La nuova questione della lingua: l’italiano e l’inglesorum

Il problema della diffusione degli anglismi è una nuova “questione della lingua”, come quelle di scolastica memoria, da Pietro Bembo, nel Cinquecento, ad Alessandro Manzoni, nell’Ottocento. Quindi va affrontato con serietà e professionalità dalle istituzioni.

Daniele Barni

La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervenendo alla XV Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori presso la Farnesina sull’invasione degli anglismi nella lingua italiana, si è rivolta ai combattenti di penna, di tastiera e di ugola con una parola d’ordine categorica e impegnativa per tutti: vincere l’inglesorum! E vinceremo!

Avrei potuto cominciare così questo articolo, se la questione del dilagare degli anglismi nella lingua italiana non fosse seria e, purtroppo, sottovalutata. “Anglismi”, non “anglicismi”, perché anche “anglicismo” è, appunto, un anglismo. Pochi termini, che in passato schizzavano qualche volta fino a noi, com’è normale fra lingue vicine, si sono trasformati presto in ondate e, adesso, in uno zunami (si capirà in seguito perché adotti questa grafia) di parole inglesi. Esso sta travolgendo, e stravolgendo, la nostra cultura nel disinteresse sostanziale di accademici, scrittori, intellettuali e politici. Tranne pochi, fra i quali, ad esempio, il compianto Luca Serianni, che ha tentato più volte di fare argine.

L’italiano è una lingua bellissima, un’opera d’arte realizzata in secoli di scrittura, prima ancora che di parola, come le meraviglie della nostra pittura, scultura, architettura e, appunto, letteratura. Essa è armonica nella sua complessità semplice: il suo sistema verbale, e in genere grammaticale, è tanto grande da poter abbracciare tutti i modi e i tempi, fino ai più impalpabili, del pensiero e del sentimento; il suo vocabolario è così ricco da poter spendere espressioni per ogni emozione e concetto, anche i più intangibili; la sua fonologia, cioè i suoi suoni, è così melodiosa, con tutte quelle vocali, da far danzare ogni ragionamento e sensazione, fino a rendere raffinati ed eleganti anche quelli più grossolani.

Per un breve periodo della mia vita ho lavorato all’Etnopôle Garae di Carcassonne, in Francia, un centro di studi etnografici e antropologici. Prima, avevo frequentato dei corsi propedeutici di lingua francese all’Université Paul Valéry di Montpellier, fra ragazzi di tutta Europa, anzi di tutto il Mediterraneo, dalla Norvegia all’Algeria, dal Portogallo all’Ucraina. Sì, ricordo una ragazza ucraina, ma non più il suo nome: era piccolina, con i capelli corti color rosso dell’uovo, divisi con precisione da una parte, e gli occhi così azzurri da mettere in imbarazzo il cielo o il mare. Era il 2004 e lei aveva ventisei anni. Era venuta a studiare ingegneria con in tasca diecimila euro risparmiati in patria, con i lavori più diversi, anche più di uno insieme. Doveva laurearsi in quattro anni, non un attimo di più. Ogni centesimo che spendeva passava sotto quegli occhi azzurri contemplato come l’iconcina di San Giorgio e il drago che le aveva regalato la nonna, e che teneva issata sopra al forno a microonde.

Spesso mi invitava a delle cenette fra studenti nel suo monolocale in affitto nella zona universitaria: ovviamente, perché cucinassi per tutti gli spaghetti alla salsiccia. E ogni volta, a metà serata, quando le risate e i tonfi dei bicchieri erano più forti, mi tirava vicino alla finestra. Mentre fuori guardava i tetti fino all’orizzonte, al di là del futuribile quartiere di Antigone, forse fino all’Ucraina, voleva che le recitassi poesie italiane. Non ne capiva una parola. Ma voleva abbandonarsi alla loro melodia. Allora, per fortuna, conservavo nella memoria un piccolo repertorio: da qualche spezzone dell’Inferno e del Paradiso fino a qualcuno degli Ossi di seppia. Ma la sua poesia preferita era L’infinito: la voleva ascoltare più volte, recitata piano; forse, pensavo, infarcito com’ero di letteratura russa dell’Ottocento, piano come una ballata della steppa.

Dimenticavo, invece, che avevamo scavallato il secondo millennio; e ignoravo che nella steppa avrebbero cigolato presto i carrarmati. A volte, però, mi diverto a immaginare come il Leopardi del secondo millennio riscriverebbe, oggi, quella poesia: “Sempre caro mi fu questo single colle,/e questa siepe che da tanta parte/dell’ultimo skyline in guardo esclude. […] E il naufragar m’è dolce a Miami Beach.” Immagino anche, però, che questa versione de L’infinito non piacerebbe molto alla ragazza ucraina. L’italiano, infatti, come tutte le opere d’arte, è una lingua tanto bella e armonica quanto fragile e facilmente deturpabile, che va tenuta e maneggiata con cura.

