La fragile indipendenza della magistratura

In un volume edito da Seb27, il giudice Paolo Borgna e il ricercatore Jacopo Rosatelli si confrontano in un dialogo senza reticenze intorno a uno dei valori fondamentali della nostra democrazia: l’indipendenza della magistratura.

Maria Concetta Tringali

Un atto d’accusa dall’interno, ma anche un saggio con il ritmo di un’opera letteraria. Così si presenta il volume Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura (Seb27, 2021) in cui Paolo Borgna – magistrato a Torino dal 1981 al 2020, già avvocato e autore di numerosissime pubblicazioni – e Jacopo Rosatelli – insegnante, ricercatore di Studi politici e giornalista – si confrontano a partire da uno dei valori fondamentali della nostra democrazia (e non solo per gli operatori della giustizia, ma per l’intera società): l’indipendenza della magistratura.

Una questione che alcuni scandali recenti (introdotti da Enrico Deaglio nella prefazione a sua firma) rendono di scottante attualità: dal caso Palamara – con l’ex presidente dell’Anm rinviato a giudizio dal gup di Perugia per corruzione – al caso Bellomo – con la destituzione del magistrato per voto quasi unanime del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per le accuse di molestie alle aspiranti magistrate che frequentavano la sua scuola – passando per le indagini scaturite dalle dichiarazioni e dai verbali dell’avvocato Piero Amara sull’esistenza di un’associazione segreta, nota come “Loggia Ungheria”.

Le riflessioni sollecitate al giurista da Jacopo Rosatelli (vero e proprio interlocutore alla pari) servono a inquadrare il problema e a immaginare soluzioni, con la consapevolezza che di preconfezionate non ce ne sono mai.

Il libro passa in rassegna fatti che sembrano disegnare un sistema che muta e conosce momenti antitetici, un sistema che abbiamo costruito in poco meno di 80 anni di Repubblica: «Divenni magistrato nel 1981, un anno in cui lo scontro politica-giustizia era fortissimo […] Stava emergendo allora una magistratura che celebrava processi prima inimmaginabili: pensa all’esperienza dei cosiddetti pretori d’assalto». A monte c’era, lo spiega chiaramente Paolo Borgna, «una nuova composizione sociale della corporazione»: finalmente diventavano giudici i figli degli operai e della piccola borghesia impiegatizia. «Al principio degli anni Ottanta la nuova magistratura stava cominciando a scalzare la vecchia magistratura, quella affine al potere». Gli anni a venire sono quelli dello scontro, una questione che Mani pulite chiuderà segnando la scomparsa dei partiti tradizionali e dando avvio a una stagione nuova, dove il consenso popolare sposterà per sempre l’ago della bilancia. Ci troviamo dentro alla nostra storia più recente. La questione del modello – il lettore lo capirà da subito – è fondamentale. A differenza di quello ottocentesco (ritratto, a tratti anche romantico, del pretore che siede nell’ultimo angolo dell’unica trattoria «avendo come unica commensale la propria indipendenza») il tipo di giudice che incarna ad esempio Antonio Di Pietro pone il grosso problema della legittimazione popolare. Ed è proprio lì che l’ingranaggio va in tilt, quando ci si accorge che mancano gli strumenti di verifica che sono propri della legittimazione della classe politica.

A fare difetto è la critica esterna, dice il giurista, diversamente che negli anni Sessanta e Settanta quando a pungolare ci pensava la sinistra. Accade, così, che «con un coro sempre più plaudente attorno fa capolino la hybris: la tracotanza di chi facendo leva sul proprio potere si erge contro l’ordine costituito, si sente investito di un ruolo etico e da questo ruolo, a mio avviso, si fa travolgere».

Non ci sono sconti, quello di Paolo Borgna è un atto di accusa che nasce dall’osservazione condotta dall’interno. Senza tecnicismi, il lettore vi troverà una chiara declinazione di cosa sia l’indipendenza, nelle sue varie forme: da quella disegnata dai costituenti, che è l’indipendenza dagli altri poteri; a quella del giudice dalle parti del processo; passando per l’indipendenza dallo spirito del tempo e dai media; fino all’indipendenza dalla stessa corporazione.

