La crisi del regime di Vladimir Putin e la minaccia di Evgenij Prigozhin

La parabola disegnata dagli ultimi, drammatici avvenimenti documenta lo scacco del progetto autarchico di Putin. Ai suoi concittadini egli, infatti, aveva promesso una rinsaldata stabilità politica per gli anni 2000, il consolidamento della propria egemonia negli anni 2010, mentre oggi è costretto a raccogliere il frutto avvelenato della propria avventura militare in chiave nazionalistica.

Fausto Pellecchia

Qual è il progetto politico che guida la rivolta armata di Evgenij Prigozhin? Come interpretare la reazione di Vladimir Putin? Le loro recenti dichiarazioni permettono di spiegare la tentazione “bonapartista” del capo della Wagner. Da molti mesi, in realtà, Evgenij Prigozhin si oppone allo Stato e all’esercito regolare russo. Impegnato nella guerra in Ucraina, ha violentemente criticato il ministro della difesa Sergei Shoigu e il comando militare guidato da Vitali Guerassimov. Ma, finora, aveva sempre evitato di prendere di mira Vladimir Putin in persona, di cui era stato uno stretto collaboratore (tanto da meritare l’appellativo di “cuoco di Putin”). Questa strategia è stata improvvisamente abbandonata nel corso di un lungo monologo di Prigozhin teletrasmesso in un video dal tono inedito, nel quale per la prima volta, in maniera assolutamente esplicita, questi ha illustrato le origini dell’invasione russa in Ucraina con accenti assai diversi, se non opposti, a quelli usati dal capo del Cremlino. Prigozhin racconta che le popolazioni del Donbass non erano sul punto di subire un “genocidio” da parte delle forze ucraine, e che la Nato non si apprestava ad attaccare le repubbliche separatiste dell’Ucraina orientale, contrariamente a quanto diffuso dalla martellante propaganda di Putin. Secondo Prigozhin, questa «operazione militare speciale» è stata il frutto della volontà di potenza del ministro Shoigu e della velleità di arricchimento del comando militare e degli oligarchi, impegnati ad appropriarsi di parte del budget di guerra alle spalle dei soldati russi mandati al macello e di una popolazione messa all’angolo dalle sanzioni internazionali. Prigožin insinua pertanto che Putin sia stato vittima della disinformazione prodotta dalla cerchia dei suoi più stretti collaboratori, che avrebbero sfruttato l’intrinseca debolezza della sua leadership.

È forse lecito dedurre che Prigozhin non abbia calcolato il rischio al quale lo avrebbe esposto l’avventatezza di queste dichiarazioni? In fondo, il capo del potente esercito mercenario è persuaso che la sua visione delle cose è condivisa da una gran parte della popolazione russa, stremata da questa guerra sanguinosa. Egli si è dunque proposto come l’interprete più fedele del sentimento popolare, che fa assegnamento sul suo sostegno. Questo non significa, tuttavia, che egli voglia arrestare il conflitto, quanto, piuttosto, che saprebbe dirigerlo diversamente, per esempio lanciando su Kiev forze militari speciali. Perciò, se il suo tentativo di golpe militare avesse buon esito, non è detto che la guerra contro l’Ucraina non diventerebbe ancora più violenta. Si potrebbe anzi supporre che si produrrebbe il risultato opposto.

La strana reazione di Vladimir Putin.
Sabato, 24 giugno, in tarda mattinata, mentre Rostov era già apparentemente sotto il controllo degli uomini della Wagner, il Predidente russo è intervenuto in televisione per pronunciare un discorso chiarificatore su quanto stava accadendo. Non ha cercato di minimizzare gli eventi, ed anzi ha drammatizzato la posta in gioco in questa divergenza interna alla sfera del potere centrale, affermando che i «traditori» sarebbero stati puniti, malgrado l’eroismo dimostrato nel conflitto in Ucraina, e che egli avrebbe “resistito” a questa rivolta.

