La guerra capitalista spiegata nel nuovo libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli

Il libro “La Guerra Capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista” individua nella centralizzazione dei capitali uno dei fattori decisivi di squilibrio del sistema economico e politico internazionale ed un fattore fondamentale di stravolgimento delle nostre democrazie.

Enrico Grazzini

Quali sono le cause economiche dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e quali le cause dello scontro strategico tra Stati Uniti e Cina? Dopo la Prima Guerra Mondiale John Maynard Keynes spiegò nel suo best seller “Le conseguenze economiche della pace”[1] che il principale fattore di conflitto tra gli Stati è il debito: il rapporto tra i debitori e i creditori porta molto facilmente, se non inevitabilmente, alla guerra. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli nel nuovo libro “La Guerra Capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista” edito da Mimemis (2022) offrono un’interpretazione molto interessante e per alcuni aspetti anche molto keynesiana dei conflitti geopolitici in corso.

Secondo gli autori gli Stati Uniti hanno perso la guerra della globalizzazione e lo scontro attuale tra le grandi potenze è legato al gigantesco contrasto tra debitori e creditori: non è certamente un caso che gli Stati Uniti d’America con 14 trilioni di dollari di posizione finanziaria netta negativa verso l’estero (64% del suo PIL, dati 2021) siano il maggior debitore del pianeta e che Cina e Russia siano (insieme al Giappone e alla Germania) tra i paesi maggiori creditori del mondo. Il declino della potenza americana è quindi legato alla sua enorme posizione debitoria con l’estero: gli Stati Uniti possono reggere il loro pluriennale e crescente doppio deficit (deficit commerciale e deficit di bilancio pubblico) solo grazie all’”impero del dollaro”, e dunque al fatto che il dollaro – che la FED può stampare in quantità illimitata – è la moneta mondiale di riserva e, come tale, è richiesta da tutti i Paesi del mondo per commerciare. Gli USA difendono la loro posizione debitoria e il dominio del dollaro anche grazie al fatto che sono di gran lunga la maggiore potenza militare del mondo. E tuttavia sono una potenza declinante, come dimostra il debito crescente. Cina e Russia sono invece – spiegano Brancaccio, Giammetti e Lucarelli – le potenze vincitrici della globalizzazione. L’ingiustificata e illegittima invasione della Russia di Vladimir Putin dell’Ucraina può essere quindi letta come la risposta dell’imperialismo nazionalista grande-russo all’interno di uno scontro più complessivo con l’imperialismo americano in declino.

La guerra in Ucraina e in generale i conflitti tra USA e Cina vengono interpretati dagli autori come: uno squilibrio nei rapporti tra creditori e debitori tale da scatenare un’onda centralizzatrice dei primi verso i secondi. … È l’inizio di una nuova epoca, in cui la spinta della centralizzazione del capitale può trovare sbocco soltanto lungo i varchi segnati dal ferro e dal fuoco della lotta imperialista.

La guerra, secondo Brancaccio e coautori, può essere spiegata alla luce della legge tendenziale centrale nel capitalismo che spinge verso la centralizzazione dei capitali. La centralizzazione dei capitali è in effetti il principale oggetto di studio e di analisi di questo libro.

“L’evidenza scientifica supporta una “legge” di tendenza verso la centralizzazione del capitale, che distrugge la democrazia e fomenta la guerra. Gli imperialismi reali qui sono due, logicamente consequenziali: quello dei debitori in declino e quello dei creditori in ascesa, e sono destinati a scontrarsi come gigantesche zolle tettoniche in movimento. In tale circostanza, potrebbe risultare appropriato parlare di una nuova fase storica caratterizzata da una nuova tendenza, che definiamo: “centralizzazione imperialista del capitale”.

La parte centrale del libro riguarda proprio l’analisi della centralizzazione del capitale finanziario: gli autori la riprendono esplicitamente da Karl Marx; ma sembrano rigettare, o comunque mettere in secondo piano, quella che secondo Marx è, come noto, la principale tendenza che porterebbe alla crisi del capitalismo, ovvero la caduta del saggio di profitto. I tre economisti affermano, in accordo con l’analisi marxiana del capitalismo e in polemica con altre scuole di pensiero, che nel capitalismo non si verificano solo ricorrenze, regolarità o, peggio fenomeni casuali e anarchici, ma vere e proprie leggi che caratterizzano questo modo di produzione rispetto agli altri. Brancaccio, Giammetti e Lucarelli preferiscono centrare la loro analisi non sulla ipotetica caduta del saggio di profitto ma sulla tendenza alla centralizzazione dei capitali: questa viene definita come un processo che porta al controllo centralizzato di un’aggregazione di capitali preesistenti grazie a relazioni estese di partecipazione finanziaria.

