Stipendi bassi, poca didattica e molta burocrazia: la disillusione degli insegnanti europei

Secondo il rapporto Eurydice del 2022 in tutti i Paesi dell’UE gli insegnanti dedicano alle attività d’aula meno della metà del proprio orario di lavoro, divorato da impegni burocratici. È cruciale ma ancora latitante l'impegno dei governi europei nel migliorare le condizioni lavorative dei docenti e stimolare la vocazione all'insegnamento.

Carlo Scognamiglio

Mentre giunge alla conclusione l’anno 2022, Eurydice Italia mette a disposizione sul proprio sito web un lungo documento intitolato: Insegnanti in Europa: carriera, sviluppo professionale e benessere. Si tratta di un rapporto che sintetizza i dati qualitativi Eurydice (anno di riferimento 2019/20), basati sulle politiche e le normative nazionali, con i dati quantitativi emersi dall’indagine TALIS (Teaching and Learning International Survey) del 2018, basata prevalentemente su interviste raccolte tra i vari attori dei sistemi scolastici europei (per lo più docenti e dirigenti) al fine di raccogliere percezioni personali ed esperienze concrete.

Il target scelto è quello dei docenti della secondaria inferiore (ISCED 2) e prende in esame tutti i 27 membri dell’UE, nonché Regno Unito, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Serbia e Turchia. Con stile anglosassone, il rapporto anticipa immediatamente – in estrema sintesi – i risultati dell’indagine sviluppata. Dal punto di vista delle condizioni di lavoro, emerge con forza che pressoché in tutti i Paesi dell’UE i docenti dedicano alle attività d’aula meno della metà del proprio orario di lavoro. Il resto del tempo è distribuito tra attività funzionali all’insegnamento (come la preparazione delle lezioni o la correzione delle verifiche) e per circa un quarto del proprio monte ore complessivo, sono costretti a concedere tempo ed energie ad attività burocratico-amministrative, necessarie per garantire il funzionamento della complessità di un’organizzazione come la scuola; con delle differenze importanti, tuttavia: in Turchia, Paese che ha più aspiranti docenti di quanti il sistema sarebbe in grado di accogliere, il tempo dedicato ad attività “extra-didattiche” si ferma al 12% rispetto all’impegno lavorativo complessivo.

A Cipro o in Inghilterra, invece, dove si assiste alla difficoltà di reclutamento di insegnanti in area scientifica o a fenomeni di dimissioni diffuse, il tempo medio che gli insegnanti della secondaria di primo grado riescono a dedicare al puro insegnamento si ferma al 40%. Questo dato è sintomatico: la progressiva iper-burocratizzazione della professione rischia di generare disaffezione. Intendiamoci: è del tutto evidente che una parte di cura documentale e ponderazione gestionale devono far parte della professionalità di un insegnante, che non lavora da solo e non è un precettore domestico, bensì un elemento di un sistema molto articolato, in cui occorre saper contribuire proficuamente. Ma non vi è dubbio che un certo allontanamento dalla precedenza della didattica è ormai sensazione diffusa.

In generale, gran parte degli insegnanti europei sono insoddisfatti dei propri stipendi, soprattutto là dove la retribuzione si colloca al di sotto della media del PIL pro-capite. Il livello di stress dichiarato è molto elevato, e le ragioni del malessere sul posto di lavoro sono attribuite un po’ ovunque al sovraccarico di lavoro amministrativo, alle aspettative troppo alte sui risultati degli studenti e alle difficoltà di gestione di classi sempre più irrequiete dal punto di vista disciplinare.

In molti Paesi la progressione di carriera è resa possibile da processi valutativi o da esperienze formative (sviluppo professionale), mentre in altri l’unica variabile di miglioramento economico è legata all’anzianità di servizio. La formazione in servizio è valorizzata praticamente ovunque, e il 93% dei docenti ha dichiarato di aver frequentato percorsi di aggiornamento nell’anno precedente allo svolgimento dell’intervista, con molteplici percorsi affrontati nei Paesi baltici, e solo un paio l’anno, ad esempio, in Belgio e Francia.

In tutti i Paesi europei esistono forme di valutazione degli insegnanti, ma non sempre stringenti, e non in tutti (sebbene in molti) la valutazione – oltre a fornire feedback al docente – è utilizzata per disporre l’attribuzione di premi o disporre progressioni di carriera. Quasi ovunque partecipa o governa il processo di valutazione il dirigente dell’istituto scolastico, e gli strumenti prevalenti sembrano essere le osservazioni in classe o i colloqui individuali, entro i quali iniziano a prender parte sempre più importante gli elementi informativi legati ai risultati scolastici degli studenti: “i dati TALIS 2018 mostrano che è molto diffuso l’utilizzo dei risultati esterni degli studenti e di quelli scolastici. In tutta l’UE, più del 90% degli insegnanti lavora in scuole dove tali informazioni vengono utilizzate per la loro valutazione” (p. 190). Solo 15 paesi ricorrono al processo autovalutativo come strumento per la valutazione degli insegnanti.

La conclusione del rapporto è preoccupante, ma degna di aprire una riflessione anche in Italia:

In tutta Europa, i sistemi educativi stanno affrontando una crisi vocazionale della professione docente. La maggior parte dei paesi riscontra una carenza generale di insegnanti, a volte esacerbata da squilibri nella loro distribuzione tra materie ed aree geografiche, da un invecchiamento della popolazione docente, da abbandoni della professione e da bassi tassi di partecipazione alla formazione iniziale. Molti sistemi educativi affrontano diverse sfide contemporaneamente e hanno bisogno di politiche che possano ridare attrattività alla professione dell’insegnamento come scelta di carriera. I governi di tutta Europa stanno mettendo in atto piani che mirano a contrastare il logoramento degli insegnanti, spesso tramite la riorganizzazione della formazione iniziale, il miglioramento delle condizioni di lavoro, la riforma dei percorsi di carriera e la modernizzazione dello sviluppo professionale continuo” (pp. 18-19)

Ma in questo lungo rapporto, che racconta i vari aspetti delle condizioni di lavoro dei docenti europei, attraversando temi importanti come l’età pensionabile o la mobilità internazionale, manca un elemento, che pure dovrebbe esser considerato cruciale, imprescindibile per chiunque possegga una conoscenza minima di teoria delle organizzazioni: qual è il grado di coinvolgimento degli insegnanti nei processi decisionali? È possibile che una progressiva attenuazione della capacità democratica – affermatasi mezzo secolo fa in molti sistemi scolastici europei – abbia progressivamente contribuito a una disaffezione nei confronti della professione? Al di là dei prevedibili argomenti economici e reputazionali, la qualità e la quantità della partecipazione collegiale, l’effettiva significatività del proprio patrimonio di idee in un contesto organizzativo – o al contrario la sua svalutazione e marginalizzazione – potrebbero comporre quel tassello mancante, necessario per rendere decifrabile il puzzle di questo lento tramonto, un “grande freddo” di disillusione, come sembra emergere dalle evidenze raccolte da Eurydice e TALIS, rispetto al quale tutti i governi europei dovranno quanto prima individuare risposte capaci di agire in profondità.



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