La mercificazione delle masse

Il trionfo del capitalismo neoliberale è riuscito nell’impresa di mercificare le masse; di ridurle, a seconda delle esigenze, a bene di consumo o a valuta di scambio.

Fabio Armao

L’evoluzione delle istituzioni politiche, dagli stati assoluti ai regimi parlamentari, ha sempre implicato un problema di gestione delle masse: assoggettate e ignorate fin quando possibile e, infine, integrate nel sistema politico attraverso meccanismi di mobilitazione e manipolazione che si sono fatti particolarmente sofisticati ai tempi dello scontro ideologico tra democrazie e totalitarismi. Del resto, non potrebbe essere diversamente se soltanto si considera che qualunque autorità non rappresenta che una sparuta minoranza all’interno di un “popolo”, che i governanti sono sempre una frazione infinitesima dei governati.

Il trionfo del capitalismo neoliberale sembra, tuttavia, essere riuscito nell’impresa di mercificare le masse; di ridurle, a seconda delle esigenze, a bene di consumo (carne da macello) o a valuta di scambio (pacchetti di voti). Qualcuno potrà obiettare, guardando indietro al Novecento, che non si tratta di una novità: le due guerre mondiali e decenni di campagne elettorali caratterizzate, almeno nell’Europa occidentale, da una contrapposizione radicale tra opposte ideologie sono lì a dimostrarcelo. Eppure, è difficile sfuggire alla sensazione che allora le masse riuscissero comunque ad essere protagoniste (oltre che vittime), che la loro partecipazione implicasse delle possibilità, quantomeno, di emancipazione e che talvolta riuscissero a trarre persino dei benefici dal proprio coinvolgimento (ad esempio, in termini di diritti o di welfare). Oggi non è più così. E se ne trova una conferma nel dilagare a tutte le latitudini e in qualunque parte politica di quello che chiamiamo populismo: una strategia di marketing politico, di propaganda light, che offre ai cittadini l’illusione di essere i destinatari del messaggio politico quando, in realtà, sono la merce in vendita. Facciamo due esempi.

Il primo non può che essere la guerra in Ucraina. Per scatenare l’invasione, Vladimir Putin non ha avuto bisogno di ricorrere a una mobilitazione generale e in grande stile delle masse russe, tanto meno si è dovuto sforzare di garantire loro, in prospettiva, una qualche forma di remunerazione (maggiori libertà o maggiori ricchezze) per gli inevitabili sacrifici che avrebbero dovuto patire. Gli è bastato mettere in scena un teatrino in cui pretende di interpretare il ruolo di erede dello zar e dell’Unione sovietica al tempo stesso, in modo da raddoppiare le audience di nostalgici che sono ancora disposti a dargli credito, nonostante in vent’anni di gestione monocratica del governo abbia ridotto la superpotenza russa ad avere un prodotto interno lordo inferiore a quello dell’Italia.

Per Putin le masse sono merce che è del tutto lecito dilapidare: sono le migliaia di soldati, per lo più giovani indigenti provenienti dalle “periferie dell’impero”, da mandare al massacro per consentirgli il lusso di una guerra di conquista; e, soprattutto, le moltitudini di corpi straziati delle popolazioni che dice di voler liberare, abbandonati sotto le macerie dei bombardamenti. Le devastazioni che le sue forze armate stanno infliggendo all’Ucraina sono l’esito di una tattica militarmente idiota, perché non si accontenta di fare “terra bruciata” distruggendo specifiche risorse utili al nemico; ma, radendo al suolo intere città, rende di fatto impossibile anche la sopravvivenza in quelle aree degli stessi “vincitori”. Ai sopravvissuti, con la munificenza che lo contraddistingue, potrà concedere (o imporre) un passaporto russo, ma li costringerà a vivere per decenni in condizioni di mera sussistenza: dove potrebbe mai trovare le risorse per la ricostruzione del Donbass una cricca di oligarchi che hanno già saccheggiato la loro stessa madre Russia? Nessuno scudo fiscale li convincerebbe a far rientrare i capitali che hanno occultato nei paradisi fiscali e neppure basterebbe costringerli a vendere gli immobili e gli altri beni di lusso che hanno nel frattempo acquistato in Europa e nel resto del mondo (e oggi, in minima parte, congelati). L’unico vero obiettivo alla portata di Putin, semmai, è fare dell’Ucraina, letteralmente, una “terra di nessuno” da frapporre tra sé e l’Occidente. Altro che impero.

Il secondo esempio di mercificazione delle masse non può che essere l’Italia, all’indomani dell’ennesima tornata elettorale. Qui da noi, l’evento che rappresenta l’architrave dell’idea stessa di cittadinanza si è ormai trasformato in una parodia finalizzata a garantire ai politici il rinnovo delle proprie cariche più ancora che una parvenza di legittimità. Come conseguenza, gli elettori vengono ridotti a una merce-valuta che si dimostra quanto mai volatile e il cui valore intrinseco tende a deteriorarsi quanto più sono gli stessi politici a costruire la propria carriera (il proprio, pallido, carisma) sulla sistematica banalizzazione del dibattito pubblico o sulla critica acefala di quelle stesse istituzioni della rappresentanza che danno loro da vivere.

Mi riferisco in particolare, è ovvio, a quei leader movimentisti creatori di pseudopartiti che avrebbero dovuto rivoluzionare la terza repubblica italiana e che, semmai, si sono contraddistinti per la capacità di dilapidare il patrimonio di followers generato dalle loro bestie mediatiche con la stessa rapidità con la quale lo avevano acquisito (anche questo evoca, se ci pensate, il mercato nella forma delle dinamiche speculative dei capitali in borsa); oltre che per la frequenza con cui, all’interno del proprio stesso partito, hanno anteposto le faide all’elaborazione di progetti condivisi.

La loro incapacità di mantenere un contatto stretto con il territorio e, prima ancora, di proporre visioni politiche coerenti e alternative tra le quali i cittadini possano fare una scelta consapevole contribuisce a spiegare il crescente astensionismo il quale, sia che derivi da un atteggiamento individuale di disaffezione per la politica o piuttosto di ribellione (una sorta di disobbedienza civile), è comunque senza dubbio l’indicatore di una crisi di sistema – il mercimonio dell’elettore – che rischia di rivelarsi letale per la nostra democrazia.

Un’ulteriore conferma della gravità di questa crisi è data dalla recrudescenza di vecchie pratiche notabilari o esplicitamente clientelari che, certo, servono a indirizzare pacchetti di voti che, soprattutto a livello di elezioni amministrative, possono in effetti favorire in maniera determinante una lista piuttosto che un’altra. Tali pratiche, tuttavia, agiscono ancora prima a monte del processo elettorale, condizionando la selezione degli stessi candidati da inserire nelle liste. Non dovremmo allora sorprenderci del fatto che alla vigilia del voto possano emergere degli “impresentabili” e persino che, in una città come Palermo, qualcuno di essi possa essere arrestato per collusioni con clan mafiosi (un fatto che soltanto un ineffabile Berlusconi, in pieno “silenzio elettorale”, può permettersi di liquidare rispolverando il vecchio motto della giustizia ad orologeria). Ciò che, invece, rimane inaccettabile è che il sindaco eletto al primo turno, Roberto Lagalla, possa difendersi affermando che gli arrestati “neanche li conosceva”: rivendicare come una giustificazione (quasi un titolo di merito) il fatto che altri abbiano scelto a sua insaputa candidati in cerca di voti mafiosi fa dubitare della sua reale intenzione (prima ancora della capacità) di “governare” la città e, a maggior ragione, di arginare le infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione.

 



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