La sinistra deve andare oltre i partiti

Il nostro lettore Domenico Birardi risponde al questionario tesi del direttore Paolo Flores d'Arcais, "La sinistra è morta, viva la sinistra?", proponendo una riflessione a partire dalla riformulazione della domanda di partenza: "La sinistra del Novecento, quella proletaria e anticapitalista, è morta, ora ce ne potrà essere una nuova?".

Domenico Birardi

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IN RISPOSTA AL QUESTIONARIO TESI “LA SINISTRA È MORTA, VIVA LA SINISTRA?”
Il questionario-tesi proposto dal direttore Flores d’Arcais pone un quesito di rilevanza storica fondamentale, dal quale non è possibile sgomberare lo scenario politico contemporaneo. Larghe fasce della popolazione, anche non necessariamente addentrate nella scienza politica, continuano a domandarsi con smarrimento misto a nostalgia quale fine abbia fatto la sinistra italiana, quali siano state le cause della sua scomparsa, e cosa ci aspetti per il futuro prossimo.

Ciononostante, la domanda che campeggia nel questionario del direttore credo sia mal posta, o quantomeno viziata da una fallacia evidentemente comune a tutte le riflessioni che lo hanno accompagnato nel numero di MicroMega 1/2023 (La sinistra è morta, viva la sinistra?). L’errore è nell’ipotizzare che la trasformazione che ha vissuto la sinistra italiana dalla seconda metà del Novecento ad oggi sia il frutto di un’anomalia storia, di un caso inedito che ha interrotto un continuum storico-politico uniforme e sino ad allora mai mutato.

Ma in verità è un errore di percezione. Non è mai esistita una sinistra immutabile nel tempo, sempre identica a se stessa e animata dagli stessi postulati teorici: dai tempi del Club dei giacobini al crollo del Muro di Berlino (il cosiddetto «periodo delle rivoluzioni») le compagini politiche che si opponevano alle diseguaglianze sociali, giuridiche ed economiche, facendosi interpreti delle rivendicazioni provenienti dalle frange oppresse (i «dominati», per utilizzare la fortunata espressione di Marco D’Eramo), hanno vissuto molteplici metamorfosi, subendo di volta in volta l’influenza degli agenti esogeni che hanno caratterizzato i periodi storici in cui operavano.

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Proprio per non cadere nel madornale errore, in cui è incorso il Ministro dell’Istruzione Sangiuliano, di generare una ricostruzione storica maccheronica e semplificatoria, non possiamo considerare sinistra tutto ciò che non è padronale o appartenente alla classe dominante. Perché in un’elaborazione di tal guisa rientrerebbero nel novero degli «uomini di sinistra» anche pensatori come Platone, profeti come Gesù di Nazareth, cattolici come Francesco d’Assisi, scrittori utopisti come Tommaso Moro, e tanti altri. Costoro non erano uomini di sinistra, ma solo espressione di visioni politiche, filosofiche e teologiche estranee all’ordine costituito del loro tempo e particolarmente sensibili alle condizioni di povertà che in ogni epoca hanno afflitto una compagine della popolazione mondiale[1].

Si può assumere che la sinistra così come la intendiamo noi oggi sia nata approssimativamente tra il XVIII e il XIX secolo. Espressione del pensiero di intellettuali che intendevano dare una risposta al malessere sociale della popolazione subalterna alle classi dominanti dell’epoca, essa era la prima espressione storica di una rivendicazione collettiva e organica che si faceva consapevolezza storica, ambizione reale di governo politico. In quegli anni i compagni dell’epoca non ebbero più solo l’obbiettivo di migliorare le condizioni della loro classe di appartenenza, ma iniziarono a maturare l’ambizione di incardinare i propri valori in un nuovo ordine costituito: ambivano ad arrivare al Palazzo e cambiare il corso della storia.

