La morte di Prigožin e le sue possibili conseguenze, intervista a Giovanni Savino

Non sappiamo ancora molto sulla dinamica che ha portato alla decapitazione della Wagner con la morte dei suoi vertici. Sappiamo però una cosa e cioè che l’accadimento è stato interpretato dal popolo russo come un segnale: chi si mette contro Putin muore. Ma nonostante queste brutali dimostrazioni, il suo potere non è saldo e la sua atomizzazione potrebbe portarlo alla disgregazione. Di seguito le riflessioni di Giovanni Savino, ricercatore di storia della Russia presso l'Università Federico II di Napoli.

Redazione

L’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava Prigožin (e non solo) giunge come un fulmine a ciel sereno oppure c’era da aspettarselo dopo i fatti del 24 giugno?
Le modalità di quanto accaduto appaiono molto particolari, anche se ancora non sappiamo come l’aereo sia stato abbattuto. Però la tempistica di ciò che è successo, verificatosi due mesi esatti dopo il tentativo di prendere le redini del potere in Russia, ci dice molte cose. Per adesso non conta tanto fare luce sull’accaduto in sé ma vedere come lo interpreta la gente, ovvero come una vendetta di Putin. Io credo che questi non abbia dimenticato l’umiliazione patita perché per la prima volta nella storia della Russia putiniana, nonostante Prigožin abbia affermato il contrario, è stato messo in atto un tentativo di mettere in discussione il monopolio del potere manu militari. E a farlo è stato Prigožin. Si tratta di un unicum negli ultimi due secoli: qualcosa del genere è avvenuto nel 1991 ma erano colpi di coda di un sistema già in crisi da parecchio tempo; per trovare un precedente bisogna risalire, come scritto da Vladislav Zubok in un articolo su Foregn Affairs, al Periodo dei torbidi. Ma le analogie quando si parla di storia vanno sempre prese con le pinze.
Siamo in presenza di un messaggio intenzionale? Viene comunque interpretato come tale: chi si oppone a Putin muore.  E se questo prima avveniva attraverso avvelenamenti, che potevano sempre essere fatti passare (con scarso successo) come cause naturali, qui abbiamo un aereo che cade a pochi chilometri da uno dei principali aeroporti della Russia, Šeremét’evo. Questo vuol dire che sistema putiniano possa arrestare il proprio processo di sgretolamento? Io credo di no, in primis perché un messaggio molto forte può suscitare varie reazioni. Non credo che ce ne sarà una immediata da parte della Wagner perché questa è stata decapitata: con Prigožin sull’aereo viaggiavano Valeriy Chekalov, responsabile della logistica e della campagna informativa, due elementi essenziali per la compagnia militare, e soprattutto Dmitry Utkin, colui che alla Wagner ha dato il nome e ne è il comandante militare. La Wagner quindi è priva di una direzione e perciò non vedremo sue reazioni, dal momento che siamo in presenza della sua uscita di scena. Elementi di instabilità possono giungere da altrove. Non vi è stato un ripensamento della tattica del ricorso a compagnie militari private: il 21 agosto Prigožin era apparso in video da un non identificato Paese africano a seguito di voci che parlavano di una ridislocazione della Redut, altra compagnia militare privata finanziata da Oleg Deripaska, magnate dell’acciaio, e sotto la responsabilità di Gennadi Timchenko, uno degli oligarchi più vicini a Putin. La Redut doveva prendere il posto della Wagner in Africa ed essere rimossa dal fronte ucraino. E nell’Africa subsahariana Prigožin ha grandi interessi e lo abbiamo visto anche in Niger, dove la gente è scesa in strada a Niamey con bandiere russe e quelle della Wagner, identificando i mercenari con la Russia. Questa modalità dell’outsourcing mina la verticale del potere perché crea dei piccoli Putin, ognuno importante nel suo piccolo-grande spazio. Ciò è iniziato in Cecenia, dove nemmeno il potente FSB può mettere bocca senza che Kadyrov non voglia.
Si prospetta un futuro con colpi di scena e cambiamenti repentini, in cui la grande assente è una soggettività sociale, popolare e indipendente e ciò è dovuto sia all’atomizzazione della società russa sia alla repressione. Con la repressione Putin ha commesso un errore, perché pensava di sterilizzare le contraddizioni che invece sono scoppiate dal versante che credeva a lui più fedele, quello dell’ultra-patriottismo e dell’ultra-nazionalismo. Lo scenario resta molto aperto, la crisi potrebbe durare a lungo ed è molto difficile fare previsioni. Se in Russia ci fosse stato un punto di riferimento politico alternativo, anche illegale ma comunque presente nella società e non in galera, probabilmente oggi parleremo di cose diverse.