Utilizzando metodologie sofisticate di Network Analysis, gli autori arrivano a dimostrare che è sempre più attiva una legge per la quale, attraverso reti di partecipazioni a quote più o meno rilevanti di capitale, attualmente l’1% dei soggetti finanziari riesce a organizzare e controllare in maniera centralizzata (ma anche decentrata) il sistema del capitalismo finanziario occidentale. Viene così asseverata l’analisi di Marx: “Il processo di centralizzazione associato allo sviluppo del sistema creditizio e finanziario favorisce dunque l’immissione di enormi quantitativi parcellizzati di capitale nelle mani di una ristretta “aristocrazia finanziaria”. Il capitalismo diventa però in tale modo un sistema oligarchico. Le reti finanziarie costituiscono sistemi complessi di relazioni di partecipazioni azionarie e proprietarie al cui centro ci sono i nodi principali delle reti, quelli che interconnettono e condizionano tutto il sistema: ovvero le grandi banche e le società finanziarie globali che costituiscono una sorta di “centro di comando” dell’economia.

Per Brancaccio, Giammetti e Lucarelli la centralizzazione è l’asse fondante del pensiero marxiano e ha conseguenze multidimensionali. “Per certi versi essa attiene alle economie dimensionali e alla produttività del lavoro, per altri riguarda le forme di mercato e la monopolizzazione dei mercati, per altri ancora si connette allo sviluppo del sistema creditizio e della società per azioni, e per ulteriori versi viene intesa da Marx come premessa per la proletarizzazione di spezzoni sempre più vasti della società capitalistica, e addirittura per la transizione da un modo di produzione sociale all’altro”. La centralizzazione, come abbiamo visto, riguarda anche i conflitti tra gli Stati e la guerra.

Una delle questioni fondamentali è ovviamente il rapporto che esiste tra centralizzazione dei capitali e la crisi economica: c’è infatti “un rapporto di reciproca interazione tra queste due fenomenologie, caratterizzato da una tendenza della crisi ad alimentare la centralizzazione e viceversa”. Il saggio analizza la centralizzazione dei capitali nel contesto delle differenti teorie dell’imperialismo e del capitale finanziario, da Hilferding a Kautsky, da Hobson a Lenin e poi Mandel, Baran e Sweezy e altri autori, anche italiani. Questo è un merito notevole del libro: la ripresa dello studio dell’imperialismo è infatti molto importante in una fase come questa caratterizzata dallo scontro diretto, anche di tipo militare, tra le superpotenze. Proprio in questo periodo diventa assolutamente indispensabile riflettere sugli imperialismi vecchi e nuovi.

Attraverso strumenti di analisi econometrica gli autori rilevano una forte correlazione tra centralizzazione e crisi e ne deducono che l’abnorme disponibilità di capitali legata alla centralizzazione finanziaria provoca sovrapproduzione nel mondo produttivo e sovraspeculazione nel mondo del commercio e della finanza, e dunque frequenti e gravi crisi periodiche. Le crisi a loro volta alimentano nuove e potenti accelerazioni dei fenomeni di concentrazione dei capitali. Brancaccio, Giammetti e Lucarelli non aderiscono però alla tesi dell’ultraimperialismo evocate per esempio da Kautsky e da altri: anche se in maniera non lineare, la centralizzazione porta a forme oligarchiche di capitalismo che non arrivano al monopolio assoluto ma producono contrasti commerciali e geopolitici e, potenzialmente, alla guerra.

La tendenza verso la centralizzazione sembra forte e irreversibile. La network analysis dimostra che il capitalismo americano e il sistema di “socialismo di mercato” cinese non sono meno oligarchici di quello russo, anzi, lo sono di più.  La legge della centralizzazione finanziaria vale quindi per i diversi sistemi economici. Il problema è che più il capitale è concentrato e più il sistema finanziario diventa instabile e prono alla crisi.