Ora, sarà evidentemente noto ai lettori il novero di rivoluzioni che si sono avvicendate in quei due secoli (quella francese, la prima industriale, il Quarantotto, la seconda industriale, eccetera), perciò ci esimiamo dal raccontarne i tratti storiografici. Ma gli stessi lettori dovranno essere altrettanto consapevoli che nessuna di queste si è sviluppata in maniera astratta o disincagliandosi dalle condizioni materiali dell’epoca: le condizioni economiche e sociali, le contingenze storiche e il portato culturale di tutti i pensatori e i politici antecedenti giocarono un ruolo determinante nello sviluppo di ognuno di questi eventi. Non avremmo mai avuto la Rivoluzione francese senza i pensatori illuministi, l’ordinamento giuridico della Francia monarchica e le contingenze storiche che ne provocarono lo scoppio; così come non avremmo mai avuto la teorizzazione del marxismo senza la Rivoluzione industriale, le condizioni di indigenza del proletariato urbano e le intuizioni di Marx.

Se si accetta questo postulato, che d’altronde è alla base del materialismo storico, si dovrà inevitabilmente accettare anche che ogni compagine politica, sia essa di sinistra o di destra, non potrebbe mai rimanere indenne dal mutamento delle condizioni materiali dell’ambiente in cui opera.

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Il senso di questa breve premessa non era però quello di aggirare la domanda che segnatamente è stata posta, ma quello di costruire una risposta partendo da un’elaborazione storico-realistica che tenga in forte considerazione le condizioni che nell’ambiente circostante si sono verificate. La domanda posta dal direttore Flores d’Arcais in parafrasi è: la sinistra del Novecento, quella proletaria e anticapitalista, è morta, ora ce ne potrà essere una nuova?

Per capirlo è necessario scandagliare le ragioni che hanno indotto al crepuscolo il più grande partito comunista d’Europa e uno storico partito socialista d’ispirazione riformista. E se per quanto riguarda quest’ultimo possiamo affermare che alcuni liberali e riformisti che vagamente gli somigliano tutt’oggi esistono (Italia viva, Azione, la compagine liberaldemocratica del Partito Democratico), per quanto riguarda il primo non ci resta che attestarne la dipartita.

Indro Montanelli, di certo non uno storico né un giornalista politicamente imparziale, forniva degli ottimi spunti su cui ancor’oggi è possibile sviluppare un’analisi; i quali, peraltro, hanno numerosi punti di contatto con la chiave di lettura fornita sul già citato numero di MicroMega da Furio Colombo. Montanelli intravedeva nella fine del comunismo italiano quattro eventi chiave: l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica, la morte di Togliatti, l’invasione della Cecoslovacchia dalla stessa Urss e la caduta del Muro di Berlino. È indispensabile, però, collocare queste quattro date fondamentali in uno scenario che fu una delle ossessioni (o delle intuizioni) che ebbe Pier Paolo Pasolini: l’avvento della società dei consumi a cavallo tra gli anni 60 e i primi anni 70.

Non possiamo qui, per ovvie esigenze di spazio, che fornire una breve disamina di questi eventi, ma che sarà oltremodo utile a comprendere i dati di contesto che hanno più di tutto influito sullo sgretolamento della sinistra italiana.

Lo sfondo storico su cui si inscenano questi eventi, come già anticipato, è quello del miracolo economico italiano, dello sviluppo sociale, industriale e tecnologico e dell’aumento del benessere generale. Tutti questi fattori portarono all’affermazione di un modello di vita differente rispetto a quello degli anni precedenti, connotato da un forte incremento del consumo, dal mutamento radicale degli usi e delle attività domestiche (condizionate incisivamente dall’avvento degli elettrodomestici e della televisione), e da un innalzamento delle aspettative di vita. La portata di questi cambiamenti inferse un colpo ferale all’ideologia comunista e alla consapevolezza di classe, dal momento che il socialismo reale non era da intendersi solo come una dottrina funzionale al raggiungimento di una forma di governo alternativo a quello occidentale, ma anche come espressione di un modello di vita, di un ethos che, partendo dalla consapevolezza della propria condizione sociale, intendeva superare l’egemonia culturale del capitalismo per raggiungere una nuova armonia umana e sociale.

Il primo terremoto fu causato dai fatti di Budapest. La rivolta avvenuta in Ungheria, territorio all’epoca sottoposto al governo sovietico, dovuta a un forte malcontento popolare e a molteplici problematiche di carattere economico e sociale, mise in discussione il modello di sviluppo socialista palesandone gli ineluttabili limiti in materia di sviluppo e di benessere. L’intervento di Mosca fu devastante. La notte del 4 novembre 1956 l’esercito russo marciò su Budapest, dimostrando al mondo intero la veemenza e la crudezza di cui era capace per mantenere il proprio ordine costituito. I comunisti italiani si divisero: Togliatti sposò la linea filosovietica, mentre Giuseppe Di Vittorio e altri 101 intellettuali comunisti criticarono aspramente l’intervento armato. La rottura pareva imminente ma alla fine non ci fu. La lotta intestina al Partito comunista italiano in quegli anni fu però il primo segno della rottura della quarantennale luna di miele con i bolscevichi.

