La lingua della guerra

“Com’è la vita durante un’invasione su vasta scala? È la sensazione che la morte ti sia sempre accanto. La lingua della guerra sono parole per dirsi addio”.

Oleksandr Mykhed

Oleksandr Mykhed è un giovane scrittore ucraino (n. 1988) originario di Kyiv. Come artista si è distinto per la tendenza a mischiare forme espressive diverse (scrittura, musica, arti figurative) che lo hanno reso anche un importante organizzatore di mostre e di festival. Oltre alle opere narrative, è conosciuto anche come saggista e il suo libro di maggior successo è stato “Ja zmišaju tvoju krov iz vuhilljam” (Mescolerò il tuo sangue con il carbone, 2020): un lungo reportage dalle regioni orientali del paese sconvolte dalla guerra iniziata nel 2014 che è stato tradotto anche in tedesco e inglese.
Dal 2018 Oleksandr viveva con la moglie Olena e la cagnetta Lisa nella cittadina di Hostomel’, poco fuori della capitale, dove le forze russe hanno sferrato l’attacco con le forze speciali che avrebbero dovuto prendere il possesso di Kyiv e uccidere il presidente Volodymyr Zelens’kyj. La loro casa è stata distrutta da un missile e Oleksandr si è arruolato quasi subito volontario nelle forze armate ucraine. Questo testo è il discorso di apertura che egli ha pronunciato al Lviv Book Forum il 7 ottobre 2022, con il quale ha segnato il suo ritorno anche all’attività di scrittore e intellettuale.
(Simone A. Bellezza – Università degli Studi di Napoli Federico II).

Il 24 febbraio l’Ucraina è stata svegliata da esplosioni, telefonate e messaggi: “È iniziata”.
Da quattro anni mia moglie Olena ed io abitavamo nella città di Hostomel’; vicino a noi, in un nuovo appartamento a Buča, vivevano, da meno di un anno, i miei genitori.
Gli elicotteri e i caccia russi iniziarono volare su di noi sin dal mattino. Nell’aria c’era l’odore della polvere da sparo e del fumo dei bombardamenti sull’aeroporto di Hostomel’.
La sera del 24 febbraio, Olena ed io siamo riusciti a scappare da Hostomel’ verso la città natale di mia madre, Černivci.

Chi quella notte si spostava sulle strade quasi completamente paralizzate del proprio paese natale ricorda distintamente quanto sia stata sanguinosa quella notte. Mai prima di allora, e spero mai più, avevo visto una luna così: come se, assetata di sangue, si fosse piegata a terra a berne e il suo volto si fosse insanguinato.
Mi mancavano le parole. E non riuscivo a trovare il modo di convincere i miei genitori a lasciare Buča. Loro vi trascorreranno quasi tre settimane sotto l’occupazione russa.

Il quinto giorno dell’invasione, mi sdraiai a dormire in un palazzetto dello sport ghiacciato assieme a centinaia di altri uomini che, seguendo volontariamente la voce del proprio cuore, si erano uniti ai ranghi delle forze armate ucraine. Non avendo mai impugnato prima un’arma, non avendo mai fatto il servizio militare, avevo un solo desiderio: addestrarmi ed essere utile al mio paese. Perché sotto il bombardamento dei missili russi, tutte le mie precedenti abilità mi sembravano ridondanti e inutili.

Passato ancora qualche giorno, a una settimana dall’invasione, una granata degli invasori cadde sulla nostra casa, seppellendo definitivamente la nostra vita passata. Ma la cosa peggiore è che sotto i bombardamenti che hanno colpito il territorio del nostro complesso residenziale a Hostomel’, per tutto il periodo dell’occupazione, sono rimaste decine di eroici vicini, a combattere ogni giorno per la vita propria e di chi li circondava.

*

Com’è la vita durante un’invasione su vasta scala?

È la sensazione che la morte ti sia sempre accanto. Ogni giorno si leggono messaggi sui colleghi morti. Amici di amici. Conoscenti. Militari intervistati in televisione il giorno prima. Fotografi. Giornalisti. Civili. Inermi.

Come dice la cantante Saša Kolcova: “Da noi in Ucraina ogni caduto è amico di un amico, per questo ogni morte è come una ferita”.

