“La meraviglia del barbaro. L’intelletto negli scritti jenesi“ di Federica Pitillo

Il libro di Pitillo offre una visione d’insieme del nodo rappresentato dal ruolo del Verstand, dell'intelletto, negli scritti jenesi di Hegel.

Laura Paulizzi

Pur essendo il primo tratto che si staglia agli occhi del lettore, l’esergo di un libro solitamente viene svincolato dal processo di comprensione e di critica che coinvolge l’opera. Federica Pitillo, nel suo La meraviglia del barbaro. L’intelletto negli scritti jenesi (1801-1805) (Istituto Italiano per gli Studi Storici, Il Mulino, Bologna 2022) smentisce questa indifferenza scegliendo con cura un passo goethiano che contiene in nuce uno dei punti cardine dell’intero scritto.
L’argomento di Goethe sostiene che “Il distinguere è più difficile, più arduo che trovare il somigliante, e gli oggetti, se si sono distinti bene, si conciliano poi naturalmente”. Se a una prima lettura quanto affermato sembra stonare con la concezione hegeliana della filosofia che, in quanto dispiegamento della ragione (Vernunft), ha l’onere di conciliare e mostrare l’unione di ciò che l’intelletto (Verstand) tiene diviso, andando più a fondo e cogliendo l’importanza che il Verstand riveste all’interno di tale dispiegamento, l’assunto goethiano fa emergere come solo se prima si distinguono, si determinano i contorni delle cose, poi se ne può scorgere l’unità, la quale è, sì, nella natura delle cose, ma non può essere pensata senza ammettere il concetto di scissione. Questa prima riflessione ci introduce in un punto focale della logica hegeliana volto ad assegnare al Verstand un ruolo imprescindibile nell’agire umano e nella cultura: “Un uomo di carattere è un uomo che ha intelletto, un uomo che come tale ha di mira scopi determinati e li persegue con fermezza […]. Un uomo colto non si accontenta di cose vaghe e indeterminate, coglie gli oggetti nella loro salda determinatezza” (Enz. §80).
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Intorno al perché sia più difficile distinguere, dunque, riconoscere, l’entità speculativa del Verstand, si articola la complessa trama che intesse la ricerca di Pitillo nel suo libro. Entrando nel vivo della dialettica hegeliana tra Verstand e Vernunft l’autrice si domanda: “Qual è la funzione dell’intelletto per la teoria critica hegeliana della conoscenza?” (p. X). A tale scopo, il lavoro opera una ricostruzione della teoria dell’intelletto nel “laboratorio filosofico jenese” restituendo e accentuando la portata teoretico-speculativa di questo tema rispetto agli scritti di Jena, normalmente considerati secondo altre prospettive di ricerca, ma soprattutto riconoscendo il “ruolo del conoscere finito nella produzione dell’assoluto” (p. XIII). Riconoscimento che rappresenta una svolta all’interno di quel dibattito, inaugurato da Kierkegaard e sostenuto da Popper, che assegna alla dialettica hegeliana un’impronta totalitaria, dove l’individuo, la parte, l’altro, non vengono davvero compresi, ma neutralizzati per essere inglobati e annullati nel sistema.
Rilevando l’importanza del sapere intellettualistico nel processo hegeliano di conoscenza, Pitillo riabilita il singolo e il particolare, senza compromettere la necessità del passaggio dal Verstand alla Vernunft, sostenendo al contrario che “È necessario indugiare negli interstizi che separano il regno dell’intelletto da quello della ragione, perché è proprio su quel limitare, su quel confine, che avviene la dissoluzione della rigidità delle determinazioni intellettualistiche” (p. XIII). Questa fondamentale asserzione fa da scheletro all’intera esposizione e recupera la lezione hegeliana del connubio logico di essere e nulla, in cui la verità non è nell’uno o nell’altro elemento ma nel reciproco passare dell’uno nell’altro. Per sottolineare l’immanenza di tale passaggio e chiarire la natura del Verstand l’autrice fa luce su un secondo nodo teoretico che individua nell’intelletto stesso la capacità di produrre “il movimento di negazione del proprio punto di vista” (p. XIII). Ecco che iniziano a delinearsi i tratti dell’operare del Verstand e della conseguente difficoltà anticipata dall’esergo goethiano. Quello dell’intelletto è un movimento di auto-fuoriuscita, le cui forze motrici risiedono nella complessa Aufhebung che implica una relazione imprescindibile con ciò che è altro da ciò che viene negato. Negazione di sé e rapporto con l’altro divengono i termini del discorso di un Verstand che proprio opponendosi all’attività della Vernunft finisce per negare la sua assolutezza e riconoscersi parte dell’Assoluto. L’arduo compito che Pitillo si è proposta di assolvere è precisamente quello di mostrare il processo che consente tale fuoriuscita.