Poi ci fu la morte di Palmiro Togliatti, avvenuta il 21 agosto del 1964 a Yalta. Ai suoi funerali, similmente a quanto succede in occasione dei funerali dei leader che incarnano lo spirito dei loro tempi, fu decretata la fine di un’epoca: Togliatti era l’ultimo leader in grado di evitare, soprattutto per via della sua forte influenza nel partito e per i saldi rapporti con Mosca, una svolta filoccidentale del Pci. Di rilevanza fondamentale è poi la pubblicazione postuma di uno scritto dello stesso Togliatti, denominato poi il Memoriale di Yalta, sul numero di Rinascita del 5 settembre 1964, in cui esprimeva asperrime critiche all’Urss e teorizzava il bisogno di riforme in senso fortemente democratico.

Oltre un decennio più tardi, la Primavera di Praga, fattasi realtà nel gennaio del 68’, fu l’evento che più di tutti impose una critica severa (ancor più del cosiddetto «rapporto Chruščëv» del 1956) al modello di libertà socialista sviluppato in Russia. Essa fu espressione di un forte movimento di liberalizzazione democratica interna al partito comunista cecoslovacco, indirizzata ad allentare i freni eccessivi imposti da Mosca. Dopo il fallimento dei negoziati, il 20 agosto del 1968 l’esercito del Patto di Varsavia, con alla testa le truppe sovietiche, marciò sulla Cecoslovacchia, inscenando una durissima repressione. La risposta del Partito comunista italiano e degli altri partiti comunisti europei fu di ferma condanna. In quei giorni maturò il presupposto storico che avrebbe poi condotto, circa un decennio più tardi, allo «strappo di Mosca».

L’ultimo evento che sentenziò la fine del sogno bolscevico fu il crollo del Muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre 1989, vero prodromo della fine dell’Unione sovietica. Per i comunisti europei cadeva un totem: l’ultimo (e l’unico) appiglio storico per sostenere che il progetto marxista, sebbene con qualche aggiustamento, poteva ancora realizzarsi. Solo tre giorni più tardi, in occasione del 45° anniversario della battaglia di Porta Lame, il segretario Achille Occhetto annunciava l’inizio del percorso che avrebbe portato allo scioglimento del Partito comunista italiano.

Al termine della seconda metà del Novecento, in larga misura, furono due i fenomeni che imposero il crepuscolo del comunismo: l’affermazione definitiva e ineluttabile dell’egemonia culturale capitalista attraverso la trasformazione in senso consumistico della società occidentale, e la repentina metamorfosi del modello bolscevico, palesatosi in tutte le sue storture liberticide e in tutte le sue fallacie economico-sociali, fino al suo definitivo crollo, avvenuto il 26 dicembre del 1991.

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Scandagliate le cause della caduta del comunismo novecentesco, rimangono da comprendere le ragioni storiche che hanno portato alla nascita della sinistra contemporanea.

Il lasso temporale che va dal 1992 ad oggi è segnato da crisi di carattere politico, economico, sanitario e militare (Tangentopoli, la crisi finanziaria del 2008, il Covid-19, la guerra in Ucraina), e dall’avvento di una metamorfosi della sinistra europea che viene sotto il nome di «terza via». La terza via di Tony Blair è la rappresentazione icastica del modello di sinistra affermatosi anche in Italia: il superamento dell’ideologia, sia essa marxista o di carattere cristiano-conservatore, le gravi difficoltà economiche in cui versa il Vecchio Continente, il fallimento della socialdemocrazia e la diffusa sfiducia nei confronti della classe politica impongono di superare il concetto di sinistra e di destra per assumere scelte di carattere pragmatico e utilitaristico. La tecnocrazia o, per meglio dire, la deriva tecnocratica che alcune compagini della popolazione hanno assunto negli ultimi vent’anni è il corollario del fallimento della dimensione politica, percepita come espressione di fazioni veteroideologiche incapaci di assumere decisioni adeguate allo spirito dei tempi e alle necessità contingenti.