Ma per comprendere bene la questione e le sue implicazioni occorre procedere con ordine. Non ho usato a caso la parola “questione”: spero, infatti, che il problema sia affrontato come una nuova “questione della lingua”, dopo quelle, di scolastica memoria, che hanno appassionato i letterati italiani da Pietro Bembo, nel Cinquecento, ad Alessandro Manzoni, nell’Ottocento; e quindi che, come tale, sia affrontato, non con improvvisazione, ma con serietà e professionalità dalle istituzioni. Perché, se la dichiarazione di Meloni nasconde un nazionalismo vago e inutile, quelle di tanti intellettuali che le hanno risposto nascondono altrettanta vaghezza e inutilità: in molti, non a caso, dopo aver sottolineato, fra le parole della Presidente del Consiglio, quelle che richiamano i toni della Buonanima, la quale, ad esempio, pretendeva di chiamare il cocktail “bevanda arlecchina” o il pullman “torpedone”, hanno altresì dichiarato che sia insensato arginare o regolare i travasi di parole fra lingue e che la soluzione stia soltanto nel rendere più forte ed espansiva la cultura italiana.

Entrambi sono modi sbagliati di affrontare un problema che pure esiste. Inoltre, mi pare che entrambi si rifacciano al concetto, per altro fascistissimo, di forza, fumoso e inefficace, senza frugare nella questione per cercare di tirarne fuori qualche idea. Le lingue, infatti, non sono entità separate governate dal fato o dagli dei, ma suoni che stanno nelle bocche degli esseri umani e che, come tali, possono essere scelti, modificati o sostituiti. Ed è bene sapere che quando ci mettiamo in bocca parole straniere, ci nutriamo anche di culture diverse dalla nostra, che possono contribuire o meno al nostro benessere. Come tutte le diete, infatti, anche quella delle parole deve essere varia e bilanciata e, soprattutto, deve essere ben assimilata per produrre buona energia. Fuor d’allegoria, gli apporti linguistici e culturali da altri paesi devono essere necessari e diversificati, devono essere integrati (soprattutto a livello fonetico, cioè di suoni) e fatti propri, e devono produrre nuova cultura.

Invece, ci troviamo nella situazione contraria: gli apporti giungono soprattutto dai paesi anglosassoni, e nella maggior parte dei casi sono inutili; portano con sé convinzioni e abitudini accettate acriticamente; non producono nuova cultura, ma semplice sostituzione di quella esistente. In più, si fa sfregio alla bellezza, deturpando una lingua melodiosa e armonica come l’italiano, a dominanza vocalica, con l’inglese, ritmica e spesso cacofonica, a dominanza consonantica. Interi settori del sapere, sia nel parlato comune sia fra i linguaggi tecnici, sono abbandonati all’inglese: penso alla fisica, all’informatica, alla biologia, ma anche all’economia, alla sociologia, alla pedagogia, ecc… Per non parlare dell’effetto comico che, in questi tempi di epidemia, fanno certe nonnine e certi nonnini che raccontano di essere rimasti in lockdown; quando potrebbero adoperare una normalissima parola italiana, cioè “confinamento”.

L’italiano si sta ritirando nelle angustie del dialetto, se per dialetto si intende una lingua attraverso cui i parlanti o gli scriventi non sono più in grado di esprimere l’interezza dell’esistenza e dello scibile. Mentre noi italiani ci stiamo abituando a ragionare con la lingua, cioè con la testa, di altri, cioè a non essere liberi. E pensare che, rovistando nelle reti sociali (sì, esiste anche un’espressione italiana per social), mi sono più volte imbattuto in ammiratori inglesi, americani o scandinavi dei Måneskin, i quali sostengono con passione che le canzoni più belle del gruppo siano quelle in italiano; e, addirittura, che l’italiano sia lingua più adatta dell’inglese alla musica rocchettara.

Allora, che fare? Le istituzioni dovrebbero agire in duplice modo. Innanzitutto, incentivando chi lavori nelle comunicazioni a usare la lingua italiana, quando possibile: in televisione, in radio, nei giornali, nelle reti sociali, nel mondo della scienza e della cultura i giornalisti, gli ospiti, gli esperti devono reimparare ad adoperare la nostra bellissima lingua, fornendo così al pubblico un esempio virtuoso. In secondo luogo, finanziando e organizzando un gruppo apposito di linguisti, per altro già presente presso l’Accademia della Crusca, che, ogniqualvolta l’italiano manchi di parole per i nuovi oggetti o concetti importati, elabori e divulghi prontamente dei neologismi.