Nelle foto degli assassinati di Buča, Olena ha riconosciuto il corpo con un’ascia di uno strano vecchio, che incontravamo quasi ogni giorno durante le nostre passeggiate mattutine nel parco.

La mappa dei briefing mattutini dello Stato maggiore delle forze armate ucraine è la mappa delle ansie e delle preoccupazioni per gli amici che prestano servizio nei ranghi delle Forze armate ucraine e, guardando le frecce degli spostamenti del fronte, vedo i volti di chi è là.

*

La guerra è cicatrice di tragedie che non possono essere dimenticate e martirologio di città e monumenti distrutti.

Cos’è dell’industria libraria durante un’invasione su vasta scala?

Scrittori, traduttori ed editori stanno morendo.

I missili degli invasori distruggono i magazzini delle case editrici.

Le biblioteche stanno bruciando. I russi bruciano i libri ucraini e purgano le biblioteche dalla letteratura ‘nemica’.

Le case editrici smettono di funzionare. Alcune delle case editrici di nicchia fondate dai veterani della guerra iniziata nel 2014 stanno chiudendo, perché l’intero staff sta tornando al fronte.

Le vendite precipitano nel baratro. Le librerie sono state riaperte solo di recente. La carta e i materiali di stampa sono diventati più costosi.

Centinaia di libri che avrebbero dovuto essere pubblicati quest’anno non vedranno la luce. Un’interna generazione di autori e autrici non produrrà letteratura.

Ci sono migliaia di migranti forzati che magari non si occuperanno mai di letteratura, di traduzione, o di arte, perché hanno bisogno di sopravvivere. O semplicemente perché devono riscoprire il valore del lavoro creativo in questa nebbia di guerra cremisi, intrisa di sangue.

Nel primo mese dell’invasione, ho chiesto di essere rimosso da tutti i progetti culturali in cui ero coinvolto. È impossibile utilizzare le capacità intellettive progettuali quando l’orizzonte di pianificazione è di 15 secondi: l’intervallo di tempo nel quale viene aggiornata la mappa dell’allerta aerea del mio paese.

Scadenze di progetto fra qualche mese? Siete seri? Sono una persona senza passato, con un presente dubbio e un futuro sicuramente felice, ma molto lontano.

E se prima ero convinto che un’opera d’arte dovesse avere determinati modelli senza tempo che le avrebbero permesso di superare la prova del tempo, ora c’è un requisito ancora più alto: superare la prova del genocidio.

Quanti libri non varrà la pena di ristampare, quanti film e mostre verranno svalutati e avranno un aspetto ingenuo o anacronistico. Quanti film sulla guerra non potremo vedere.

E quante opere classiche della letteratura ucraina ci diventeranno familiari e comprensibili.

*

Dal primo giorno dell’invasione nella mente mi si è fissata un’idea: la lingua della guerra. Cosa facciamo con la lingua? Cosa fa di noi la lingua?

La lingua della guerra è diretta, come un ordine: non può avere una doppia interpretazione né necessitare di un chiarimento. Parliamo in modo più chiaro, semplice, con frasi brevi, risparmiandoci tempo a vicenda e riempiendo al massimo la conversazione di informazioni. Senza piangere. Nessuna domanda retorica.

Nelle conversazioni fra civili è penetrata ormai da tempo l’usanza militare per dare conferma di aver ricevuto le istruzioni: un “+”, analogo dell’inglese “Roger that”.

Una settimana prima dell’inizio dell’invasione, cartelloni pubblicitari con le parole “4.5.0” – in gergo militare “tutto bene” – sono apparsi in tutto il paese.

È questa combinazione di numeri che deve essere riportata alle stazioni radio ogni mezz’ora e di notte ogni 20 minuti.

La lingua della guerra è un flusso di parole in cui parla il trauma. Il trauma non può rimanere in silenzio.

La lingua della guerra riguarda il ritorno ai mezzi di comunicazione più semplici.

I medici sul campo di battaglia, in assenza di un pennarello, consigliano semplicemente di scrivere l’ora in cui si è messo il laccio emostatico a un arto sulla fronte del ferito con un dito intriso del suo sangue.

I genitori scrivono con dei pennarelli sulle schiene dei figli i loro nomi, indirizzi e numeri di telefono.

In caso si perdessero. I genitori o i figli.

In caso fossero uccisi. I genitori o i figli.

