La democrazia dei partiti perduti

Se le democrazie non riescono più a riprodurre sé stesse, la causa non va cercata nelle scelte degli elettori, ma nella crisi dei partiti come principali intermediari della rappresentanza.

Fabio Armao

Da anni le democrazie – dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Francia a Israele – manifestano una crescente e ormai cronica incapacità di garantire una stabilità di governo, cui magari si cerca di porre rimedio attraverso un ripetuto ricorso alle elezioni anticipate. Salvo poi accorgersi che è proprio il responso delle urne a confermare o persino a rafforzare l’ingovernabilità, non consentendo il formarsi di maggioranze solide e approfondendo così la frattura tra esecutivi e parlamento. Sembra quasi che i partiti, sempre meno capaci di elaborare programmi appena convincenti e costruire alleanze, si siano ridotti a pensare che le elezioni siano una lotteria e che il caso possa produrre un risultato diverso dalla volontà già più volte espressa dagli elettori. Nel dibattito che consegue ad ogni ulteriore fallimento poi, soprattutto qui da noi, l’attenzione si concentra invariabilmente sul meccanismo del voto e sulle proposte di modifica della legge elettorale, come se ciò potesse bastare a risolvere il problema tutto politico della formazione di coalizioni di governo.

Se le democrazie non riescono più a riprodurre sé stesse, tuttavia, la causa non va cercata nel voto (tanto meno nelle scelte degli elettori, ivi compreso l’astensionismo), ma nella crisi dei partiti come principali intermediari della rappresentanza e come aggregatori degli interessi collettivi. La riforma improrogabile della forma partito, tuttavia, è il tema meno dibattuto dalle élites politiche (a dire il vero, è un problema del tutto rimosso). Eppure, dovrebbe risultare evidente che è proprio l’organizzazione dei partiti a fare la differenza tra una democrazia e un’autocrazia; ben più che il multipartitismo in sé o la regolarità delle scadenze elettorali. Per essere ancora più espliciti, la vera battaglia tra democrazia e autocrazia non si combatte sul piano dei valori, ma su quello delle istituzioni.

La possibilità di continuare a distinguere Salvini o la Meloni o la Le Pen, da Orban e da Putin (e le rispettive porzioni di masse che ne condividono in tutto o in parte le posizioni) rimane affidata al “metodo” di governo: ci si può limitare a rivendicare i propri valori in una pubblica arena, oppure farne un fattore di discriminazione (anche per via legislativa) o, infine, imporli con la violenza a chiunque non li condivida. In altri termini, si può aderire a un’idea molto conservatrice di società che potremmo anche lecitamente definire, per affinità storiche, come “fascista”, senza tuttavia volerla incarnare nei princìpi fondanti dello Stato – nel qual caso saremmo a tutti gli effetti ritornati al regime fascista.

Troppo spesso ci dimentichiamo che la “superiorità” della democrazia consiste nel consentire a ciascuno di praticare i propri valori, in modo da ridurre tra l’altro le cause di conflittualità; la sua prerogativa è (o dovrebbe essere) la sua capacità di inclusione, possibile però soltanto se ci sono istituzioni in grado di conciliare la diversità di posizioni attraverso la pratica del compromesso. Nella vita reale, inoltre, democrazia e autocrazia non individuano una dicotomia, ma delimitano gli estremi di un continuum, lungo il quale ciascun governo tende a posizionarsi sulla base non di ciò che dice, ma di ciò che fa. Il problema è che l’involuzione dei partiti, in quanto strutture cardine della rappresentanza, sembra abbia trasformato anche in Europa quel continuum in un piano inclinato, con la conseguenza di favorire un graduale slittamento verso l’estremo dell’autocrazia.

L’Italia, come spesso le è capitato in campo politico, ha anticipato tale involuzione, anche come conseguenza delle vicende di Tangentopoli e del crollo della cosiddetta Prima repubblica. A dire il vero, aveva già prima riscoperto il fascino della leadership carismatica; ma il salto di qualità è stato comunque significativo: mentre Craxi si era accontentato di scalare un partito, oltretutto con una grande tradizione storica, diventandone il segretario, Berlusconi il partito se lo inventa e se lo cuce addosso a sua immagine e somiglianza e si fa anche protagonista di un’autentica rivoluzione mediatica nel campo della comunicazione politica, grazie a un monopolio di fatto delle reti televisive private.

