La libertà di riunione in Italia è a rischio

Dalle previsioni contenute nel cosiddetto "decreto anti-rave", e dalla repressione dei comportamenti così disciplinati, può derivare una tensione con libertà fondamentali riconosciute e garantite dalla Costituzione. Tra queste, quella di riunione.

Francesca Paruzzo

“L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Per organizzatori e promotori è prevista la pena della reclusione da tre a sei anni e della multa da 1.000 a 10.000 euro, nonché l’applicazione di misure di prevenzione; per i partecipanti – e, quindi, per il solo fatto di partecipare a tale raduno – la pena è diminuita.”
Questo il contenuto del reato introdotto all’art. 434 bis del codice penale, in seguito all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il 31 ottobre 2022, del decreto legge n. 162.
Appare evidente che tale norma, adottata nei giorni immediatamente successivi al rave party organizzato nei pressi di Modena, con il dichiarato fine di prevenire e contrastare i raduni illegali, sia destinata in realtà ad assumere, nella sua portata applicativa, un significato estremamente più ampio.

La tutela della proprietà privata e pubblica, la sicurezza degli altri consociati o l’esigenza di sanzionare condotte illecite che eventualmente in tali occasioni si possono verificare sono già infatti oggetto di specifica disciplina da parte nel nostro ordinamento: ha, come noto, rilevanza penale lo spaccio di sostanze stupefacenti, l’ “invasione arbitraria di terreni o edifici altrui al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto” (art. 633 del codice penale) o la “radunata sediziosa di dieci o più persone” (art. 655 del codice penale).
Difficile quindi comprendere l’esigenza di introdurre una nuova fattispecie di reato, peraltro attraverso la previsione di pene così elevate da legittimare sia l’arresto in flagranza, sia la sottoposizione, di promotori e organizzatori, a intercettazioni ambientali e telefoniche.
Tantomeno, si comprende la “straordinaria” necessità e urgenza di disciplinarla in un decreto legge che somma al suo interno una pluralità di misure (dal divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non collaborano con la giustizia, alla posticipazione dell’entrata in vigore della c.d. Riforma Cartabia, fino a questioni inerenti gli obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2) e che, divenuto efficace il giorno successivo alla sua pubblicazione, è suscettibile di modifiche in sede di conversione da parte del Parlamento – circostanza addirittura auspicata da alcuni esponenti dello stesso Governo – con tutte le conseguenze che deriverebbero se, nel frattempo, il reato in esso previsto trovasse applicazione.

Ciò che però solleva i principali timori è il rischio che dalle previsioni contenute in tale norma – e dalla repressione dei comportamenti così disciplinati – possa derivare una tensione con libertà fondamentali riconosciute e garantite dalla Costituzione e, tra queste, quella di riunione.
La libertà di riunione, insieme a quella di associazione, rientra tra quelle libertà che presumono, per il loro esercizio, il concorso di una pluralità di soggetti, accomunati da un unico fine. Essa, sancendo il diritto di ognuno a stare insieme con altri, assume una importante dimensione politica, là dove riconosce la possibilità di manifestare, comunicare collettivamente pensieri e, soprattutto, dissentire nei confronti di chi detiene il potere.

È, in questo senso, una libertà coessenziale alla forma democratica dello Stato.

La Costituzione, nel riconoscerla e garantirla, esclude, proprio in considerazione di tale correlazione, che la libertà di riunione possa essere assoggettata ad autorizzazione da parte della pubblica autorità, e, da un lato, prescrive, attraverso la locuzione “pacificamente e senz’armi” le modalità attraverso cui deve svolgersi; dall’altro, individua, qualora la riunione si svolga in luogo pubblico, un unico limite – che come tale ne legittima il divieto – nella sussistenza di “comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”. Si afferma così come non vi sia spazio, nel nostro ordinamento costituzionale, per l’introduzione di vincoli ulteriori all’esercizio di tale libertà, sia che essi siano volti ad allargare la portata di quelli tradizionali (sicurezza e incolumità pubblica), sia che si connotino per una genericità e una vaghezza tale da essere facilmente strumentalizzabili. È in ragione di ciò che non trova spazio, nel testo costituzionale (e a differenza delle previsioni contenute nel decreto legge) il riferimento all’ordine pubblico.

Si tratta di un’esclusione, questa, frutto di una scelta consapevole da parte dei costituenti: il 19 settembre 1946, nel corso della seduta della Prima sottocommissione della commissione per la Costituzione, Palmiro Togliatti osserva infatti che ammettere che le libertà fondamentali possano essere limitate, attraverso la legge, “per necessità di ordine pubblico”, avrebbe rischiato di tradursi in un vincolo di “tale ampiezza nel quale tutto può rientrare” e avrebbe consentito, così, al legislatore di contraddire la stessa Costituzione.  L’ordine pubblico è, in questo senso, un concetto troppo vago, dai confini non facilmente definiti e definibili, connesso alle circostanze di tempo e luogo in cui è invocato e che si delinea necessariamente nel rapporto variabile tra libertà e autorità.
È alla luce di ciò che trovano quindi giustificazione le preoccupazioni di chi vede, nel nuovo reato introdotto dal Governo, il rischio di una tensione con la libertà di riunione: si tratta di una norma articolata in modo del tutto indeterminato, che sostituisce ai “comprovati motivi” richiesti dall’art. 17 la previsione di un mero pericolo (può derivare un pericolo è concetto evidentemente più generico), che differenzia, ambiguamente, incolumità pubblica e ordine pubblico senza definirli, che non distingue tra terreni ed edifici e tra luoghi privati, aperti al pubblico e pubblici. In questo modo, consente di connotare il raduno (cioè: la riunione latamente intesa) di un disvalore in sé e, nell’indeterminatezza della sua formulazione, di rimettere a un giudizio prognostico di tipo soggettivo la possibilità di qualificare un comportamento come ascrivibile all’esercizio di un diritto o come, al contrario, penalmente rilevante. Non può non considerarsi, peraltro, che tale giudizio prognostico è demandato, in prima battuta, all’autorità di pubblica sicurezza: sarà quest’ultima infatti a intervenire, scegliendo, in base alle circostanze contingenti, di far cessare “il raduno”, di identificare ed eventualmente denunciare – se non arrestare – i partecipanti (nell’impossibilità oggettiva di distinguerli, sul momento, dai promotori e organizzatori). Il controllo della magistratura, sottoposto alle garanzie e vincoli che l’ordinamento riconosce all’esercizio di tale potere, sarà solo successivo al momento in cui, eventualmente, la libertà di riunione abbia già subito una limitazione.

A nulla valgono in questo senso le dichiarazioni del Ministro dell’Interno, secondo cui tale disposizione non sarà utilizzata per intervenire in “altri contesti” diversi dai rave party o quelle della Ministra dell’Università e della Ricerca, per cui essa “non si applicherà a manifestazioni di dissenso nelle università o nelle scuole”: le norme vivono – e si applicano – al di là della volontà di chi le scrive e una norma di tal genere legittima, quantomeno potenzialmente, un uso dello strumento penale che può dar vita a misure illiberali tanto inefficaci alla prevenzione delle forme di criminalità che asseritamente si vogliono perseguire, quanto promotrici di un sistema lesivo dei diritti fondamentali.

CREDITI FOTO: Okan Çalışkan – Licenza Public Domain

 



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