella stessa del cuore umano, che da sempre mette sotto pressione le cattive coscienze e la pervicace vocazione umana alle false verità.” La strega di Biancaneve deve essere brutta e spaventare, similmente a quanto la regina deve essere bella ma ambigua, e Biancaneve bella ma ambigua a sua volta. È viva? È morta? È forte? È debole? Le favole rappresentano i sentimenti umani, e i sentimenti umani vanno esperiti nello spettro ampio del loro chiaroscuro per poter essere conosciuti, per cominciare fin da bambini a sviluppare i primi passi di una coscienza di noi stessi.

Se Roald Dahl è stato così amato da generazioni e generazioni di bambini, poi genitori a loro volta, che l’hanno trasmesso ai propri figli, evidentemente è riuscito a parlare e a dire qualcosa di potente, che è risuonato nel bozzolo di coscienza infantile di tanti piccoli. La magia della letteratura fa sì che Roald Dahl riesca a farlo anche molto dopo la sua morte, ma – qui si inserisce un elemento di angoscia che sarebbe bello poter affidare a favole adulte, per esorcizzarlo – atterrisce l’idea che da ora possa vedersi cambiare la voce da chi, erede e acquirente del suo marchio, si arroga il diritto di trasformare le sue parole. Di adoperare nel modo più analogico possibile una tecnologia di cui oggi spesso si parla per le manifestazioni digitali: il deepfake. La trasformazione di ciò che si è detto in qualcos’altro, che non si è mai detto. Più prosaicamente, e da ben prima che si trattasse di un dispositivo tecnologico: mettere in bocca a un autore cose che non ha mai detto, senza che possa ribellarsi.

Il diritto norma e tende a impedire una alterazione del genere considerando i diritti morali di un’opera facenti capo al suo solo autore, e rendendoli inalienabili. Ovvero un autore non può disconoscere la sua opera, neanche lo volesse. E fra questi diritti morali inalienabili che fanno capo all’autore c’è il diritto all’integrità dell’opera. Non è possibile alterare un testo fino al punto di dis-integrarlo, e fingere che sia lo stesso testo di prima. Anche i testi esigono il rispetto di una loro verità. La scrittura dei testi reclama la sua verità storica. Ecco perché in genere, alla morte di un autore o autrice, il diritto prevede che la tutela dei diritti morali dell’opera spetti ai familiari dell’autore, in quanto per la vicinanza affettiva – ipotetica – all’autore defunto, si presume siano le persone più credibili per rispettarne l’eredità morale.

Cosa accade però quando, come nel caso di Roald Dahl, i diritti d’autore sono stati ceduti a una holding multinazionale? La legge anglosassone non lega inscindibilmente i diritti morali sull’opera alla personalità dell’autore. Anche questi possono essere dunque trasferiti e contrattati, ed è quello che è evidentemente accaduto fra la Roald Dahl Story Company di Netflix e la casa editrice che sta riscrivendo i suoi libri. Roald Dahl continuerà a firmare e comparire come l’autore di un testo a tutti gli effetti riscritto da altre mani, secondo una sensibilità che non era né la sua, né quella del suo tempo, e che rimette in discussione la sua autorialità ma svilisce, inseparabilmente, anche la dignità e la validità della lettura che per decenni milioni e milioni di bambini, molti dei quali oggi adulti, hanno fatto delle sue parole. L’integrità violata non è solo quella dell’autore, persona che viene concretamente danneggiata, senza possibilità di difesa, nel nome di una sensibilità generica che non protegge nessun individuo in particolare da una qualche offesa personalmente arrecata. È anche l’integrità dei lettori, quelli del passato che hanno letto un’opera ormai dis-integrata, e quelli del futuro, che leggeranno un’opera alterata secondo i criteri del deepfake.

Si tratta di un’operazione molto delicata e controversa. Non è bruciare i libri, ma sì somiglia alla distruzione delle opere di una civiltà per erigere quelle di una nuova civiltà. Vanno in questo senso le preoccupazioni espresse da associazioni per la difesa della libertà d’espressione come PEN, associazione di scrittori da sempre molto impegnata contro la censura, la cui responsabile Suzanne Nattel ha manifestato pubblicamente la preoccupazione per l’operazione realizzata sui romanzi di Dahl: “si comincia con cambiare una parola qui e lì, e si finisce per inserire idee completamente nuove e prima assenti”, che è proprio quanto è stato fatto con il romanzo di Dahl Le streghe, per esempio, dove ora compaiono considerazioni di buon costume sull’usanza di portare le parrucche per le donne, che Dahl non aveva mai espresso.

La posta in gioco qual è? Davvero stiamo parlando del rispetto della sensibilità dei nuovi lettori? O piuttosto l’intento è fare leva su questo elemento emotivo e morale per costruire e solleticare un nuovo segmento di marketing? E a cosa rischiamo di rinunciare, collettivamente, perché qualcuno possa garantirsi un profitto ulteriore attraverso una nuova profilazione del suo pubblico? L’integrità dell’opera è l’integrità della persona, e ci sono aspetti della nostra persona che non possono essere ceduti, questo afferma oggi la legge sul diritto morale d’autore almeno nei Paesi in cui esso tuttora prevale rispetto alla sfera commerciale: fra questi aspetti, la verità storica sulla nostra opera, la titolarità del nostro pensiero, il rispetto del nostro lavoro. La sensibilità del tempo sta crescendo verso tanti modi di esprimersi, dicono, che sono sempre stati offensivi ma che un tempo erano considerati normali. Se anche fosse, non è un motivo valido per sostituire e cancellare eventuali sensibilità precedenti: la storia che procede per cancellazioni e sostituzioni ricorda più la competizione fra visioni del mondo che desiderano farsi egemoniche, che non il reale rispetto per la diversità. Non puoi rispettare nessuna diversità, infatti, se non rispetti innanzitutto l’integrità del nucleo che di tali diversità è portatore: la persona e il suo pensiero.



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