La decrepita destra meloniana è peggio del fascismo

Gli sforzi del governo sono dedicati al passato, a demolire quanto di poco ma buono costruito dagli avversari, mentre nessun interesse viene mostrato verso il futuro, temuto piuttosto che confrontato. Non a caso la politica estera ricorda la politica dei decenni democristiani, un neocorporativismo retrivo e bigotto, mentre l’immagine del povero è sempre più ricalcata su quella – criminalizzata – dell’extracomunitario. La povertà, il disagio sociale, la marginalità tornano a essere una colpa, anziché una insospettabile risorsa. Che fare, dunque?

Michele Marchesiello

Bisognerebbe andarci piano nell’accostare l’esperienza del governo Meloni al fenomeno “fascismo” còlto negli aspetti generalmente più riconoscibili e “codificati”.
È – ce ne rendiamo conto – un sentiero molto stretto; è come camminare su un crinale sottilissimo, o in equilibrio su di una fune, col rischio di precipitare dall’una o dall’altra parte. Eppure, è necessario provare a percorrerlo quel sentiero, rischiando di farsi dare del “fascista” o (il che è a volte anche peggio) dell’antifascista.
Riconosciamolo: il fascismo storico, brutale, nemico della libertà, velleitario, aveva pur sempre una visione. Una visione distorta e anche ambigua, ma capace di raccogliere il consenso di quanti erano disposti a cedere la libertà in cambio di sicurezza, parole d’ordine e persino di un’accelerazione forzata verso la modernità. Il nuovo Paese chiedeva di crescere e il fascismo lo spingeva d’autorità in quella direzione. Stanco di una guerra che l’aveva privato delle forze più giovani e vitali, il Paese era femminilmente pronto (ci si consenta) a darsi in braccio al dittatore, al “Duce”.
Nulla di tutto questo nell’attuale, cosiddetta maggioranza, cui l’astensionismo e l’indifferenza dei più ci hanno consegnati.
Nel governo Meloni regnano incompetenza, pressapochismo, una più che modesta cultura e – soprattutto – il disorientamento di chi, senza aspettarselo davvero, è stato di colpo investito di una responsabilità della quale sa bene di non essere all’altezza.
Il ‘Siamo pronti!’, leit motiv del trionfo di FdI, dovrebbe essere sostituito da un bel “Siamo davvero pronti?”
Più che su una visione – una qualsiasi – l’azione del governo Meloni sembra fondata sul disorientamento: la sua immagine la foto di un manipolo variegato di incompetenti. È – poniamo – come se i componenti di un qualsiasi bar Sport del paese fossero stati sbalzati d’improvviso a Palazzo Chigi. Peggio ancora, perché nei bar Sport esistono e si confrontano opinioni: molte discutibili, alcune ragionevoli. Nei bar Sport, attorno al biliardo, non ci si chiede cosa vuole la gente là fuori, per assecondarne le pulsioni, ma nascono vere opinioni da parte di attori che impersonano di volta in volta – sapendo di non esserlo – l’allenatore della nazionale di calcio, il capo del governo, il regista occulto della politica mondiale.
Del resto, (fatte le debite proporzioni) non sono stati proprio i caffè di Londra e Parigi a segnare la nascita della democrazia borghese-liberale? I bar Sport potrebbero costituirne la variante popolar-nazionale.
È per questa fondamentale differenza, a ben vedere, che l’attuale maggioranza non riesce, nonostante gli sforzi e i privilegi offerti, a radunare attorno a sé una pattuglia di veri intellettuali. Non che gli intellettuali non siano disposti a lasciarsi sedurre. Il fatto è che si chiede loro, semplicemente, il sacrificio della vocazione, il farsi docile vox populi ammantandola di falsa autorevolezza. Di de-intellettualizzarsi, insomma.
Andate a rileggere, o leggere il vecchio, dimenticato libro di Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, e vi renderete conto del fascino perverso esercitato allora dal regime su una schiera di giovani e meno giovani intellettuali.
Quando uscì, il libro di Zangrandi venne letto – dati i tempi – come la denuncia di quanti, dopo la caduta di Mussolini e del suo regime, avevano precipitosamente attraversato la frontiera passando dalla parte della democrazia catto-comunista. E, tuttavia, in questo veloce attraversamento, c’è una curiosa, paradossale continuità che va oltre l’opportunismo. La modernità stessa aveva cambiato di campo, mentre i totalitarismi avevano denunciato crudelmente, con ferocia inaudita, la vera natura dei loro obiettivi.
Un esempio. Andando a ricercare le origini di destra della cultura giuridica italiana (ma, temo, non solo), ci si rende conto con stupore che la gran parte dei Maestri del diritto, sui cui testi avevamo studiato e ci eravamo formati come giuristi democratici, non solo avevano aderito al fascismo, ma ne avevano osservato diligentemente le direttive: politiche, etiche, filosofiche e pratiche. Al massimo avevano osservato un prudente, mimetico silenzio, significativamente rispettato dal regime.