Previsioni molto difficili, certo, ma proviamo comunque a farle.
Secondo me il fattore fondamentale che potrebbe permettere cambiamento è il verificarsi di quella situazione che i sociologi chiamano degli scaffali vuoti. Ancora oggi la grande paura del russo medio è trovare gli scaffali vuoti nei supermercati; non per ragioni edonistiche ma perché ciò riporta ai traumi collettivi di fine Ottanta e inizio anni Novanta e, se vogliamo, ancora più remoti: nel 1917 a Pietrogrado, molto più che per Lenin e Kerenskij, si scese in piazza per la fame e quello spettro si agita ancora. Ma il reale problema è che in Russia non è presente un polo d’attrazione capace di convogliare questi malumori (e qui, sempre in riferimento alla repressione, dal suo punto di vista Putin ha lavorato invece bene). Potremmo quindi anche assistere a evoluzioni che vanno in senso completamente opposto a quelle auspicate, ovvero al radicarsi di una dittatura brutalmente repressiva. Ma anche in questo caso mancherebbe un’alternativa politica a cui potrebbe fare riferimento la gente disposta a battersi per opporsi a una simile condizione.

Ma la decapitazione della Wagner alla fine non potrebbe rivelarsi un azzardo? Dal punto di vista militare in Ucraina ha sopperito alle mancanze dell’esercito regolare mentre proprio in quel famoso 24 giugno molta gente è scesa in strada a Rostov sul Don per esprimerle sostegno. La vendetta per la pugnalata alla fine non potrebbe rivelarsi un boomerang?
Io non ingigantirei il consenso di cui gode la Wagner; ciononostante quando ragioniamo su quello che è successo il 24 giugno non possiamo prescindere dal fatto che la gente a Rostov sul Don è scesa in strada per manifestarle sostegno.
Soffermiamoci poi bene su parole e concetti: secondo me in Russia non si può parlare di sostegno e consenso ma di indice di gradimento: quanta gente quel giorno è scesa in strada per difendere il potere di Putin e la sua Costituzione? Il 24 febbraio in Ucraina, all’inizio della guerra, la gente è scesa in strada per chiedere fucili; quando nel 2016 Erdoğan è stato temporaneamente estromesso dal potere in Turchia la gente si è rivoltata contro l’esercito. Ma in quell’occasione almeno il Presidente turco aveva arringato il popolo attraverso FaceTime mentre Putin ha registrato il suo messaggino e se ne andato indignato. Sembrava di assistere a un fidanzatino ferito, sentitosi tradito, nel mezzo di beghe tra innamorati; ma il problema è che qui non si tratta litigare e bloccarsi dai social network: abbiamo un fidanzatino bizzoso che può far abbattere aerei e ha a disposizione l’arma nucleare. Credo che Putin non avrebbe in ogni caso potuto contare su un grande sostegno popolare.
Comunque, tornando strettamente al tema della repressione e all’eliminazione degli avversari, in generale nella logica di Putin non è tanto importante il presente quanto la prospettiva: puoi essere nel futuro un pericolo? E allora ti elimino. Altrimenti non si capiscono alcuni atti di repressione da lui compiuti negli ultimi anni: non è che Memorial e il Centro Sakharov siano concretamente pericolosi ma dal suo punto di vista potrebbero offrire qualche maggiore grattacapo in prospettiva futura e allora interviene.

Parlare di “indice di gradimento” e non di consenso descrive bene la realtà della Russia putiniana. Negli anni Putin ha sempre più allontanato i cittadini dal discorso sulla cosa pubblica, rendendoli semplici spettatori, come se fossero davvero in presenza di un programma televisivo. Anche se la facesse, quest’ipotetica chiamata alle armi in difesa del suo regime, quale risposta potrebbe aspettarsi da cittadini che lui stesso per anni ha provveduto ad anestetizzare?
Secondo me infatti la gente in Russia, tranne le due minoranze attive (chi appoggia la guerra e chi vi si oppone), pensa di trovarsi in presenza di una lotta fra bande, di fronte alla quale fare scorte di popcorn o sbizzarrirsi con i meme. In Russia è successo ciò che De Gregori cantava ne La storia siamo noi (“E poi ti dicono ‘Tutti sono uguali / Tutti rubano alla stessa maniera’ / Ma è solo un modo per convincerti / A restare chiuso dentro casa quando viene la sera”). E non è un caso che uno di primi slogan di Navalny sia stato quello della lotta alla neutralità, all’invito a non schierarsi.
Nemmeno in risposta alla marcia di Prigožin come dicevamo, Putin ha chiamato la gente a intervenire, concentrandosi anzi sul tradimento e sulla sua patologica ossessione: il 1917. La gente è stata solamente chiamata a sostenete il potere e l’esercito come se si trovasse a vedere la partita, nemmeno allo stadio ma a casa. Si relaziona a un pubblico di spettatori. Il sistema putiniano si è sempre basato sull’idea del pubblico spettatore e cosa fanno gli spettatori da casa? Al limite partecipano al quiz con il televoto; tale funzione la assume anche il voto elettronico alle elezioni, usato non solo per alterare i risultati ma anche in contrapposizione a quei cittadini attivi, che vanno alle urne per esprimere chiaramente e attivamente una visione di cui sono portatori. Nel 2021 alle elezioni per il rinnovo della Duma infatti è andata fisicamente a votare soprattutto gente motivata a esprimere il suo dissenso; il voto elettronico invece è facile, si traduce in un click sullo smartphone, dato a casa, ed è estremamente controllabile dalle autorità.
Rendere la società pubblico però poi mina la base del potere, perché poi così chi sarebbe pronto a morire per Putin? Anche perché chi lo è – e lo abbiamo visto in questi 18 mesi – fa una brutta fine.

