Il “pilota automatico” di Maastricht e la pessima legge di bilancio della coppia Meloni- Giorgetti

Il sistema Maastricht è stato concepito negli anni 80 e 90, nel pieno dei processi di globalizzazione finanziaria, e quindi nella più ortodossa e rigida ideologia liberista, e che lascia completamente alla mercé dei mercati finanziari le decisioni sulle finanze nazionali dei paesi dell'eurozona. Sono i mercati a decidere i tassi di interesse sui debiti nazionali degli Stati dell'euro: quindi i mercati decidono anche e soprattutto le politiche fiscali pubbliche, mentre i parlamenti e i governi eletti dai cittadini sono esautorati.

Enrico Grazzini

L’Italia – come del resto tutti i paesi dell’eurozona – è diretta sul piano economico da un “pilota automatico” che la costringe alla più cieca e testarda austerità in direzione esattamente contraria e opposta allo sviluppo economico e al benessere dei cittadini. La Legge di Bilancio presentata dal governo di Giorgia Meloni per il 2024 non sfugge a questo pilota-robot programmato trent’anni fa (1992) quando il capo del governo di allora Giulio Andreotti e il suo ministro del Tesoro, Guido Carli, apposero la loro firma al Trattato i Maastricht. Il pilota automatico è quello dei mercati finanziari che sottoscrivono i debiti pubblici: è un pilota che punta sempre e comunque alla più rigida e rovinosa austerità. In generale, infatti, non è nell’interesse dei mercati che gli Stati superino le loro difficoltà finanziarie con politiche espansive ed efficaci: i mercati si nutrono del debito pubblico e quindi il loro principale interesse non è la riduzione dei debiti ma la contrazione delle spese pubbliche in modo che siano comunque garantite le risorse fiscali per pagare gli interessi. E questo anche a costo di frenare o contrarre le economie nazionali. Non per caso il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha spiegato che “a me fa paura non tanto il giudizio della Commissione dell’Unione Europea ma la valutazione dei mercati che comprano il nostro debito pubblico. Tutte le mattine ho il problema di vendere il nostro debito pubblico e devo essere accattivante per convincere gli investitori ad avere fiducia”. In questo contesto non importa che il governo sia di destra-destra, come è il governo Meloni, o di centro o di centro-sinistra: Mario Draghi già nel 2013, quando era a capo della Banca Centrale Europea, prima delle elezioni italiane di quell’anno aveva dichiarato apertamente che. “L’Italia proseguirà sulla strada delle riforme indipendentemente da ogni esito elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota automatico”. Democrazia o non democrazia, sono i mercati che comandano.

Anche questa Finanziaria sarà dettata dall’esterno, non solo e non tanto da Bruxelles e Francoforte, ma soprattutto dai mercati: come ha detto Giorgetti, la gestione dei conti sarà all’insegna della serietà e del buonsenso” (???). Cioè seguirà i dettami dell’austerità. Nessuna novità e soprattutto nessuna svolta. Grazie al dominio dei mercati sugli Stati dell’eurozona, dominio consacrato e santificato a Maastricht, anche con l’attuale governo di destra che aveva promesso mare e monti, miracoli e svolte decise rispetto al governo Draghi e a tutti quelli precedenti, il paese continuerà a crescere nella migliore delle ipotesi dello “zero virgola”.
La Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (cosiddetto NADEF) spiega che, se tutto andrà bene, nei prossimi tre anni fino al 2026, il PIL crescerà solo intorno all’1% ogni anno; il debito pubblico rimarrà costante intorno al 140% rispetto al PIL, una quota stratosferica e insostenibile; dal prossimo anno le spese pubbliche al netto degli interessi cominceranno a essere inferiori agli incassi fiscali (saldo primario positivo) ma, nonostante questo surplus, a causa della crescita degli interessi sul debito pubblico, il deficit continuerà a essere superiore al 3% dettato da Maastricht fino al 2026 compreso. Un paese con un debito e un deficit così alti – e un paese il cui debito è denominato in una valuta che non controlla, quale è l’euro per l’Italia – è sempre ricattato dai mercati. L’Italia con l’euro è solo posizionato un po’ meglio dell’Argentina che ha un debito in dollari. Quando i tassi di interesse crescono, come sta accadendo dal 2022, i debiti denominati in valuta estera diventano facilmente insostenibili.
Alle banche nazionali ed estere l’Italia pagherà ogni anno per il suo debito pubblico circa 80-90 miliardi di euro, fino a pagare nel 2026 la somma incredibile di 100 miliardi: questo significa che con le nostre tasse ogni anno versiamo ai mercati per gli interessi (crescenti) sul debito di Stato circa il 10% della spesa pubblica totale senza interessi (870 miliardi). Una follia. Per avere una pietra di paragone, tutta la spesa italiana per l’istruzione è pari a circa 70 miliardi. Nessuno dei grandi media ve lo dice, ma a causa del debito pubblico paghiamo di più ai mercati – cioè alle grandi finanziarie e ai ricchi creditori – di quanto paghiamo per l’istruzione. L’Italia è in deficit per pagare gli interessi su un debito che non diminuisce mai, ma che, anzi, negli anni finora è sempre cresciuto, e che rischia di crescere ancora. Una classica situazione fallimentare.