Anche la sinistra italiana di oggi afferma la sua forte vocazione utilitaristica, superando la critica al sistema capitalista e spostando il fulcro delle sue battaglie in ambiti di carattere culturale anziché economico (aspetto esaminato in maniera esemplare da Lucio Baccaro). Il crollo dell’ideologia ha generato un vuoto mai colmato. L’elaborazione ideologica, lungi dal rappresentare una qualsivoglia forma di dogmatismo universalistico, è qui intesa come teorizzazione sistemica e organica delle riforme da attuare e dell’universo di valori da edificare, quindi espressione della vera strada maestra da seguire per comprendere verso quali orizzonti indirizzare le proprie lotte.

L’assenza di un’ideologia ha comportato l’affermazione dei personalismi politici e delle leadership superomistiche (di cui i più validi esempi sono il berlusconismo e il renzismo), oltre che il superamento dell’interesse di partito o della causa per sostituirlo a un interesse immediato, pragmatico e tangibile. Gli attori politici della sinistra italiana sono come disorientati innanzi alla complessità della società odierna e, privi di una bussola, sono indotti impulsivamente a concentrarsi su singole campagne, su rivendicazioni settoriali; le quali assumono anche la parvenza della giustizia sociale, ma che poi rovinano in una condizione d’inestinguibile inanità, data l’assenza di una visione prospettica di medio o lungo periodo.

Sullo sfondo campeggia poi la complessa vicenda della digitalizzazione e della modificazione delle abitudini di vita sociale (esempi plastici sono lo smart working e la didattica a distanza). L’acuta analisi di Marco D’Eramo ha evidenziato l’inadeguatezza dei corpi intermedi nell’affrontare una nuova forma di modello sociale, fatto di una disaggregazione e di una dispersione dialogica endemica; essi sono incapaci oramai di svolgere il ruolo di contropotere che si erano ritagliati nel secolo scorso, e assistono inermi a un dilagante spopolamento dei loro iscritti.

Se l’essenza della contestualizzazione storica, lavoro ineludibile per i nostri intellettuali, è anche la capacità di comprendere la portata dei cambiamenti in corso, allora è bene iniziare una lunga riflessione sugli effetti che la «rivoluzione digitale» potrebbe generare nella società del prossimo futuro.

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L’ultimo punto da trattare riguarda il futuro. La sinistra è irrimediabilmente frammentata, vedendosi addirittura divisa in tre partiti post-ideologici (l’Alleanza verdi-sinistra, il Movimento 5 stelle e il Partito Democratico[2]), per quanto riguarda la dimensione istituzionale, e in una galassia disorganica civica e associativa (condivisibile la divisione di Domenico Masi in compagni ortodossi, piccolo borghesi e istintivi), per quanto attiene alla dimensione popolare non istituzionalizzata. Ognuna di queste compagini rappresenta istanze non negoziabili per la sinistra popolare, ognuna di esse è a suo modo indispensabile per generare una nuova dimensione politica organica. La sconfitta elettorale del 25 settembre scorso e lo scenario politico che si impone  nelle regioni (Lazio e Lombardia in particolar modo) hanno imposto una profonda riflessione. Ognuno dei partiti afferenti all’area progressista gode di una compagine di voti che non sono sufficienti singolarmente ad ottenere la maggioranza relativa, e la realizzazione di una nuova strategia si fa necessità più che utopia.

La sinistra del futuro nel suo momento fondativo deve assicurarsi di essere un contenitore abbastanza spazioso da non escludere nessuna delle realtà attualmente esistenti. L’unico modo per superare le attuali divisioni è avviare una procedura costituente trans-partitica che miri, al termine di essa, alla dissoluzione dei partiti attuali per giungere ad un’unica nuova realtà organica. Una procedura di questo genere sarebbe un momento di nuova genesi in cui la votazione popolare avrebbe la possibilità di eleggere dei rappresentanti incaricati di costituire l’Assemblea costituente della nuova sinistra italiana. Ciò permetterebbe l’apertura concreta alla dimensione civica e ai movimenti sociali e culturali, che sino ad oggi hanno continuato ad operare nella società e che rappresentano una compagine maggioritaria, e avrebbe anche il pregio di avviare un lavoro collettivo per il raggiungimento di una dimensione altra, dell’alterità.

