La Libia non è un porto sicuro. Parola di Corte di Cassazione

La Libia non è un porto sicuro e facilitare la riconsegna dei migranti alle autorità di Tripoli è un crimine. Lo ha stabilito una sentenza della Corte di Cassazione depositata il 1° febbraio scorso. Ne abbiamo parlato con Valentina Brinis di Open Arms.

Mosè Vernetti

La Libia non è un porto sicuro e facilitare la riconsegna dei migranti alle autorità di Tripoli è un crimine. Lo afferma una sentenza della Corte di Cassazione del 12 ottobre 2023, depositata il 1° febbraio scorso, confermando la condanna per il comandante del rimorchiatore italiano “Asso 28”, al servizio della società Mellitah Oil & Gas, che il 30 luglio del 2018 soccorreva 101 naufraghi per consegnarli in un secondo momento a una motovedetta della cosiddetta Guardia costiera libica. Secondo la sentenza della Cassazione fu un caso di “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”, in un porto non in grado di garantire sicurezza e protezione alle persone respinte. Furono in particolar modo le comunicazioni radio registrate dalla nave dell’organizzazione umanitaria di soccorso in mare Open Arms a rivelare i contorni di questa vicenda. Una sentenza che, a un anno dalla strage di Steccato di Cutro, fa tirare un sospiro di sollievo alle organizzazioni umanitarie e alle associazioni che da decenni si battono per colmare i vuoti istituzionali dell’accoglienza e del soccorso. La speranza, molto probabilmente vana, è che ne traggano le dovute conseguenze quei politici che da ormai sei anni rinnovano quel Memorandum Italia-Libia, sottoscritto dal governo Gentiloni, punta dell’iceberg di oltre vent’anni di politiche migratorie volte a ostacolare quanto più possibile l’accoglienza in Italia delle persone migranti.
Dalla firma dell’accordo con la Libia al 2021 l’Italia ha speso 785 milioni di euro per bloccare i flussi migratori e finanziare le missioni navali e europee, respingendo 50 mila persone. Di questi, più di 210 milioni sono stati spesi direttamente in Libia, contribuendo a destabilizzare il Paese, facendo arrivare a cascata risorse ai trafficanti di persone. Negli anni a seguire né i finanziamenti né i respingimenti sono diminuiti, essendo il Mediterraneo parte della rotta migratoria più in crescita nel mondo: già nel 2022 il numero di respingimenti dalla firma dell’accordo con la Libia era salito a 85mila. Il tutto in continuità con l’approccio europeo di esternalizzazione delle frontiere: l’UE infatti, dal 2017 al 2022, ha stanziato 57,2 milioni di euro per la gestione integrata delle frontiere e delle migrazioni in Libia.
Di tutto questo e degli scenari che abbiamo di fronte abbiamo parlato con Valentina Brinis, sociologa, advocacy officer di Open Arms.

