La paghetta di Draghi

Il Decreto “Aiuti” è un chiaro segno di esaurimento della spinta propulsiva che era stata accreditata a Mario Draghi.

Pierfranco Pellizzetti

Il Decreto governativo “Aiuti” varato dal governo Draghi il 2 maggio scorso, variazione terminologica sul tema “Ristori/Sostegni” di contiana memoria, ripropone soluzioni già oggetto di feroci critiche nel passato; che ora superano indenni il vaglio critico degli opinion leader, beneficiando dell’abbrivio che ha accompagnato la prima stagione del “governo dei Migliori”. Difatti non sentiamo la grancassa confindustriale criminalizzare – al grido di “Sussidistan” – l’erogazione dei 200 euro ai redditi inferiori ai 35mila €; a differenza dell’accoglienza terroristica riservata ad analoghi provvedimenti del precedente governo.

Insomma, attualmente “la paghetta Draghi” non scandalizza gli indignati in servizio continuato e permanente anche se, rispetto alla precedente “paghetta di Matteo Renzi” (i tanto celebrati 80 euro di bonus in busta paga), presentano l’aspetto regressivo di essere una tantum. Ma soprattutto manifestano un generale intento diversivo, tanto da far chiedere giustamente alle rappresentanze dei lavoratori come si pensi di integrare i provvedimenti tampone in un complessivo piano strategico per lo sviluppo/progresso. Ossia, anche il governo dell’algido banchiere Mario Draghi inciampa nello scalino che sancì la fine della spinta propulsiva di quello di Giuseppe Conte; negli Stati Generali del giugno 2020. Con un tratto in comune: il mandato progettuale affidato alle cure regressive di una persona culturalmente inadatta alla progettualità, quale un liberista pavlovizzato dalla coazione a ripetere ricette fallimentari come Vittorio Colao. Un prigioniero della devastante ideologia anni Ottanta; ispiratrice del reaganismo/thatcherismo che ha ferito a morte il Welfare State e ha sistematicamente avversato le politiche pubbliche democratiche e inclusive, basate sulle forme programmatorie a base territoriale. La riscoperta della sinergia Stato-mercato, magari la sussidiarietà pubblico-privato, acquisizione in termini di solidarietà indotta dalla tragedia pandemica da Covid.

Cioè il ritorno alla politica industriale in età post-industriale, che dovrebbe essere la premessa concettuale irrinunciabile del passo decisivo per chiudere il cerchio del Next Generation attraverso la stesura di quel documento avvolto nel mistero, denominato PNRR (il cosiddetto “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”). Di cui si sa poco e niente, mentre dovrebbe essere l’innesco di un esteso dibattito politico quale uscita di sicurezza dal lungo incanaglimento intellettuale della classe dirigente nazionale. A tale proposito si sa solo che presenterà un’improvvida impostazione centralistica oltre a ovviare al deficit di creatività innovativa avviando la solita – rituale (molto consulenzialese) – campagna di ascolto delle proposte elaborate da un soggetto disattrezzato e disastrato quali i nostri comuni, bypassando le Regioni. E in assenza di un’intensa azione riformatrice della struttura amministrativa dell’intero sistema-Paese.

D’altro canto è questa la ricetta ormai adottata un po’ da tutti i Paesi del sedicente capitalismo avanzato davanti a problemi complessi che richiedono processi deliberativi altamente evoluti, che il club di chi ci governa non ha minimamente nelle proprie corde: accantonare i problemi ritenuti insolubili – dall’evoluzione del Coronavirus dalla condizione pandemica a endemica non meno dell’accompagnamento in chiave di governo del sistema mondiale dell’economia in evidente mutazione genetica – cancellandone la presenza dalle agende di governo. La negazione come terapia (o meglio, alibi) per l’inadeguatezza di chi dovrebbe farsene carico.

Questo è quanto fa anche il “Migliore dei Migliori” Mario Draghi, né più né meno dei suoi colleghi, i consoci del Garden Club dei potenti. Ma – al tempo stesso – un chiaro segno di esaurimento della spinta propulsiva che gli era stata accreditata al suo avvento; del raffreddamento dell’identificazione nel suo tocco magico da parte delle cheerleader e dei violini di spalla dell’informazione.

Qualcuno sostiene che il nostro premier pluri-stellato è andato in bambola nel momento in cui ha fallito l’operazione di conquista della Presidenza della Repubblica. Forse incomincia a prendere atto della propria inadeguatezza davanti a scelte che volano alte per un semplice uomo di conti. Così la demagogia della paghetta una tantum sarebbe stata pensata per acquisire consenso come un apprendista politicante qualunque? Magari arrivato alla frutta? E ce lo domandiamo nonostante due provvedimenti apprezzabili contenuti nel decreto 2 maggio: le semplificazioni introdotte sul fronte delle autorizzazioni all’installazione delle rinnovabili; l’incremento al 25% della tassazione degli extra profitti delle società energetiche.
Intanto si sussurra con crescente insistenza che si andrà a votare già in autunno.

 

(credit foto EPA/ETTORE FERRARI / POOL)



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