I tre capitoli che scandiscono il libro riportano i momenti sostanziali della ricerca hegeliana sul Verstand negli anni che Hegel trascorre a Jena tra il 1801 al 1805, a partire dal dialogo con le Reflexionsphilosophien, passando per l’analisi dei primi scritti critici e della Reinschrift (1804-1805), dove prende forma l’idea secondo la quale la necessità dell’Aufhebung diviene un’esigenza dello stesso intelletto. Con la conclusiva disamina della Logica jenese, l’autrice ci conduce nel “luogo nel quale le determinazioni smettono di essere ciò che sono per diventare altro” (XIX), convalidando, mediante il concetto di infinità, l’idea secondo la quale “l’irrequietezza” appartenga tanto al finito quanto all’assoluto.
Il primo capitolo prende avvio dal concetto di modernità che Hegel comprende filosoficamente come scissione (Entzweiung), la quale viene problematizzata grazie al ruolo assunto dal Verstand. Se, da una parte, esso contribuisce alla lacerazione caratteristica di tale epoca, dall’altra, si mostra nella sua funzione positiva, che è quella di distinguere e determinare i concetti, consentendone una prima conoscenza. Prendendo le mosse da tale ambiguità Pitillo solleva una questione fondamentale: “come curare la malattia, se il rimedio sembra essere la causa di quello stesso male?” (p.3). Tracciando quella che viene definita una “preistoria del concetto” l’autrice rileva come già nella trattazione sul destino sia lo stesso limitato che, sostando nella propria rigidità, finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Comprendere la scissione e l’opposizione alla base della totalità consente di assegnare concretezza all’idea stessa di totalità, mostrando al contempo la separazione di Hegel da una tradizione metafisica volta a rendere l’assoluto nella sua astratta unitarietà. Questo passaggio viene compiuto mediante l’indagine di un tema caro all’autrice, il concetto di riflessione (Reflexion) e il confronto con le Reflexionsphilosophien. In questo quadro, con particolare riferimento alla critica a Jacobi, emerge la necessità di pensare insieme il carattere assoluto e indipendente del fondamento, ponendo la riflessione come “momento fondativo dell’edificio del sapere” (p. 50). Riabilitare il ruolo dell’intelletto motiva, al tempo stesso, il passaggio verso la dimensione della ragione, che altrimenti resterebbe un salto ingiustificato, e ripristina “l’essere umano nella sua interezza” (p. 57), riconoscendo il “primato della vita su ciò che è puro concetto e speculazione” (p. 58).

Seguendo questa originale linea interpretativa, Pitillo elabora l’analisi hegeliana della proposizione fondamentale annunciata nella Differenzschrift con lo scopo di riassegnare pari dignità speculativa alle nozioni di separazione e identità. A sostegno di questa tesi l’autrice riprende la considerazione hegeliana del concetto spinoziano di sostanza, fondamentale per esprimere il filo rosso dell’intera argomentazione, al fine di cogliere l’assoluto, la totalità, come “movimento di autoproduzione di sé a partire dalla contraddittorietà” (p. 71), dove la contraddittorietà abita nel luogo del finito che accoglie l’attività del Verstand.
Su queste fondamenta si erge un nucleo teoretico, il rapporto tra logica e metafisica, il quale potrebbe essere pensato in senso isomorfo al rapporto tra intelletto e ragione. Negli scritti jenesi la logica viene infatti definita come propedeutica alla filosofia speculativa, ma, “come si coniuga, si interroga l’autrice, il suo carattere introduttivo, di prima parte del sistema, con il fatto che la scienza è già presente e, perciò, non deve essere guadagnata?” (p. 73).