La Libia non è un porto sicuro, lo ha detto una sentenza della Corte di Cassazione.
In Libia le persone migranti vengono automaticamente punite per legge in quanto irregolari. Le loro condizioni di vita non migliorano né all’interno né all’esterno dei centri. Il fatto che il Paese abbia due governi fa sì che non possa essere considerato un interlocutore valido con cui sviluppare politiche che mirino alla tutela dei diritti umani delle persone in transito. Ma non solo per loro, anche per chi fa soccorso. Se una nave di soccorso si trovasse a dover fare un cambio di equipaggio in quel Paese, andrebbe incontro a svariate difficoltà. Un report dell’UNHCR già nel 2019  parlava di centri di detenzione come luoghi assolutamente non in grado di garantire i diritti dei richiedenti asilo, quindi neanche la loro sicurezza e incolumità.
Quali sono le implicazioni della recente sentenza della Cassazione?
La sentenza conferma le decisioni della Corte d’appello di Napoli, secondo la quale “a fronte di una condotta errata nella gestione del salvataggio” – perché nel caso della Asso28 era stato omesso il coinvolgimento dei centri di coordinamento libico e italiano – “il ruolo del comandante sarebbe stato quello di escludere da ogni pericolo le persone che aveva tratto in salvo”. Quindi di fatto la Corte d’appello di Napoli aveva già affermato che il comandante non avrebbe dovuto consegnare i naufraghi a delle autorità che li avrebbero messi in condizione svantaggiate.
Cosa cambierà politicamente?
A livello strettamente politico non lo sappiamo. In Parlamento siedono dei politici che ogni anno, di fronte alla proposta del decreto Missioni, che include al suo interno una parte riferita al finanziamento della cosiddetta Guarda costiera libica, votano a favore. Quindi ogni anno, ormai dal 2017, foraggiamo un fondo che accresce la capacità di questa presunta autorità di muoversi all’interno dell’area SAR (Search and Rescue) libica. Un’area che tra l’altro è inappropriato chiamare così, dal momento che non c’è un Paese che si può considerare sicuro per gli sbarchi. Anche se ci sono i mezzi che riescono a fare soccorso e a salvare i naufraghi. Vedremo come i parlamentari si comporteranno rispetto a questo. In secondo luogo sarà interessante capire come il governo italiano, in particolare il ministro dell’Interno e il ministro dei Trasporti, si comporteranno rispetto alle missioni delle navi umanitarie. Negli ultimi mesi ci sono stati numerosi fermi delle imbarcazioni, tra cui anche quello di una nave di Open Arms, che è ripartita da poco dal porto di Crotone, dove è stata bloccata per 20 giorni e multata per 3.000 euro, con l’accusa di aver ostacolato gli interventi della Guardia costiera libica.
Cosa succederà sotto il profilo della criminalizzazione del vostro operato?
Su questa sentenza della Cassazione siamo stati proprio noi di Open Arms a smuovere le acque. Il caso della Asso28 lo abbiamo infatti denunciato noi, a ribadire il nostro ruolo nel Mediterraneo: oltre a soccorrere i naufraghi in mare, siamo scomodi testimoni di quello che accade. Il modo in cui questa sentenza verrà applicata sarà decisivo anche per altri ricorsi che abbiamo presentato a seguito di numerose denunce, come quello della missione 108, in cui ci accusano nuovamente di aver interferito con la Guardia costiera libica. Non abbiamo nemmeno compreso la logica delle accuse: come mai un Paese come l’Italia si interessa di punirci per un’attività che è stata svolta in un’area SAR non italiana? Questa sentenza mette a disposizione a noi e ad altri gli strumenti per affrontare tutte queste situazioni pendenti. Arrivare a un tribunale nazionale che discute questa cosa è importantissimo.
A livello politico potrebbe avere un impatto positivo sul lavoro delle ong?
Mi auguro che quanto stabilito dalla magistratura venga rispettato e adottato come linea per nuove misure e nuove politiche. Vedremo. Le ong non sono un fronte compatto contro il governo, ma organizzazioni umanitarie che svolgono il loro lavoro in mare, in un tratto di mare che è stato definito un cimitero. Ogni anno migliaia di persone vengono respinte in porti non sicuri, centinaia di persone perdono la vita e l’unica cosa cui si pensa è alimentare il memorandum Italia-Libia. Secondo Open Arms non si può più parlare di ong, ma di organizzazioni umanitarie. Non siamo un partito di opposizione al governo, anzi, attraverso il nostro lavoro vorremmo riportare a tutti quanto accade nel Mediterraneo. Anziché spendere cospicue somme di denaro per l’accordo con un Paese che si dimostra poco sicuro, si potrebbero spendere per sostenere il soccorso, comprendere le ragioni delle migrazioni e cercare di evitare queste rotte pericolosissime.