Una guerra riguarda le croci tombali fatte da sé nel tentativo di registrare almeno qualcosa che si sapeva dei morti.

Come una lettera scritta a mano da Mariupol’: “Passate questa informazione: Dima, la mamma è deceduta il 9 marzo 2022. È morta in fretta. Poi la casa è andata a fuoco. Dima, perdonami per non averla salvata. Ho seppellito mamma vicino all’asilo”. Poco più sotto il disegno di una mappa per trovare la tomba. Più sotto: “Ti voglio bene”.

Spesso le croci recitano semplicemente “Sconosciuto”.

Se una persona è stata colpita a colpi di arma da fuoco quando era in auto e non si sa null’altro, al posto di una croce viene appesa solo la targa dell’auto.

A Mariupol’ i cartelloni pubblicitari sono sepolti dai volantini: parenti che cercano altri parenti. Persone che cercano altre persone.

“Tuo figlio è vivo!!! È da suo padrino!!!”.

“Mamma, sono a casa. La tua casa non è andata a fuoco! Sto aspettando. Se me vado, lascio le chiavi a zia Nina. Tua figlia”.

“Yura, torna a casa. La mamma è molto preoccupata. Papà”.

Alla fine di aprile, abbiamo tutti appreso di un villaggio liberato dagli invasori, Jahidne, vicino a Černihiv.

360 abitanti del villaggio hanno trascorso 25 giorni prigionieri nel seminterrato non riscaldato di una scuola senza elettricità.

La superficie del locale è di 76 mq.

La donna più anziana nel seminterrato aveva 93 anni.

Il bambino più piccolo tre mesi.

Gli uomini più forti, erano circa 30, dormivano in piedi. Ogni notte si legavano alle spalliere svedesi con delle sciarpe per occupare meno spazio e lasciarlo ai malati e agli infermi.

I russi non permettevano di seppellire i corpi dei morti. Per qualche tempo sono rimasti a giacere ancora tra i vivi.

Sulla porta d’ingresso del seminterrato, che gli invasori tenevano chiusa, i prigionieri avevano tracciato un calendario e ai due lati della porta avevano scritto con un carboncino due colonne di date e nomi.

La colonna di destra conteneva i dieci nomi dei morti a causa delle condizioni di vita nel seminterrato.

La colonna di sinistra i nomi di sette persone uccise dai russi.

L’ultima scritta del calendario sulle pareti del seminterrato è “Sono arrivati i nostri”.

*

La lingua della guerra sono parole per dirsi addio.

Mentre scrivo questo testo, mi arriva un messaggio da un mio amico che si è unito alle Forze armate.

Parte per una missione dalla quale non tutti torneranno vivi. Chiede di trasmettere parole d’amore alla moglie e ai figli e che, se dovesse succedergli qualcosa, non è stato un errore. È consapevole di dove stanno andando. Ma tutto questo non è vano. Ha tutto un senso.

Ama la musica. Comunica attraverso la musica. Invia un link alla canzone con cui andrà in battaglia.

Mentre scrivo queste righe, ascolto quella traccia a ripetizione: “Thunderstruck” degli AC/DC.

La ascolterò finché non avrò sue notizie.

“Vivo”. O almeno “+”, “++”.

*

Sta per passare l’ottavo mese di invasione. Solo poche settimane fa sono riuscito a ricominciare a leggere. Come se avessi di nuovo imparato a camminare.

Durante l’invasione russa su vasta scala, trovo difficile credere alla narrativa. Non credo alla possibilità di evadere in un mondo immaginario quando l’unica realtà della tua unica vita è in fiamme.

L’arte, ovviamente, può confortare.

Ma l’arte ora ha uno scopo quotidiano: il ruolo del cronista. Registrare senza pietà ogni passo criminale, ogni atto degli invasori russi.

La realtà della saggistica, un documentario in cui non può esserci né montaggio, né correzione del colore.

Dobbiamo sopravvivere per testimoniare e non lasciare che i crimini commessi dalla Russia vengano dimenticati.

Più ci uccidono, più testimonieremo il loro male.

*

La nostra posizione di rifiuto della produzione culturale russa, compresi i classici, che i russi stessi sono abituati a chiamare con l’epiteto di “grandi”, è considerata troppo radicale da altri paesi. Gli organizzatori del festival internazionali si sforzano di unire artisti ucraini e russi negli stessi incontri, nelle discussioni e nelle antologie. Gli organizzatori dei festival non capiscono che per noi la Russia è un paese di cannibali, terroristi e stupratori.