I fallimenti e le bancarotte rappresentano, secondo l’analisi dei tre autori, “l’olio miracoloso dell’ingranaggio capitalistico fondato sulla centralizzazione del capitale finanziario”. Ma sono anche il principale fattore di contrasto all’interno del sistema capitalista. La varianza dei redditi e delle posizioni finanziarie esaspera infatti il conflitto sociale sulla solvibilità interno alle economie nazionali. La lotta è soprattutto tra capitali deboli e forti: in questo contesto un ruolo assolutamente decisivo è giocato dalla banca centrale. I tre economisti spiegano che: “se la centralizzazione dei capitali e la distribuzione delle risorse di base in diversi sistemi economici nazionali conducono a un crollo dei profitti che rischia di tradursi in una perdita di potere politico per uno dei sistemi economici nazionali più rilevanti, allora le tensioni economiche possono sfociare in veri e propri scontri fra Stati, cioè in una guerra capitalista”.

La banca centrale regola il tasso di interesse, ovvero il costo del credito, e diventa così il regolatore decisivo dei rapporti tra creditori e debitori. Essa diventa dunque l’arbitro supremo dei processi di concentrazione. Secondo gli autori: “Regolando la solvibilità del sistema economico, il banchiere centrale diventa il “regolatore” di un conflitto interno alla classe capitalista, tra capitali in grado di generare profitti sopra la media, e quindi generalmente solvibili, e capitali caratterizzati da profitti sotto la media e dunque potenzialmente insolventi”. L’analisi del ruolo della banca centrale come regolatore dei rapporti di insolvenza e dei processi di concentrazione del capitale finanziario è forse una delle parti più originali e interessanti del libro, anche perché toglie alle banche centrali l’aurea convenzionale di falsa “neutralità” e di “indipendenza” grazie alla quale viene “santificata” e mistificata la loro attività di politica monetaria, che invece è intrinsecamente distributiva e quindi essenzialmente politica.

Nel quadro della crisi, i banchieri centrali come regolatori dei rapporti di insolvenza sono diventati dei veri e propri “market makers”. In altre parole, la finanza, almeno temporaneamente, è sotto il controllo della politica monetaria. Tuttavia, avvertono Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, il ritmo della centralizzazione può non essere politicamente sostenibile: allora può accadere che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento e imponga una modifica dell’indirizzo generale di politica economica e persino nelle relazioni economiche internazionali. In effetti, una tale svolta si è almeno parzialmente concretizzata, per esempio, con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Inoltre, in tempi recentissimi, la svolta contro la centralizzazione dei capitali (cinesi) ha determinato un cambio repentino nelle relazioni internazionali con l’avvio di quella nuova forma di protezionismo commerciale e finanziario che va sotto il nome di friend-shoring e che può sfociare in un nuovo conflitto imperialista tra USA e Cina.

L’aggregazione finanziaria di masse di capitali, per esempio nei fondi pensione, non porta assolutamente – spiegano gli autori– alla “democrazia azionaria”, come hanno spesso proclamato gli apologeti del “capitalismo democratico”. Al contrario, Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, dimostrano empiricamente la veridicità della tendenza al controllo centralizzato del capitale finanziario. Grazie all’uso di sofisticati strumenti di network analysis (2018) e sulla base del database di Eikon di Thomson Reuters, una delle banche dati più complete in circolazione, hanno estratto un campione di 5.515 società quotate nelle borse con capitale pari o superiore a un miliardo di dollari, distribuite in 71 paesi e analizzate in un arco temporale che va dal 2001 al 2016.  Il risultato è che l’80% del “net control” totale è sempre detenuto da una frazione molto piccola di azionisti, non molto lontana dall’uno per cento degli azionisti totali. La frazione di azionisti che detiene l’80% delle quote di controllo del capitale mondiale passa dall’1,25% nel 2001 a circa l’1% nel 2016, con un aumento della centralizzazione di circa il 25%.

Il controllo del capitale risulta dunque sempre altamente centralizzato ed è distribuito in modo molto più diseguale rispetto al reddito o alla ricchezza. La network analysis ha portato a individuare i primi tre detentori del controllo nel 2016: Vanguard Group., BlackRock Institutional Trust Company; Fidelity Management & Research Company. Al cuore di quel nucleo si trova sempre BlackRock, il maggiore fondo mondiale di gestione patrimoniale – con circa 10 trilioni (migliaia di miliardi) di fondi gestiti – che è anche uno dei maggiori azionisti delle grandi corporations americane e europee. Il capitale azionario mondiale risulta così controllato da un piccolo manipolo di grandi azionisti che tende a restringersi ulteriormente a ridosso della crisi. Pertanto, la centralizzazione del capitale, preconizzata da Marx, trova una forte e importante conferma empirica. I proprietari che escono vincitori dal meccanismo della centralizzazione somigliano sempre più a un club esclusivo e sclerotizzato in cui è difficilissimo entrare, ma da cui sembra piuttosto complicato anche uscire. Una consolidata oligarchia capitalista.

