La Grecia come scudo d’Europa contro i migranti

Respingimenti, detenzione, contenimento, privazione delle libertà individuali, rimpatri. Per scoraggiare l’arrivo e la permanenza di migranti e rifugiati il governo greco sta iniziando a usare anche i centri dove venivano rinchiusi i dissidenti durante la dittatura dei colonnelli. Un reportage dalla frontiera greca della fortezza Europa.

Valerio Nicolosi

Un lungo muro che costeggia la sponda Ovest del fiume Evros che per oltre 150 chilometri divide la Grecia dalla Turchia, le croci di Orestiada dai minareti di Edirne, l’Europa politica da quella fisica che scivola verso l’Asia.

Il delta del fiume è un luogo di pescatori e uccelli, tanto da essere un sito dove si pratica il birdwatching, ma percorrendo uno dei ponti sul delta la strada si chiude per diventare zona militare. L’avvistamento in questo caso non è degli uccelli ma dei migranti che cercano di guadare il fiume nel punto dove la corrente e la profondità diminuiscono.

Da oltre un anno in supporto ai militari greci è arrivata l’Agenzia Europea Frontex, portando soldi per droni, termo scanner e da poche settimane anche dei “cannoni sonori”, utilizzati per stordire e far indietreggiare i migranti, come se fossero degli animali selvatici e pericolosi.

“È inconcepibile che migranti e rifugiati possano essere usati come ‘pedine’ geopolitiche per fare pressione sull’Unione Europea nel suo insieme. E penso che dobbiamo essere molto severi quando questo accade. Quindi dobbiamo essere molto chiari sul fatto che non possiamo essere messi sotto pressione da paesi che scelgono di utilizzare rifugiati e migranti per fare pressione sull’Unione europea per qualsiasi tipo di interesse” ha dichiarato il premier greco Mitsotakis alcune settimane fa, in occasione dell’incontro con il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri, omettendo che è stata la stessa Europa a dare le chiavi della sua porta d’ingresso alla Turchia, concedendo sei miliardi di euro nel 2016 per chiudere la rotta balcanica e mettendosi in una condizione di ricattabilità permanente.

Proprio la Grecia ha subito questo ricatto nel marzo 2020, quando Erdogan ha deciso di aprire le frontiere incoraggiando i migranti presenti in Turchia a dirigersi verso la Grecia, creando un caso diplomatico andato avanti più di una settimana e ha visto i due eserciti affrontarsi a distanza, con i profughi in mezzo.

Respingimenti, detenzione, contenimento, privazione delle libertà individuali, rimpatri. Sono gli elementi che il governo presieduto da Mitsotakis ha utilizzato sempre più spesso nei campi allestiti in Grecia per scoraggiare l’arrivo e la permanenza dei migranti e accentrando sempre di più la gestione per avere più controllo.

“Dal primo luglio tutti i richiedenti asilo che non saranno nei campi non riceveranno il contributo previsto proprio dal governo. È un modo per accentrare il controllo, soprattutto dopo la scelta di costruire i muri di cinta attorno a cinque campi e introdurre il riconoscimento facciale in alcuni di questi” commenta Anna Clementi dell’associazione “Lungo la rotta balcanica” che opera proprio in Grecia e che abbiamo raggiunto telefonicamente.

I fondi per costruire i muri arriveranno dall’Unione Europea e saranno gestiti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e il governo di Atene, i giornali ellenici parlano di circa 30 milioni di euro di investimento, quindi circa 6 milioni di euro a campo.

Diego Saccora, anche lui dell’associazione “Lungo la rotta balcanica” e in questo momento in Grecia, porta l’attenzione più sull’obiettivo generale di queste politiche: “questi progetti in corso danno sempre più l’idea di cosa saranno i campi nel futuro: detenzione ma soprattutto dissuasione nel mettersi in viaggio verso l’Europa, perché la Grecia non difende solo i suoi confini ma funge da scudo per l’Europa”.

Come scudo d’Europa la Grecia sta iniziando a usare anche i centri che durante la dittatura dei colonnelli erano utilizzati per rinchiudere i dissidenti, uno di questi è a Leros, isola vicinissima alle coste turche. Vengono mandati “al confino” si sarebbe detto un tempo, isolati dal resto del mondo. A Lesbo è in costruzione un nuovo campo, totalmente isolato dalla città e dai paesini lungo la litoranea, una sorta di prigione che possa raccogliere tutti i migranti dell’isola e far sparire il problema del fenomeno migratorio.

Lesbo nella sua parte nord-orientale dista appena 11 miglia dalla costa turca, una distanza percorribile anche con un gommone di pessima qualità. Il vero rischio in quel tratto di mare sono le forti correnti e le rocce a filo d’acqua che rompono le chiglie di gommoni e piccole imbarcazioni, provocando morti e feriti.

A Lesbo le ONG sono presenti nonostante il governo abbiamo ristretto sempre di più la possibilità di intervento. Medici Senza Frontiere è presente sull’isola con una clinica da campo davanti al campo principale e con una clinica specializzata in psichiatrica nel centro della città di Mitilene. Abbiamo parlato con la dottoressa Maria Eliana Tunno, psicologa che opera proprio a Mitilene: “la situazione del nuovo campo di Lesbo è simile a quella di Moria, il campo bruciato lo scorso settembre. C’è sovraffollamento, raramente le persone possono uscire e solo in orari prestabiliti, che non tengono conto degli appuntamenti che hanno i migranti per i documenti. D’inverno si allaga e fa freddo mentre d’estate fa caldo e non c’è ombra, le condizioni igienico sanitarie sono pessime, non è un posto per essere umani” racconta la psicologa.

Proprio Lesbo è al centro di grandi cambiamenti nella gestione dei migranti tanto da chiudere un campo importante come quello di Kara Tepe, dedicato esclusivamente alle famiglie e alle persone vulnerabili. “Alcuni nostri pazienti ci hanno raccontato di essere stati portati via nella notte e trasferiti proprio nel campo di Moria 2.0 dove chi ha una disabilità fisica o psicologica non può vivere” aggiunge la dottoressa Tunno.

Spesso l’intervento degli operatori sanitari è quello di dare sostegno per sopravvivere a questa condizione di contenimento del campo più che di curare ferite fisiche e mentali pregresse per poi poter tornare ad una vita normale. A pagare il prezzo più alto sono i minori che anche prima dell’incendio di Moria spesso hanno tentato il suicidio o hanno compiuto gesti autolesionistici. Un albero più isolato degli altri, una corda rimediata dalla spazzatura, una lametta trovata in strada o qualsiasi altra cosa potesse infliggere dolore o causare la morte era utilizzata da alcuni bambini di Moria. “Una bambina di 8 anni dopo l’incendio di Moria ha iniziato a regredire, ora non parla più. Nel 2020 abbiamo curato 50 bambini con idee o tentativi concreti di suicidio, quest’anno sono aumentate ma ancora non abbiamo i numeri” chiosa la dottoressa Tunno.

“Con la costruzione del nuovo campo di Vastria, praticamente isolato da tutto e al centro dell’isola, i migranti sarebbero totalmente nascosti dalla città e dai paesetti che si incontrano sulla litoranea. Di fatto sarebbe una prigione”.

(foto di Valerio Nicolosi)



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