La guerra com’è

“È disponibile ad andare a Quetta, in Pakistan, nell’ospedale del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra?". “Sì,” risposi senza esitazione. Non potevo sapere allora che quel sì avrebbe cambiato radicalmente la mia vita.

Gino Strada

Estratto del libro Una persona alla volta di Gino Strada, a cura di Simonetta Gola, edito da Feltrinelli. L’acquisto del libro sostiene EMERGENCY.

Alla fine degli anni Ottanta decisi di fare un’esperienza nell’ospedale di un Paese povero, in quello che allora si chiamava “Terzo mondo”. Curiosità, voglia di un contesto diverso. Presentai il mio curriculum alla Cooperazione italiana: “Grazie, dottore, però ci sono circa centoventi persone che stanno aspettando di partire,” mi disse l’impiegato, indicando una pila di curriculum. “Adesso sono centoventuno,” risposi, pensando che non sarei mai partito.
La telefonata, a sorpresa, arrivò due settimane dopo: “È disponibile ad andare a Quetta, in Pakistan, nell’ospedale del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra? Una missione di sei mesi, ma bisognerebbe partire tra una settimana”.
In Pakistan? Che cosa stava succedendo in Pakistan? Per me era solo il Paese dell’Himalaya. “Sì,” risposi senza esitazione. Non potevo sapere allora che quel sì avrebbe cambiato radicalmente la mia vita.
Quetta è la capitale del Belucistan, una regione del Nord-ovest pachistano, vicino alla frontiera con l’Afghanistan. Affollatissima, rumore e polvere, bazaar, cammelli, carretti, Quetta era caos, traffico e umanità. E centinaia di migliaia di rifugiati afgani, fuggiti dalla guerra.
Non avevo mai visto nulla di simile, neanche nei film. Era un altro mondo, brulicante di vita nonostante tutte le difficoltà di una città di frontiera con un Paese in guerra. Non mi sentivo a mio agio, ma neanche a disagio: ero un estraneo prestato a un pezzo di mondo diverso e sapevo che sarei potuto tornare indietro in qualsiasi momento. Il contratto era inizialmente di sei mesi, ma non tutti resistevano a quello che ora chiamiamo “shock culturale” e in caso di difficoltà il rimpatrio era sempre un’opzione. Sapere di poter scegliere di tornare indietro era ciò che mi faceva sentire diverso da tutta quella gente che si affannava intorno a me, apparentemente senza meta.
Dieci chilometri fuori dalla città c’era l’ospedale, dove sarei andato a lavorare. “Surgical Centre for War Wounded”, centro chirurgico per feriti di guerra, recitava il cartello all’ingresso. Il Pakistan era in pace, almeno formalmente. Ma l’Afghanistan no. Anche dopo il ritiro delle forze di occupazione sovietiche la guerra era continuata: con i soldi e le armi di alcuni Paesi stranieri, Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita in testa, i “ribelli” mujaheddin combattevano le forze governative del presidente Najibullah, filosovietico.
I feriti venivano dalla regione di Kandahar, un viaggio massacrante, pericoloso, spesso ci mettevano due giorni per raggiungere Quetta. Arrivavano con ogni mezzo: carretti trasformati in ambulanze tirate da asini o cammelli, camion sgangherati, taxi gialli. Proprio da uno di quei taxi scese una sera un vecchio afgano, davanti al pronto soccorso dell’ospedale. Portava un patù marrone liso e sorreggeva un bambino pallido, il braccio destro avvolto in uno straccio intriso di sangue. Non ricordo il suo nome, avrà avuto sei, sette anni.
Mezz’ora dopo, in sala operatoria, mi apparve per la prima volta l’orrore: la mano era esplosa e al suo posto c’era una palla disgustosa e bruciacchiata fatta di muscoli e pelle, ossa e vestiti, sangue coagulato e frammenti di plastica. C’è chi la chiama “lesione a cavolfiore”, il che ne descrive bene la forma ma non il contenuto: quel cavolfiore nerastro era la mano destra di un bambino di sette anni. Dovetti amputare l’arto poco sopra il polso.