Proprio Piero Calamandrei (‘Lo avrai, camerata Kesselring…’) fu tra gli autori del codice di procedura del 1940, tuttora in vigore, al pari del “fascista” Codice civile.
Che ne è dunque – oggi – della posizione degli “intellettuali” nei confronti della nuova (in realtà subito decrepita) destra meloniana? Quella destra che deve oggi accontentarsi – ma ne è intimamente felice – del travolgente successo editoriale del libercolo di un generale ‘alalà’?
Privo del controllo critico da parte di un autentico ceto intellettuale, ogni passo del governo Meloni è segnato da questa radicale decrepitezza, da questo patetico guardarsi indietro.
Non a caso quel governo abusa dello strumento penale contro i giovani, colpevoli di drogarsi, lasciarsi sedurre dalla criminalità, vagabondare armati, e contro le loro famiglie, incapaci di tenerli a bada.
Non a caso gli strumenti delle manovre economiche e finanziarie sono immancabilmente rivolti a favorire quelli che già hanno tutto, contro quelli che non hanno niente o hanno perso tutto. Giorgia Meloni si è meritata il titolo di “Draghetta”.
Non a caso gli sforzi del governo sono dedicati al passato, a demolire quanto di poco ma buono costruito dagli avversari, mentre nessun interesse viene mostrato verso il futuro, temuto piuttosto che confrontato. Il passato è l’habitat decrepito da cui è uscita questa destra: lo stesso che essa non pare intenzionata ad abbandonare.
Non a caso la politica estera ricorda da vicino – in una versione abborracciata e inconcludente – la politica dei decenni democristiani.
Un neocorporativismo retrivo e bigotto viene continuamente incoraggiato, mentre l’immagine del povero è sempre più ricalcata su quella – criminalizzata – dell’extracomunitario. La povertà, il disagio sociale, la marginalità tornano a essere una colpa, anziché una insospettabile risorsa.
Il governo Meloni non è fascista: è, se possibile, ancora peggio. Che fare, dunque?
Occorre forse reinventare la resistenza. Non quella con la R maiuscola, delle celebrazioni e delle infinite polemiche. Occorre una nuova resistenza, diffusa, pulviscolare, instancabile da parte non di pochi eroici partigiani, ma di chiunque si senta tradito, offeso, ignorato da questo governo che dire “di destra” suona un’offesa per la destra vera.
Basta saper dire di no, con ostinazione, come il Bartleby di Melville, tutte le volte che se ne presenti l’occasione.
Quando, ci si chiede, il popolo degli indifferenti e degli astensionisti comincerà finalmente a ribollire d’ira e non poterne più di questo sciagurato, triviale immobilismo?
A dire con fermezza “Preferiamo di no!”?

CREDITI FOTO Flickr | edoardo baraldi



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