Il principale obbiettivo dell’Assemblea costituente non deve essere solo quello di dare ad un nuovo partito una costituzione che faccia da surrogato ai precedenti statuti, ma quello di assicurare una struttura organica di carattere complesso, dotata di organi di garanzia, basata sulla divisione dei poteri e delle attribuzioni, e munita di strumenti di partecipazione diretta per permettere agli iscritti di incidere sulle scelte politiche del partito. Enzo Traverso descrive con accuratezza la distinzione tra corpus politicus e corpus naturalis degli organi di potere[3]; la struttura è il corpus politico, ed è l’ossatura su cui si regge ogni formazione sociale organizzata; il corpus naturalis, invece, è espressione dell’individuo che per un periodo di tempo limitato è deputato alla gestione della struttura. La divisione tra struttura e individui che sono incaricati di gestirla è uno dei pilastri della continuità politica, nella misura in cui assicura che il crepuscolo dei singoli leader non comporti lo sfaldamento di interi apparati di partito.

Ma un processo costituente resta caduco se si tralascia la dimensione ideologica e la visione sistemica. La costituente serve a determinare le norme che permetteranno a tutte le compagini di convivere in maniera proficua, però senza una classe intellettuale che s’incarichi di lavorare alla direzione da intraprendere si cadrebbe nuovamente in una dimensione di degradante disorientamento. Per questo motivo, cogliendo in pieno la lezione di Antonio Gramsci sul ruolo degli intellettuali, è necessario che alla genesi delle regole di convivenza proceda di pari passo l’elaborazione collettiva di una nuova dimensione ideologica organica, capace realizzare la convivenza del bisogno di eguaglianza che si alza dalle fasce più deboli e l’inestinguibile ethos liberale che la società occidentale ha acquisito in materia di diritti civili.

Si obbietterà, in maniera senz’altro realistica, che nessun partito accetterebbe mai di dissolversi per confluire in una nuova cosa, in un nuovo organo. Questo genere di processi molto spesso tendono a trasformarsi in corso d’opera in delle vere e proprie assimilazioni, compiute dai partiti più grandi ai danni dei più esigui. Per queste ragioni il cambiamento deve, questa volta sì, partire dalla base elettorale, da tutti quei compagni che sebbene iscritti a partiti diversi, si riconoscono ancora come compagni di lotta, come membri della stessa famiglia politica. Gli elettori e gli iscritti hanno una buona dose di responsabilità nella frammentazione che è andata consumandosi negli ultimi anni, ed è venuto il momento che forniscano il loro contributo attraverso un’esortazione all’unità, all’alterità. Una rivendicazione popolare che si muova all’unisono, travalicando i confini partitici e che giunga dritta a scuotere le classi dirigenti della sinistra d’oggi.

Che si scenda nelle piazze non per protestare contro la destra italiana, ma per proporre un’alternativa alle divisioni che l’hanno portata al potere. Per la sinistra italiana s’impone indefettibile il dovere di andare oltre la sua stagnazione pluripartitica, e ritornare ad essere qualcosa di altro. L’alterità.

 

[1] Antonio Gramsci sottolinea con chiarezza nei Quaderni del carcere la netta differenza che intercorre tra comunisti e cattolici sul tema della povertà. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 2014.

[2] La critica alle problematiche intrinseche al Partito Democratico viene volontariamente sorvolata per ragioni di uniformità sintattica e di economia narrativa. Volendo però lasciare una nota a margine, si evidenziano i troppo invadenti potentati elettorali territoriali (di cui è un emblema De Luca in Campania) che hanno esercitato un’egemonia pressoché incontrastata all’interno del partito, condannandolo talvolta all’immobilismo o alla frammentazione. Si veda un datato ma pregante articolo di Pasquale Quaranta su Italia Oggi del 2016, sulla metamorfosi delle correnti e sull’affermazione delle aree culturali, https://www.italiaoggi.it/news/i-vari-potentati-presenti-nel-pd-2141346.

[3] Anche l’organizzazione statuale è basata sulla divisione tra corpus politicus e corpus naturalis del potere, dal momento che è necessario dividere la struttura dagli individui che dovranno gestirla. Enzo Traverso, Rivoluzione 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2021.

 

Domenico Birardi, studente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari



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