Da allora, ci si è crogiolati su due illusioni: che per fare un partito bastasse un leader e che la rappresentanza potesse ridursi a un tweet seguito da un like. E che questi due fattori, da soli, avrebbero garantito il successo sul mercato elettorale. Su tutto il resto, cioè sulla struttura e sulle regole dei nuovi partiti, si è preferito sorvolare: sugli statuti, sulla democrazia interna, sui meccanismi di reclutamento del personale politico, sulle forme di radicamento nel territorio; riducendo il programma agli slogan di volta in volta ritenuti più spendibili dalle truppe cammellate di sondaggisti ed esperti di immagine.

Il dramma odierno è che si pretende di difendere la democrazia dagli assalti sempre più cruenti delle autocrazie affidandone la gestione a partiti che non sono democratici al proprio stesso interno e che, per sopravvivere, sono costretti ad affidarsi alla capacità dei propri leader di stimolare link empatici con l’opinione pubblica, garantendone la mobilitazione permanente: con risultati diversi e discontinui, tutti i capi di governo (e, spesso, anche dell’opposizione) delle maggiori democrazie hanno finito con l’adottare questo standard.

Le cronache politiche italiane di queste ultime settimane di guerra e di crisi (ambientale, energetica e, di nuovo, pandemica) ci mostrano un quadro surreale di sedicenti partiti che non riescono a emanciparsi da garanti e padri-padroni più o meno nobili, in preda a faide tra clan e a scissioni, incapaci di un qualsiasi autentico dibattito interno sui contenuti del progetto politico che li dovrebbe contraddistinguere – e che, ai limiti dell’autolesionismo, arrivano a rivendicare il principio che “cavallo che perde non si cambia”. Il frazionismo, è noto, è una delle malattie storiche della politica italiana (e della sinistra più ancora che della destra), che si è potuto spacciare per una fonte di arricchimento del dibattito e delle posizioni invece che per sterile settarismo almeno finché c’erano in gioco idee e modelli di società. Adesso, invece, tutto si gioca sulla fedeltà a un capo, troppe volte a prescindere dai messaggi di cui si fa portavoce, fino al punto da accettare di diventare succubi dei suoi umori. Di qui la proliferazione di partiti comunque personali, di cui si trova ampia traccia nel gruppo misto del parlamento e che, soprattutto in prossimità delle elezioni, costringe i protagonisti a inutili acrobazie semantiche – coalizioni, campi larghi, grandi centri – nel tentativo (vano) di ottenere una maggioranza e garantire stabilità al governo.

È facile prevedere che, quanto più si asseconderà questa deriva, tanto più si accentueranno due fenomeni già ampiamente visibili (e non solo in Italia) e destinati a rafforzarsi a vicenda: il crescente astensionismo e il rafforzamento delle reti notabilari e clientelari sul territorio per il controllo di pacchetti di voto. L’unica alternativa a salvaguardia di quel che resta della democrazia consiste nel ripensare, prima ancora che rifondare, i partiti. Ciò non vuol dire tornare agli apparati burocratici dei vecchi partiti di massa; né, d’altra parte, buttar via l’esperienza dei partiti digitali. Si tratta, piuttosto, di mitigare gli eccessi personalistici, ad esempio prevedendo dei limiti stringenti di durata delle cariche, compresa quella di segretario, per favorire la rotazione dei membri (rifuggendo le acclamazioni a vantaggio delle votazioni a scrutinio segreto). Nonché di recuperare la funzione di creare competenze tra i propri iscritti, partendo dal livello dell’amministrazione locale per arrivare fino a quello nazionale: la politica è una professione, ma non deve necessariamente sfuggire alle regole che valgono in altri settori, a partire da quella del pensionamento, raggiunta una certa soglia di anzianità di servizio – e che non andrebbe aggirata nemmeno offrendo cariche ampiamente remunerate nella pubblica amministrazione o nei consigli d’amministrazione delle aziende a partecipazione pubblica.

 

(credit foto ANSA / CIRO FUSCO)



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