La fede maradoniana: Napoli celebra il suo capitano eterno

Domenica 4 giugno il Napoli ha festeggiato il terzo scudetto dopo trentatré anni dall'ultimo, non senza Diego Armando Maradona.

Maria Concetta Tringali

Ci sono molti modi per elaborare il lutto, chi ha perso qualcuno perlopiù reagisce al dolore ignorandolo oppure attraversandolo, a rischio di lasciarsi lacerare. La maniera che la gente di Napoli ha trovato, dal 25 novembre del 2020, pare quella di mantenere Diego Armando Maradona “dentro” la vita di tutti i giorni, trattenendolo come sospeso sulle mille bandiere che sventolano.
È così che la città, in festa per il terzo scudetto, dopo trentatre anni dal primo, è terra di mezzo: a ogni angolo gigantografie ritraggono il dodicesimo uomo in campo, in tutte le espressioni possibili.
Sorride, si corruccia, esulta, incoraggia, piange, cade e si rialza, il numero 10 di tutti i tempi è sempre il capitano del Napoli.
Diego, come dio, conferisce al suo popolo l’orgoglio dell’appartenenza.
Da via Toledo risalendo i vicoli fino a Largo Maradona, è un inerpicarsi tra quartieri che oggi più che spagnoli sono argentini: l’amore che si respira è spiritualità pura.

A vederlo, quel fazzoletto di terra battuta (un parcheggio al servizio di due stabili) ha i tratti inequivocabili del santuario, laico eppure religiosissimo. Tra quelle quattro pareti scorticate, rivestite di azzurro, a chiudere un pezzo di cielo, si comprende che l’eternità in qualche caso è privilegio dell’umano.
Non manca nemmeno la santa reliquia: il calco del piede sinistro resta esposto su un muretto, a dimostrazione di quei goal che regalarono sogni.
Il nuovo Masaniello sa che gli sono rivolte suppliche e lodi, lui c’è, tangibile come un santo in piena salute.
Nel regno di Napoli lo stadio oggi porta il suo nome, così i figli avuti da chi, negli anni Ottanta, era poco più che un ragazzo: per strada, se chiami Diego, si girano a decine.

Ci sono amori che non distinguono oggi da ieri e continuano ad abitare ogni domani. A Napoli non c’è confine, un po’ come succede a Palermo per tutt’altro motivo, i vivi e i morti camminano gli uni a fianco degli altri, con naturalezza estrema.
È la città della superstizione, che la morte teme e allontana, dove il gesto di ritirare in fretta corna e cornetti dal bancone al passaggio di un corteo funebre restituisce, immediato, il senso del rispetto che resta a impegnare l’aria.
Come Raimondo di Sangro, principe di San Severo, aveva deposto insieme al suo Cristo velato il superamento di ogni passione umana, accedendo a una resurrezione invisibile, così con Diego codici antichi eppure modernissimi tornano a intrecciarsi. Quella per Maradona è una fede che conosce rituali precisi, da trent’anni. Anche l’argentino, come fece il mecenate, mutua dalla religione dei papi codici precisi. Il principe spingeva l’uomo verso la luce della ragione, una sublimazione cui sarebbe arrivato per ascesi, attraversando il disinganno. Allo stesso modo, nelle inenarrabili gesta del Pibe de oro, una città intera ha trovato riscatto, abituata a perdere e a umiliarsi ha toccato con lui il tetto del mondo: da quel momento ogni vittoria, in ogni tempo, gli è consacrata, è sua, perché da lui solo promana.

Neanche l’amore per il D10S però può tutto.
Non ha salvato il campione da una morte in solitudine, ad esempio.
In Quando hanno ucciso Maradona, di Maurizio Crosetti, uscito per Piemme edizioni nel marzo del 2021, la sua scomparsa è cronaca. Oggi sono imputati per omicidio colposo i medici che in una clinica di Buenos Aires lo hanno avuto in cura, dimettendolo forse precipitosamente dopo l’intervento al cervello resosi necessario per ridurre l’emorragia dovuta a una caduta. Circostanze sospette di una morte forse evitabile.
La droga, gli eccessi di una vita non lo hanno ucciso, quanto la solitudine, in fondo.
Una parabola finita male, quella del dio dei napoletani. Un personaggio ingombrante e scomodo, inviso ai potenti, un santo degli ultimi che difendeva con fare da capopopolo dentro e fuori dal campo.
Il miglior calciatore di tutti i tempi, troppo umano e persino troppo politico: vizi difficili da perdonare, ma emendati con la generosità di una vita esplosa come una stella su un terreno di gioco. A noi resta la magia del genio e una città in festa.

Foto Flickr | Simone Starace

 

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