In teoria in parlamento c’è un’opposizione, che è però più o meno la stessa che ha sottoscritto il memorandum Italia-Libia…
Chi sta all’opposizione dovrebbe smetterla con i proclami. L’immigrazione è un fenomeno complesso che va affrontato in maniera scientifica. Servono politiche ragionate. Bisogna poi valorizzare il lavoro degli operatori umanitari, che fanno soccorso sia in mare sia a terra. Valorizzarlo e proteggerlo, perché attraverso il nostro lavoro proteggiamo valori fondamentali di umanità. Sia per la dignità delle persone sia per la dignità dell’Unione Europea. Una politica attenta a questo fenomeno sociale è una politica attenta per tutti. I proclami hanno come unico scopo quello di accontentare il proprio elettorato. Se l’opposizione si vuole dimostrare efficace deve imboccare un’altra strada. Serve una tutela politica effettiva. Il messaggio politico indiretto che lanciamo attraverso la scelta di mettere il nostro corpo nei luoghi del bisogno dovrebbe essere colto e rappresentato dalla politica, perché difendiamo i valori su cui si basa la nostra Carta Costituzionale.
Questa sentenza avrà ricadute su altri accordi bilaterali che esternalizzano i confini?
Non so se questa sentenza avrà particolare impatto. Le implicazioni critiche dell’esternalizzazione dei confini sono chiare da anni… Ogni accordo bilaterale ha le sue specificità. Allo stato attuale gli accordi per le esternalizzazioni delle frontiere sono stati fatti con Paesi che spesso non tutelano i diritti umani. Questo ragionamento però prescinde dalla sentenza, che è limitata al soccorso in mare. Sicuramente farà riflettere sulla natura di questo tipo di accordi.
E rispetto ai rapporti ambigui tra Frontex e le autorità libiche, cambierà qualcosa?
Non mi sono mai occupata di questo aspetto nello specifico. Sicuramente bisogna tenere presente che i finanziamenti a Frontex aumentano ogni anno, mentre non si elabora un ragionamento sul soccorso in mare a livello europeo. Non si può prescindere dal discorso della difesa dei confini, ma il fatto è che non si trova mai un equilibrio tra la tutela della sicurezza di un’unione di Stati e la tutela dei diritti umani delle persone; di chi le frontiere cerca di oltrepassarle. Investire sempre di più in un’agenzia che ha dimostrato numerose falle nel suo operato, come Frontex, manda un messaggio umano e politico errato, che dice che la priorità dell’UE è la protezione dei confini. Questo è molto triste. Quella priorità deve essere in equilibrio con il rispetto della dignità di ogni persona in movimento.
Questa sentenza conferma l’importanza del lavoro di organizzazioni come Open Arms nell’impedire che le persone vengano respinte in Paesi pericolosi per la loro sicurezza. Per ottenere risultati come questi è importante disobbedire a leggi disumane o ingiuste?
Se ci sono delle normative che violano dei principi umani, è opportuno seguire quei principi al posto delle normative. Parlando di noi, non so se possiamo definire il nostro operato come disobbedienza. Ci sono normative internazionali che dicono cose ben precise rispetto al dovere di salvare le persone in mare. Queste normative nascono da consuetudini marinare. Qualsiasi marinaio in tutto il mondo lo sa. Se qualcuno è in difficoltà devi fermarti. Se poi ci sono delle normative nazionali che limitano questo tipo di attività, può anche darsi che debbano essere messe in discussione. Noi ora le stiamo mettendo in discussione a livello giuridico. Stiamo passando esclusivamente dai tribunali. Quelli sono gli unici spazi in cui se ne discute. Purtroppo se ne parla poco in parlamento. I nostri sono atti di disobbedienza? Può darsi.
Questo vale per il mare ma anche per qualsiasi altro contesto di pericolo.
Il soccorso non è riferito solo all’acqua, ma anche a terra. Se andiamo a minare l’istituto del soccorso in mare prima o poi passerà un messaggio pericoloso sul soccorso in generale. Avremo sempre più paura delle sanzioni individuali e personali previste. Tutelando il soccorso in mare si protegge la società. La cultura del soccorso si basa su un fondamentale concetto di reciprocità.
Attualmente Open Arms è in mare?
Sì. Attualmente la nostra nave è ferma a Cipro, in attesa delle autorizzazioni per avvicinarsi a Gaza dove porterà aiuti umanitari insieme a World Central Kitchen.
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / Antonio Sempere



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