Nel secondo capitolo Pitillo districa tali aporie legate alla natura anfibia dell’intelletto nel contesto del legame che secondo Hegel intercorre tra la logica e le nozioni di critica e scetticismo. L’autrice entra nel vivo della questione definendo la critica nella sua funzione dissolvente, dove a dissolversi è proprio l’imporsi della particolarità come principio assoluto della filosofia. La critica appare come l’inizio della filosofia sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, infatti, “è l’idea stessa a presupporre la critica, in quanto dissoluzione negativa della particolarità astratta e premessa fondamentale per l’attingimento del vero” (p. 95). Il negativo, come negazione di sé della particolarità, non risulta essere un semplice strumento, ma un momento costitutivo del processo di conoscenza, dato che avviene all’interno del tutto per “una sua propria tendenza naturale” (p. 97).
A dare una risposta più esplicita alla domanda inaugurale interviene la trattazione sullo scetticismo. A partire dall’analisi hegeliana dei tropi scettici, l’autrice individua nella dialettica autoriflessiva il mezzo che “conduce l’intelletto a rigettare la propria unilateralità” (p. 118), tornando a far luce sulla struttura argomentativa dell’intero libro: la necessità di soggiornare nei luoghi della negatività. Pitillo assegna allora con decisione al rapporto la stessa duplicità che distingue le spoglie del Verstand; il rapporto è pensato come “relazione vivente, unità e identità dell’opposizione”, ma al tempo stesso, “distinzione, permanenza nell’opposizione” (p. 140). L’alterità diviene imprescindibile rispetto alla stessa relazione, essa è fondativa e “può essere compresa soltanto alla luce del movimento autoriflessivo che consente all’intelletto di divenire consapevole della propria inadeguatezza” (p. 148). Questo passaggio viene ulteriormente approfondito con una originale distinzione che l’autrice propone tra una dialettica del rovesciamento e una dialettica autoriflessiva, mediante la quale non vi è la pretesa di definire una volta per tutte la modalità con cui l’assoluto si relaziona al finito come ciò che è altro da sé, ma di esplicitare due ulteriori elementi di riflessione: per un verso l’assoluto è una totalità diveniente, nel senso che produce il proprio altro da sé; per un altro verso l’assoluto è sapere di sé, dunque, il rapporto tra finito e assoluto deve essere pensato in termini di conoscenza, ovvero, l’assoluto si conosce mediante il finito, “che, a sua volta, concepisce se stesso come Anderssein, essere-altro (p. 154). Questa elaborazione da parte dell’autrice è una conseguenza del fatto che non vi è passaggio tra le due dialettiche (del rovesciamento e autoriflessiva), così come non si può parlare in senso risolutivo di una via che conduce dall’intelletto alla ragione.

Il capitolo conclusivo merita una peculiare considerazione, dato il carattere ostico di Logica e Metafisica (1804-05), che Pitillo affronta e traduce in una prosa cristallina. Normalmente poco battuto dagli interpreti, lo scritto viene sviscerato dall’autrice proprio per l’inedita concezione del sistema che Hegel propone, in una sorta di retrobottega speculativo della Fenomenologia dello spirito in cui tra logica e metafisica viene messa in luce la separazione più che la convergenza. I concetti di irrequietezza e negazione di sé legano qui in modo sostanziale l’alterità alla dimensione del Verstand, collocando “la soggettività in una dimensione inospitale” (p. XVI), nel regno di quelle determinatezze spesso dissimulate come la polvere sotto il tappeto, in vista di una conciliazione sistematica.
Il libro schiude diverse prospettive innovative, che non pretendono un’interpretazione del pensiero hegeliano tout court, ma finiscono inevitabilmente per coinvolgerne la complessità, vagliando un tema cardine che ne attraversa l’intera storia: il rapporto tra intelletto e ragione. Sostenuto da un’importante letteratura critica, con cui l’autrice dialoga con disinvoltura, La meraviglia del barbaro. L’intelletto negli scritti jenesi (1801-1805) va oltre lo scopo proposto nell’introduzione, “offrire una visione d’insieme di questo cruciale nodo teorico” (p. XX) che rappresenta il ruolo del Verstand negli jenesi. La ricerca di Pitillo, infatti, pur essendo circoscritta alla teoria hegeliana della conoscenza, rivela come la naturale tendenza umana ad andare oltre ciò che è finito, deve prima essere trasformata in capacità di sostare nella contraddizione, di indugiare nella negatività. Pensare il limite come insuperabile diviene preliminare al suo superamento, poiché solo una volta vissuta e conosciuta la “dimensione inospitale” che il Verstand hegeliano esprime, la coscienza può conciliarsi con il tutto senza perdere la propria unicità.

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