Così, per chi lo desideri, e senza i divieti e le costrizioni del Ventennio o, come in Francia, le pressioni dell’Académie Française, ci sarebbero subito a disposizione nuove parole italiane da impiegare parlando o scrivendo. In linguistica, il risultato di tale operazione si chiama “prestito”. Esso può essere “non adattato”, quando la parola straniera è accolta nel nostro lessico così com’è: ad esempio, computer; o “adattato”, quando la parola straniera è uniformata alla grafia, alla fonetica e alla morfologia del lessico che l’accoglie: ad esempio, “cocchio” dall’ungherese kocsi. Un particolare tipo di prestito è il “calco”. Esso può essere “formale”, quando traduce in italiano forme di una lingua straniera: ad esempio “grattacielo” dall’inglese skyscraper; o “semantico”, quando acquisisce a una parola italiana già esistente il significato di una analoga straniera: ad esempio, “stella” dall’inglese star per indicare una diva o un divo del cinema.

Ecco, per non deturpare la bellezza, la melodiosità e l’armonia della lingua italiana occorrerebbe limitare al minimo indispensabile i prestiti non adattati, e favorire al massimo possibile i prestiti adattati e i calchi. Oltre a favorire, ovviamente, le vere e proprie invenzioni linguistiche o neologismi puri. D’altro canto, a noi italiani non dovrebbe mancare la fantasia o l’immaginazione. Ed ecco perché all’inizio ho scritto “zunami”, anziché “tsunami”. Da sempre, sulle gambe degli uomini sono migrati anche i concetti e le parole, ma, almeno fino a oggi, gli italiani, dotti e meno dotti, hanno saputo accoglierli, regolarli e assimilarli.

Il termine “assassino”, per fare un esempio esotico, deriva dall’arabo hasciâscin o hasciscin, che significa “consumatore di hascisc”, dal nome di una tribù, capeggiata dal Veglio della Montagna, che all’inizio del XII secolo portò il terrore con ruberie e uccisioni tra Damasco e Antiochia. Questi banditi, come ci racconta Marco Polo ne Il milione, prima di compiere le loro imprese amavano inebriarsi con una bevanda a base, appunto, di hascisc. Il termine, poi, fu portato in Italia dai Crociati dopo la presa di Gerusalemme nel 1099 e, sapientemente adattato alla nostra lingua, è oggi di uso comune. Allo stesso modo dovremmo agire adesso con gli anglismi.

Da molti, quando si affronta la questione, si pongono le seguenti obiezioni: l’inglese permette maggiore velocità di esecuzione orale o scritta; l’italiano offre spesso parole più brutte dell’inglese per indicare determinati oggetti o concetti; tante parole inglesi, ormai, rientrano in una sorta di esperanto tecnico, abbandonando il quale si rischierebbe di non essere compresi all’estero. Riguardo alla terza obiezione, si potrebbe rispondere che ci si accorgerebbe che essa non è vera, se solo si avesse la voglia di tendere le orecchie a lingue vicine alla nostra come lo spagnolo o il francese: in francese, ad esempio, per citare parole tratte dal linguaggio tecnico dell’informatica, fra i più colonizzati in Italia, il computer si dice ordinateur, l’home page accueil e l’hardware e il software matériel e logiciel; in spagnolo, poi, ci si ostina ancora, solo per fare un esempio tratto dal linguaggio comune, a chiamare i film películas. Riguardo alla seconda obiezione, si potrebbe rispondere che parole brutte e belle, ovvero eufoniche e cacofoniche, esistono in tutte le lingue: certo, magari “strumentario” e “programmario” suonano meno bene di hardware e software, ma poi, a proposito di parole brutte, non credo che l’inglese handkerchief, ammesso che si riesca a pronunciarlo, sia da preferire all’italiano “fazzoletto da naso”.

Riguardo alla prima obiezione, posso rispondere con un ricordo personale, preso di nuovo dall’ambito conviviale. Una volta, a una cena da amici, il padrone di casa era indaffarato a cercare il mixer per cucinare un “vero” pesto alla genovese. So già che qui i lettori genovesi si staranno arrabbiando, perché il pesto si pesta, appunto, nel mortaio e non si dilania nel mixer. Il ragazzo carambolava qua e là per la casa, aiutandosi nella ricerca con delle imprecazioni. Sappiano poi, i lettori genovesi, che, una volta ritrovato l’aggeggio, al posto dei pinoli il mio caro amico “mixò” insieme al basilico le mandorle. Forse, penso adesso, se invece del mixer avesse cercato il “frullatore”, avrebbe dovuto rigirare nella mente una parola italiana più lunga e più lenta di quella inglese, e così avrebbe avuto più tempo per riflettere sugli ingredienti giusti da mettere nel “vero” pesto alla genovese. E i lettori genovesi, ora, non storcerebbero la bocca. Le mandorle, tra l’altro, restano incastrate fra i denti. La velocità non è sempre un pregio o un vantaggio.

A parte gli scherzi e le battute, le lingue costituiscono, per chi crede, l’anima, per chi non crede, la psiche delle persone. Perderle significa perdere se stessi.



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