A proposito di fare una brutta fine, in un’intervista rilasciata a Fanpage il politologo russo Matveev ha osservato che quanto accaduto a Prigožin, eliminato dopo averne garantito l’incolumità, potrebbe far tremare le élite russe, che potrebbero rivoltarsi contro Putin proprio per evitare una fine simile.
Con tutto il rispetto, mi sembra che Matveev nutra un’illusione liberaleggiante nei confronti della capacità dell’establishment russo di potersi ribellare. Non credo che la pressione nei confronti di Putin possa venire esercitata da lì perché quell’establishment gli deve tutto il suo potere, economico oltre che politico – e parliamo di cose grosse: petrolio, gas, diamanti…
In ogni caso come eventuale orizzonte non vedo una rivolta ma un possibile processo innescato da una situazione di crisi. Immaginiamo questo scenario: la situazione al fronte passa dallo stallo all’avanzamento dell’esercito ucraino, che prende la regione di Belgorod facendo sprofondare il Paese nel caos e allora scatta il “tana libera tutti”, con ognuno che cerca di mettersi in salvo come meglio può.
Bisogna anche vedere come si evolve la situazione alla luce della verticale del potere che tracciavo prima, quella con i tanti piccoli Putin, questo sistema di vassalli che potrebbe disgregarsi e portare all’atomizzazione. Ma questo non possiamo aspettarcelo dagli oligarchi bensì dai poteri che governano le regioni russe, non solo da quelli delle repubbliche nazionali.
Ma perché ciò avvenga devono verificarsi tre cose importanti: 1) l’intensificazione della crisi al vertice, di cui l’abbattimento dell’aereo (o meno) potrebbe costituire un passaggio; 2) un’eventuale sconfitta al fronte, elemento fondamentale nella dialettica della storia russa; 3) il peggioramento della situazione economica (e un segnale importante in tal senso è la svalutazione del rublo, che avviene in un momento in cui non dovrebbero esserci criticità come l’impatto psicologico per le sanzioni subite tra febbraio e marzo 2022 né problemi di approvvigionamento – anzi, siamo per esempio in presenza di un surplus di cereali).
Vi è una frase di Lenin che forse Matveev ha dimenticato: “Dall’alto non possono e dal basso non vogliono”, che descriveva una situazione in cui per le élite al potere non vi era più la possibilità di dirigere lo Stato come prima. Ma non ci troviamo in questa situazione, attualmente non possiamo considerare la Russia un failed state: per diventarlo la gente dovrebbe spararsi in strada a Mosca e San Pietroburgo. Ci sono dei segnali che vanno in questa direzione però: l’aumento della criminalità, la creazione della classe dei privilegiati che hanno partecipato all’“operazione speciale” che crea nuove disuguaglianze…  Ma si tratta di un percorso che è ancora in fase iniziale, siamo lontani dalla sua materializzazione. Per capire l’evolversi della situazione è interessante vedere cosa accade nella regione di Belgorod, dove ogni giorno accadono avvenimenti significativi, ma da lì non ci giungono più notizie, credo per via di una censura mirata.
Più di quanto auspica Metveev, io come vettore di disgregazione del regime posso immaginare la ripresa dell’avanzata ucraina che sconfina nelle regioni russe e genera un’ondata di rifugiati. È uno scenario che ora non sembra possa facilmente realizzarsi ma io penso appunto a eventi come questo in grado di sconquassare la realtà del Cremlino: l’ipotesi di Matveev al momento mi sembra molto, molto lontana dal potersi verificare.

 

CREDITI FOTO: Government of the Russian Federation|Wikimedia Commons

 

 

 



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