Quel bambino dalla mano esplosa e lo sguardo rassegnato di suo padre mi rimasero in testa a lungo. Neanche riuscivo a immaginare che potesse succedere a Cecilia o al figlio di qualche amico, ma soprattutto non riuscivo a capire quella quieta sopportazione davanti a un macello simile.
Alcuni giorni dopo, a godersi il sole freddo all’aperto, c’era un gruppo di bambini, il più grande avrà avuto dodici anni. Indossavano tutti il pigiama azzurro dell’ospedale, accuditi dalle mamme coperte dal burqa che tenevano in braccio i più piccoli. Molti di loro avevano uno o due arti amputati fasciati dalle bende.
Scattai una fotografia con la mia Leica. Lo avrei fatto sempre meno negli anni a seguire, fino a smettere del tutto, per non invadere troppo le sofferenze altrui o forse per salvaguardare la mia serenità. Quella foto però l’ho conservata: trent’anni dopo, ancora chiede risposte. Una corsia pediatrica in un ospedale per feriti di guerra? Che cosa c’entrano i bambini con la guerra?
Nessun soldato, specie in una zona di guerra, raccoglierebbe da terra un oggetto di plastica verde che pare un giocattolo. Saprebbe riconoscere la mina antiuomo, saprebbe indicarne la marca, il modello e la potenza. Un bambino, invece, può essere attratto da una specie di farfallone di dieci centimetri, e lo prende in mano, lo guarda, cerca di capire a cosa serva, lo maneggia… La farfalla non scoppia. O almeno, non subito: c’è tempo per giocarci, magari per passarla a un amico lì vicino. Spesso arrivavano in ospedale tre, quattro amici insieme, vittime tutti della stessa esplosione vigliacca.
In tanti anni di chirurgia non ho visto un solo adulto mutilato da una di quelle mine, tecnicamente pfm-1 di fabbricazione sovietica. Ho operato solo bambini e qualche ragazzino: chi ha perso una mano e chi tutte e due e chi ha perso un occhio o entrambi. Armi per colpire bambini. Pensate, progettate, costruite per loro. Usate per loro, intenzionalmente. Tutto ciò è disumano, mostruoso, mi dicevo, e ho cercato di non crederci.
Delle mine giocattolo mi aveva parlato poco dopo il mio arrivo Mubarak, un rifugiato afgano che era infermiere in ospedale, mentre bevevamo il tè fuori dal blocco operatorio alla fine di un intervento. Un corpo centrale dove sta il detonatore, e due ali verdi o color sabbia, per veleggiare meglio una volta lanciate dagli elicotteri e così sparpagliarsi su un territorio più ampio. “Mine sovietiche, piccole, non uccidono, servono solo a mutilare”.
L’Unione Sovietica che produce e usa armi fatte apposta per mutilare i bambini? Non è possibile, avevo pensato, sarà la solita propaganda filoamericana. Poi me ne portarono una in ospedale. Era stata raccolta con cura e aperta per togliere l’esplosivo, sembrava proprio un giocattolo, o comunque qualcosa con cui giocare. Così quel bambino divenne per me il vero volto della guerra, il volto di una delle sue tante vittime. Volute, cercate e selezionate.
Dunque era vero, nessuna propaganda. Nella coscienza di chi decide una guerra, e anche di chi la pratica, c’è spazio anche per la mutilazione dei bambini “nemici”. Ma non c’erano solo i pappagalli verdi per bambini curiosi, molte altre mine al di là del confine facevano carneficina di esseri umani: mine fabbricate in Cina, in Russia, negli Stati Uniti, in Italia. Noi a Quetta curavamo i disastri di tutte.

Foto ANSA/ETTORE FERRARI



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