L’Italia naviga a vista strozzata dai mercati finanziari mentre tutta l’Europa, colpita dalla guerra in Ucraina, è sull’orlo della recessione. La Germania è già in recessione ma l’Italia è considerata il vero anello debole della catena. Se però il nostro paese avesse mantenuto sovranità monetaria avrebbe già pagato da molti anni i creditori esteri grazie alla svalutazione della moneta; e poi, senza il peso dei debiti, avrebbe ripreso la sua attività produttiva generando sviluppo e benessere, proprio come successe nel 1992, quando il Sistema Monetario Europeo crollò e la lira precipitò sui mercati, ma poi dopo uno o due anni l’Italia riprese a correre.
Oggi invece il Bel Paese è incatenato a una moneta che non controlla e i debiti continuano ad aumentare: ma questo accade non perché gli italiani spendono troppo nel welfare – la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL è in linea con quella della UE – ma solo ed esclusivamente per il peso degli interessi pagati ogni anno al sistema finanziario. Il pilota automatico funziona per arricchire e gonfiare i profitti della grande finanza. È per questo motivo che un sistema squilibrato e rigido come l’euro – infatti un unico tasso di interesse, una unica politica monetaria e un unico tasso di cambio per 19 paesi molto diversi tra loro è un’autentica follia! – continua a non cadere e a funzionare: perché è interesse della grande finanza mantenerlo in vita.
Non bisognerebbe mai dimenticare che questo sistema è stato concepito negli anni 80 e 90, nel pieno dei processi di globalizzazione finanziaria, e quindi nella più ortodossa e rigida ideologia liberista, e che lascia completamente alla mercé dei mercati finanziari e ai loro movimenti speculativi le decisioni sulle finanze nazionali dei paesi dell’eurozona. Sono i mercati a decidere i tassi di interesse sui debiti nazionali degli Stati dell’euro: quindi in ultima istanza i mercati decidono anche e soprattutto le politiche fiscali pubbliche, mentre i parlamenti e i governi eletti dai cittadini sono esautorati. La Commissione UE in questo quadro può solo cercare di fare in modo che i paesi si aggiustino alle esigenze e agli imperativi dei mercati in modo che l’euro, e forse anche tutta la Unione Europea, non crolli.

Il sistema è fondato sulla dittatura dello spread, ovvero sulla completa libertà dei capitali di muoversi istantaneamente speculando da un mercato all’altro. Keynes chiamava la libertà dei capitali con il suo vero nome: “fuga di capitali”. La libertà dei capitali e della finanza destabilizza le economie e amplifica le divergenze tra i paesi, invece di spingere verso la convergenza. Il sistema dell’euro è un sistema strutturalmente fondato sulla deregolamentazione, lo smantellamento dello stato sociale, la svalorizzazione del lavoro e la subordinazione degli Stati e dei capitali più deboli rispetto a quelli più forti. In questo modo diventa impossibile uscire dalla crisi.
In più la BCE di Christine Lagarde continua a mantenere una politica di tassi alti di interesse, cioè di costo del credito e del debito elevato, che strozza l’economia. Invece di proteggere i paesi dell’euro dai movimenti speculativi e di dare ossigeno all’economia, Lagarde insegue la politica dei tassi in crescita della FED, la banca centrale americana, provocando una stretta sui crediti, l’aumento dei mutui, e rischiando di fare precipitare tutta l’Europa, come già la Germania, in un’ulteriore dura recessione.
Le politiche monetarie e fiscali europee sono assurdamente restrittive: in più si verifica la completa assenza di una politica industriale comune a livello europeo, a partire dall’energia. Gli industriali, la stessa Confindustria, lamentano che non esistono sufficienti fondi comuni europei per le energie alternative o per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della microinformatica, ovvero per il futuro delle economie avanzate. Nulla di paragonabile alle politiche industriali messe in campo dai governi americani e cinesi finanziate con migliaia di miliardi di dollari o di yuan. L’Europa dipende sempre di più dagli Stati Uniti per le tecnologie e la difesa e dai paesi arabi per il petrolio e il gas.
In questo contesto continua inesorabilmente (a meno che la situazione non precipiti improvvisamente) il graduale declino dell’Italia, che è il vero anello debole dell’Europa: non a caso attualmente il mercato finanziario fa pagare al nostro paese un tasso di interesse sul debito più alto di quello che fa pagare perfino alla Grecia. A tutto ciò si aggiunge la disastrosa politica economica del governo Meloni, non in grado di fare avanzare il PNRR, l’unico programma di investimenti che avrebbe potuto e potrebbe risollevare l’Italia.