Tuttavia, sorprendentemente, invece di alludere ad uno degli ultimi tentativi di putsch nella storia russa, il mancato colpo di Stato del 1991 contro Michail Gorbaciov, l’ultimo dirigente dell’ Urss, Putin è risalito fino al 1917 e alla «guerra civile» che si è protratta fino al 1921 tra i Bianchi antibolscevichi e i Rossi. L’intento di Putin è chiaro: con questa analogia, ha cercato di collegare un contesto di guerra esterna a una situazione critica interna. Nel 1917, infatti, la Russia partecipava alla Grande Guerra e, a causa delle rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre del 1917, il Paese è stato costretto, secondo la narrazione putiniana, a ritirarsi dal conflitto mondiale, sacrificando importanti concessioni territoriali. L’avventurismo di Prigozhin, dal canto suo, mette a rischio la presunta grande guerra «civilizzatrice» della Russia in Ucraina. L’incubo del presidente russo è che una guerra civile in Russia venga a minare il suo piano storico di lotta contro l’Occidente e contro l’alleato ucraino. Resta che la scelta di ritornare all’epoca della rivoluzione del 1917 è altamente paradossale. Infatti, furono i bolscevichi – l’armata Wagner secondo l’analogia putiniana – che alla fine ebbero la vittoria. La rivoluzione armata di Lenin e dei suoi, che Putin qualifica spesso come un putsch, ebbe buon esito. Il capo del Cremlino, visibilmente scosso e turbato dalla crisi in atto non ha forse scelto l’esempio più appropriato a mobilitare i suoi concittadini, tratteggiando la soluzione di una possibile vittoria della ribellione prigozhiniana.
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Bonapartismo putiniano?
Durante la sua dichiarazione televisiva, Putin ha anche fatto allusione alle avventure golpiste del periodo rivoluzionario del 1917. Com’è noto, infatti, tra la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre, alcuni capi militari hanno tentato di prendere il potere, come, ad esempio, il generale Kornilov, che volle marciare sulla capitale russa nell’agosto del 1917. La tentazione bonapartista non è dunque ignota nella storia russa. Per un breve lasso di tempo è tornata ad aleggiare sulla Russia degli anni 1990 allorché il generale Alexandre Lebed, eroe della prima guerra in Cecenia, è stato salutato come un nuovo Bonaparte, in grado di far uscire il suo paese dall’anarchia.

Per il momento non sappiamo se l’avventura del leader della Wagner sarà soffocata sul nascere, o se, come sembra più probabile, si limiterà a celebrare una vittoria solo virtuale, dopo aver “generosamente” fermato le sue truppe a meno di 200 km da Mosca «per evitare un nuovo bagno di sangue». L’accettazione dell’estrema mediazione di Lukashenko, presidente della Bielorussia e uomo fantoccio di Putin, non coincide infatti con il ripristino della sovranità del Cremlino, bensì, piuttosto, con la ratifica della sua fragilità e della crisi endemica del suo ruolo di comando. Tutto sembra rimesso al gioco delle forze militari, alla soverchiante presenza delle milizie mercenarie che hanno minato gli equilibri politici interni e messo a dura prova la lealtà delle truppe regolari e il sostegno delle élites di oligarchi. A questo sfondo di incertezza va aggiunto l’indeterminatezza della volontà dei cittadini che attualmente figurano ancora come i grandi assenti di questo decisivo braccio di ferro. Quali che siano gli esiti futuri della crisi in atto, il fatto stesso che il capo militare di un esercito mercenario sia riuscito a gettare nel panico lo Stato russo, avanzando indisturbato con le sue milizie entro i confini della Federazione, mostra come ormai tutto sia possibile in Russia. In ogni caso, la parabola disegnata dagli ultimi, drammatici avvenimenti documenta lo scacco del progetto autarchico di Putin. Ai suoi concittadini egli, infatti, aveva promesso una rinsaldata stabilità politica per gli anni 2000, il consolidamento della propria egemonia negli anni 2010, mentre oggi è costretto a raccogliere il frutto avvelenato della propria avventura militare in chiave nazionalistica.

Foto Ansa | EPA/ARKADY BUDNITSKY



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