Quest’ultimo profilo chiama in ballo le correnti, e fatti antichi e nuovi si mescolano: concetti come appartenenza, identità culturale, restano come impronte di un passato che ha ormai ceduto il passo a un presente in cui quelle correnti «continuano a esistere ma sono una crisalide vuota», servono ormai – dice il giurista – solo per fare carriera, per spartire incarichi.

A domanda, la risposta di Borgna non potrebbe essere più netta: «Io non credo alla riformabilità di questo sistema». E però una soluzione la cerca, incessantemente, in ognuno dei suoi ragionamenti, e la trova nella necessità di cambiamenti strutturali, senza i quali non sembra ci possa essere un autentico miglioramento.

È convinto che serva un’onda d’urto esterna, un movimento d’opinione che dedichi alla questione giustizia attenzione, studio, analisi, confronto, proposte di soluzioni. Una la individua nella riforma del Consiglio superiore della magistratura, a partire dal sistema d’elezione dei suoi membri, oggi per due terzi togati e un terzo laici. Se diventassero metà e metà, sostiene Paolo Borgna, sarebbe un passo nella giusta direzione.

Nel libro il valore aggiunto è certamente il dubbio, che diventa centrale proprio a proposito di quella riforma, specie sulla prevedibile ricaduta politica, questione che Jacopo Rosatelli non tarda a sollevare; ma il giurista ha un correttivo in mente: le nomine dei laici smettano di essere appannaggio del Parlamento, si permetta un meccanismo che attribuisca equamente l’espressione di quelle cariche tra Camera e Senato, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale.

Il tema di fondo – lo si capisce pagina dopo pagina – è la democrazia, i suoi pesi e gli irrinunciabili contrappesi, le nostre libertà e la misura di esse. Che sia condivisibile o meno la ricetta, ciò che conta è che siamo davvero nel cuore del sistema.

Se il fil rouge del testo è l’osservazione critica, la circolarità è la soluzione pratica. Lo schema immaginato da Paolo Borgna include nell’ingranaggio l’avvocatura e la società civile, entrambe ammesse nel nome del dialogo, e si fa critico in tema di separazione delle carriere. In controtendenza rispetto alle più diverse chiamate alle armi cui negli anni abbiamo assistito, il giurista è per la circolarità delle funzioni: svela qui la sua mossa del cavallo.

È un discorso fortemente politico quello che emerge, nell’accezione più autentica del termine.

Borgna è consapevole del peso dei “nuovi diritti” e del pericolo che un sistema di fonti nazionali e sovranazionali non ancora all’altezza possa spalancare la via all’arbitrio giudiziario, portandoci ben oltre la discrezionalità. Il giudice che crea il diritto, spingendosi al di là dei confini fisiologici dell’interpretazione della norma, è una figura nuova e priva di legittimazione che può sparigliare le carte.

Borgna è un giudice cosciente di maneggiare il dolore degli altri e attento all’importanza delle parole e del linguaggio; ha una spinta che riconosce come ineludibile la necessità di mettersi nei panni di chi gli sta di fronte. Sa che l’azione penale quando è gestita con istinti populisti può fare danni incalcolabili, «subire un processo con rilevanza mediatica da innocente è un’esperienza devastante».

Dopo averle percorse tutte, queste conversazioni, una cosa appare chiara: Borgna ha in mente una precisa figura di magistrato, così intellettualmente onesto da essere eternamente combattuto, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio.

Chi si avvicini a un testo del genere penserà d’impatto di misurarsi con un’opera di saggistica. C’è, tuttavia, sin dalle prime pagine qualcosa che fa sì che il lettore si ritrovi avvolto dentro una certa “luce”, quasi una certa “fotografia”, capaci di evocare più che le pagine di un trattato, le suggestioni del teatro o del cinema d’autore.

Un saggio di questa densità, con il ritmo accattivante di un’opera letteraria (anche grazie all’acume di Jacopo Rosatelli che centra le questioni illuminandone anche i contorni meno chiari) può considerarsi certamente una rarità. E una lettura irrinunciabile per chi sia in cerca di risposte e sempre nuove domande.



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