L’indagine econometrica dimostra che la centralizzazione del capitale finanziario cresce quando aumenta il tasso di interesse e provoca numerose conseguenze: peggiora il ciclo economico e si accompagna alla recessione, alle insolvenze e alle diseguaglianze. Inoltre la tendenza alla centralizzazione è trasversale ed è forte in tutti tre principali macro-modelli di capitalismo: il sistema anglosassone, il sistema renano-nipponico e il sistema latino. Le varie economie capitalistiche del mondo sembrano convergere verso la centralizzazione capitalistica. Tuttavia sono soprattutto i due giganti dell’economia mondiale, gli USA e la Cina, a trainare questo trend.

L’avanzare della centralizzazione ha ripercussioni sulla “resilienza del capitalismo liberale”, sulle sue istituzioni democratiche e persino sulla pace tra le nazioni. Il processo di centralizzazione dei capitali si accompagna a uno sbilanciamento nei rapporti di credito e debito tra i diversi capitalismi nazionali legata a una dinamica asimmetrica delle bilance dei pagamenti e delle posizioni nette sull’estero nelle diverse aree del mondo. In un mondo incapace di costruire un sistema monetario internazionale fondato sulla cooperazione – come auspicava Keynes nel 1944 proponendo la moneta internazionale Bancor, che non è stata mai accettata dagli Stati Uniti – le singole banche centrali non possono che incontrare limiti insormontabili nella loro azione. Per Brancaccio, Giammetti e Lucarelli siamo entrati in una nuova fase storica caratterizzata dalla “centralizzazione imperialista del capitale”. Il pericolo è la guerra e la barbarie. Gli autori del saggio non offrono una facile ricetta per risolvere i problemi della centralizzazione: propongono tuttavia “di ricostruire un autonomo punto di vista del lavoro nella contesa tra nazioni e tra classi: un pacifismo conflittualista, all’altezza dei durissimi tempi a venire”.

Anche se in questo saggio mancano sostanzialmente proposte di uscita dalla crisi, le tesi esposte appaiono calzanti, originali e condivisibili. Occorre però sottolineare un aspetto critico: evidenziare la centralizzazione dei capitali come l’unica, o comunque la più forte e centrale tendenza del capitalismo, e spiegare con essa le crisi capitalistiche e tutte le altre principali tendenze economiche, politiche e internazionali che si verificano e si sono verificate negli ultimi anni appare un po’ forzato e potrebbe portare perfino a conclusioni semplicistiche. In tre secoli di storia della scienza economica sono state discusse diverse macro tendenze intrinseche al capitalismo e alle crisi capitalistiche: la caduta del saggio di profitto, le teorie sul sottoconsumo e sulla crescente divaricazione dei redditi, quelle relative alla finanziarizzazione parassitaria e al “casinò capitalism”, quella della crescita esponenziale del debito, e poi la tendenza all’oligopolio e al monopolio, la tendenza a privatizzare e sfruttare i beni comuni che porta alla catastrofe ecologica,  e così via. Certamente la centralizzazione del capitale finanziario ha a che fare ed è correlata con tutte queste macro-tendenze e con tutti i macro-fenomeni analizzati nel saggio: le crisi finanziarie, la crisi delle democrazie, le guerre e quant’altro (della gravissima crisi ecologica, peraltro, nel libro non si fa cenno). Tuttavia la correlazione non implica necessariamente causalità: non è detto per esempio che la tendenza alla crescita esponenziale dei debiti in confronto alla crescita lineare del PIL sia meno rilevante della centralizzazione dei capitali per spiegare la crisi attuale del capitalismo. In effetti – almeno per chi scrive – non sembra realistico supporre che tutte le dinamiche del capitalismo trovino spiegazione e sintesi in una sola e unica macro-tendenza come quella della centralizzazione. Forse non esiste una sola tendenza dominante che spiega tutto il capitalismo, tutte le sue dinamiche e le sue crisi cicliche. E comunque, come spiega ottimamente il saggio di Brancaccio e dei suoi colleghi, certamente la centralizzazione dei capitali è un fattore decisivo di squilibrio delle economie nazionali e del sistema economico e politico internazionale. Ed è un fattore fondamentale di stravolgimento delle nostre democrazie.

 

[1]   John Maynard Keynes “Le conseguenze economiche della pace”  Adelphi 2007



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