La Legge Finanziaria per il 2024 è minimale e consta di circa 20-25 miliardi di cui 15 in deficit. Vengono confermati il taglio del cuneo fiscale, la riduzione dell’Irpef per i ceti medio-bassi e i bonus per le spese di gas e luce. Sono ancora in forse l’aumento delle pensioni minime a 700 euro e il ponte sullo stretto di Messina, così caro alle potenti lobby affaristiche del nord e del sud Italia. Ci saranno anche pochi soldi per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici, ma le spese sulla sanità verranno ridotte. Si ipotizza il taglio delle tasse sugli straordinari. Sembra che la politica del governo sia quella di condannare le classi più povere con l’abolizione del reddito di cittadinanza, e di puntare invece a ottenere i favori elettorali dei dipendenti fissi e della classe media. L’obiettivo non dichiarato è di evitare la rivolta sociale, e anche quello di conquistarsi la neutralità, se non la simpatia, dei sindacati più supini, come la CISL.
Ma le coperture di questa finanziaria sono ancora incerte. Così si ricorre alle solite promesse sulle privatizzazioni, cioè sulla svendita del patrimonio pubblico. Il nuovo scenario programmatico prevede proventi da privatizzazioni pari ad almeno l’1% del pil nel 2024-2026, cioè circa 20 miliardi. Ammesso e assolutamente non concesso (è vero il contrario) che le privatizzazioni siano un fatto positivo per il bilancio pubblico, nessun investitore crede che il governo riuscirà a incassare 20 miliardi dalle dismissioni. Non a caso la manovra del governo è stata male accolta dai mercati.
Il PNRR avrebbe dovuto risollevare l’Italia: ma procede a rilento perché la pubblica amministrazione è ormai ridotta al lumicino sia sul piano quantitativo che qualitativo e non sa più gestire i progetti di investimenti pubblici che potrebbero riportare l’Italia in cammino. La spesa pubblica è soggetta alla spinta delle grandi lobby economiche, che vogliono il Ponte sullo Stretto e la TAV, a detrimento delle ben più necessarie opere pubbliche locali per la manutenzione del territorio e per il risparmio energetico decentrato. La scelta del governo Meloni è stata quella micidiale di togliere 16 miliardi ai territori, ai comuni, e di darli invece alle grandi stazioni appaltanti o sotto forma di crediti di imposta, che però hanno un impatto potenziale molto minore sull’occupazione e sugli investimenti pubblici. Le lobby prevalgono sull’interesse pubblico.
In conclusione: con le regole di Maastricht la crisi continuerà fino a precipitare, anche se forse il nuovo Fiscal Compact sarà un po’ più flessibile del vecchio. I mercati continueranno a dominare e a svenare i paesi, fino al prossimo più che prevedibile grande crash. Ma se un paese cerca di sottrarsi al dominio dei mercati, questi gli si rivoltano contro e minacciano di affondarlo completamente. Bisognerebbe dunque riformare innanzitutto Maastricht: perfino Mario Draghi e molti altri proclamano apertamente che ormai occorre rivedere non solo il Fiscal Compact – che deve essere riformulato entro quest’anno per rientrare in vigore riveduto e corretto nel 2024 – ma anche il Trattato di Maastricht. Prima delle elezioni europee nulla di veramente sostanziale però si muoverà. Anche dopo le elezioni europee, che probabilmente vedranno la crescita di conservatori e ultranazionalisti, non è detto che i Trattati vengano modificati in meglio. La situazione europea è realmente tragica, e lo è nel senso greco del termine, come se non ci fosse via di scampo: tutte le alternative sembrano infatti portare con alta probabilità a nuovi disequilibri e conflitti, se non a rovinose crisi.
Occorrerebbe riformulare radicalmente il sistema, creare una moneta non unica, come l’euro, ma comune come il Bancor, la moneta internazionale proposta da J.M. Keynes a Bretton Woods (dove invece si impose il sistema dollarocentrico). Occorrerebbe realizzare un sistema monetario europeo composto da varie monete nazionali e da una unica “camera di compensazione” come la International Clearing Union auspicata da J.M Keynes per bilanciare i saldi delle bilance dei pagamenti. Occorrerebbe regolamentare severamente i movimenti di capitale, creare un sostanzioso fondo fiscale comune europeo e rendere comuni una parte dei debiti degli Stati dell’euro. Occorrerebbe una politica fiscale decisa di comune accordo: ma finché nell’eurozona ci saranno paradisi fiscali come il Lussemburgo, l’Olanda, l’Irlanda, Malta, Cipro, le politiche fiscali comuni sono una utopia completamente velleitaria.
Occorre prendere atto che finora tutte le proposte di riforma dell’euro e della UE avanzate in questi anni – anche quelle minime – sono naufragate. La Germania ha sempre imposto il pareggio di bilancio pubblico e il dominio dei mercati sui bilanci dello Stato: è difficile che attualmente, essendo in recessione e in difficoltà strategica, voglia riformare il sistema e condividere fondi fiscali comuni per la ripresa europea. Anche la felice esperienza del Fondo comune europeo contro la crisi del coronavirus (Next Generation EU) è stata dimenticata e sepolta.

CREDITI FOTO: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI



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