La Russia è un criminale di guerra che non è in grado di fare la guerra contro un esercito, ma solo contro la popolazione civile. I russi non hanno una strategia. Solo le munizioni e i missili lanciati per uccidere i civili e che sono proibiti dalle convenzioni internazionali.

Mentre scrivo queste righe, la Russia ha ancora una volta organizzato referendum farsa e annunciato la mobilitazione. Migliaia di russi, che avevano approvato le decine di migliaia di ucraini uccisi, le città distrutte e una guerra che così convenientemente chiamavano “operazione speciale”, stanno cercando di sfuggire alla mobilitazione. E il fatto che il mondo consideri i russi, che hanno sostenuto l’annessione della Crimea, considerato russe le cosiddette repubbliche di Donec’k e Luhans’k, e osservato silenziosamente per vent’anni la formazione del regime totalitario russo – che li si consideri “vittime di guerra”, “migranti forzati” e “vittime del regime” significa mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. È una svalutazione della tragedia del popolo ucraino causata dalle azioni della Russia totalitaria.

Mentre scrivo queste righe, i rifugiati ucraini in Finlandia chiedono aiuto: in un rifugio dove vivono molte donne e bambini di Mariupol’, Izjum e altre città, vogliono sistemare gli uomini russi fuggiti dalla mobilitazione. Le autorità non ci vedono nessun problema. E questa è la realtà di un doppio trauma che dovremo elaborare per decenni.

*

Sul fondo del nostro zainetto di emergenza, Olena ha messo una guida pratica su come ricostruire la civiltà dopo l’apocalisse. Come fare a portare l’acqua corrente in casa, come generare elettricità, come procurarsi il cibo.

Ogni giorno, sempre più persone parlano della possibilità che i russi utilizzino armi nucleari.

E mentre scrivo queste righe, sembra che siamo giunti alla fase dell’accettazione – “può succedere”, “va bene”, “okkey”. Con le nostre sole forze non possiamo evitare questa minaccia di un impero maniacale. Non ci resta che vivere.

Continuo a chiedere ai miei amici che sono interessati alla questione: com’è un attacco nucleare? Come si quantifica? Distrugge una città? Una provincia? Un quartiere di Kyiv come Obolon’ o Troeščyna? O un capoluogo regionale come Žytomyr o Ternopil’?

Sto leggendo delle conseguenze dell’attacco nucleare a Hiroshima e Nagasaki. E per quanto abbia imparato sul male umano, ogni volta rimango attonito per lo stupore. Non riesco a capacitarmi che dopo Auschwitz, dopo Nagasaki e Hiroshima, dopo Buča, Izjum e Mariupol’ ci sia la vita.

Nonostante tutto, la vita.

Non posso credere che la coscienza umana sia capace di contenere un tale male.

Nel frattempo, volontari miei amici stanno acquistano speciali compresse di iodio che devono essere assunte immediatamente dopo un attacco nucleare.

Perché se questa invasione mi ha insegnato qualcosa, per quanto pessimistiche siano le previsioni, la Russia farà sempre di peggio.

Quindi, se lo zainetto per le emergenze sopravvive, il saggio con le istruzioni per ripristinare la vita ce l’abbiamo.

Da qualche parte, dopo l’inverno nucleare, verrà una primavera nucleare.

Più ci uccidono, più testimonieremo i loro crimini. Perché c’è un male che non può essere mai dimenticato.

*

Com’è la quotidianità di un’invasione su vasta scala?

È come percorrere ogni giorno una via lastricata verso l’inferno. Significa perdere le persone più care. È piangere dei morti, che non hai mai conosciuto in vita, ma che senti come tuoi parenti. Perché siamo tutti come uno.

Essere nel mezzo di un’invasione su vasta scala significa aspettare ogni giorno i messaggi dei parenti.

Come quando l’altro giorno stavo aspettando un sms dei miei genitori da una Buča ancora occupata. E alla fine è arrivata una breve parola: “Vivi”.

Come ora sto aspettando i messaggi dai miei fratelli. Solo un breve simbolo, che significa la vita.

“+”.

“++”.



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