La piccola grande storia dei combattenti di sinistra nella resistenza ucraina

Continuiamo la storia Solidarity Collectives, un’organizzazione formata da internazionalisti di sinistra che contribuiscono a trecentosessanta gradi alla resistenza ucraina, anzitutto sul piano umanitario.

Davide Grasso

Questo articolo sulla resistenza in Ucraina segue “La doppia resistenza cui è chiamata la sinistra ucraina”.
Incontro Sergey dei Solidarity Collectives nella sede della Rosa Luxemburg Stiftung di Kiev. Mi trovo qui con amici e amiche dei Municipi sociali di Bologna, che visitano l’Ucraina in guerra per la terza volta. Il ritratto della rivoluzionaria polacca campeggia in fondo all’ingresso. Sergey è anarchico, ma intrattiene buone relazioni con tutte le persone che contestano l’attuale organizzazione sociale dell’Ucraina e le sue derive verso il nazionalismo estremo. Dall’inizio dell’invasione si prodiga a sostenere la resistenza militare e a dare l’opportunità agli ucraini e agli internazionalisti di sinistra di combattere. I Solidarity Collectives si chiamarono inizialmente, dopo l’invasione, Operation Solidarity. Questa organizzazione aiutò i primi militanti libertari che volevano partecipare alla resistenza a formare un’Unità di Difesa Territoriale.

Non fu difficile, ricorda Sergey, poiché in quei primi giorni di guerra regnava il caos e Zelesnky aveva detto che chiunque avesse voluto resistere avrebbe avuto dallo stato un’arma per farlo. Si erano formate in tutto il paese, racconta, file interminabili di civili disposti ad attendere ore al freddo per ottenere il kalashnikov che avrebbe potuto portarli anche verso il destino più estremo. È in quei giorni che la storia dell’Ucraina è cambiata, e per questo l’Ucraina oggi non è più la stessa del 1991, ma neanche la stessa del 2014. Le nazioni non si fondano sul sangue né sulla lingua, ma sul senso di coesione per un’indipendenza fondata sulla lotta. L’Ucraina è stata definitivamente partorita in quelle file di gente disposta a combattere nel 2022. Il secolo precedente non è stata che una gestazione.

In quelle file c’erano anche migliaia di persone che avrebbero voluto un maggiore dialogo con le autodichiarate Repubbliche popolari di Donesk e Luhansk dopo il 2014. C’erano anche molti che non avevano partecipato alle proteste di Maidan o che le avevano avversate. Molte di quelle persone parlavano russo, anche in famiglia, e alcune avevano anche una qualche nostalgia per l’Unione Sovietica. L’invasione russa non ha infatti compattato soltanto la destra ucraina, ma l’intera popolazione ucraina, di qualunque tendenza politica (fanno eccezione i supporter ucraini dell’altrimenti odiato presidente russo, che sembrano essere solida maggioranza solo a Donesk). Anche gli apolitici, i qualunquisti e i progressisti hanno smesso di credere all’affidabilità di Putin la notte dell’invasione. Neanche se il tentativo putiniano di occupare Kiev avesse avuto successo l’Ucraina avrebbe mai potuto essere governata da politiche decise a Mosca. Se l’Ucraina, come dice Putin, non fosse mai esistita, sarebbe stato lui, nel 2022, a crearla.

In questo processo c’è stato fin dall’inizio il rischio che la sinistra scomparisse sotto il peso del legame storico tra Russia e passato comunista, dell’associazione indebita ma diffusa tra Russia e Urss, del credito e della centralità militare conquistata dai banderisti dal 2013. La scelta sembrava essere all’inizio tra le unità ordinarie apolitiche dell’esercito e della Difesa territoriale e il Battaglione Azov, formato e diretto dai fascisti di Pravyi Sektor. Sergey e altri si riunirono e stabilirono (1) che la resistenza e la causa nazionale ucraine non potevano essere lasciate alla destra; (2) che soltanto chi avesse fatto parte della resistenza avrebbe avuto un ruolo e una voce nell’Ucraina successiva all’invasione.

La loro rabbia e le loro emozioni andavano, come quelle di tutti, verso la difesa delle loro città e dei luoghi dove erano cresciuti, ma andava in quella direzione anche la loro razionalità politica. Attraverso contatti con un ufficiale progressista dell’esercito istituirono la brigata internazionale libertaria che prese posizione nel sud dell’Oblast di Kiev. Questa collocazione, tuttavia, rese il progetto di corto respiro. L’unità era impossibilitata a combattere nella difesa della capitale, presidiando i suoi limiti meridionali mentre il nemico cercava di penetrare da nord. Dopo la vittoria di Kiev e i massacri di Bucha, il ripiegamento dell’esercito russo a est rendeva il teatro delle operazioni ancora più lontano.

È impossibile stabilire, al momento, se la permanenza forzata dell’unità a Kiev sia stata dovuta a procedure standard o a un calcolo politico dell’esercito. L’unità intanto cresceva, superando i 50 effettivi, nonostante i comandanti rigettassero decine di adesioni dall’estero e dall’Ucraina per preservare la compattezza politica e militare del gruppo. Nell’unità c’erano uomini e donne, anche se queste ultime in netta minoranza. Molti gli internazionalisti, soprattutto russi e bielorussi. Tuttavia l’impossibilità di partecipare ai combattimenti condusse l’unità a sciogliersi e i suoi componenti ad arruolarsi in diversi battaglioni dell’esercito regolare. Infine, a due mesi dall’inizio dell’invasione, Operation Solidarity venne sostituita da Solidarity Collectives, una struttura in grado di permettere agli internazionalisti e ai progressisti di contribuire a trecentosessanta gradi alla resistenza, anzitutto sul piano umanitario. I combattenti internazionalisti di sinistra sono da allora riuniti nel Comitato internazionalista.

Oltre alla distribuzione di aiuti logistici e umanitari ai civili nelle zone di guerra, i Solidarity Collectives offrono supporto logistico, informativo e psicologico ai combattenti del Comitato internazionalista, che si arruolano oggi nelle unità ordinarie dell’esercito ucraino. Questo significa che non ci sono unità rivoluzionarie, ma soltanto militanti rivoluzionari distribuiti nelle unità dell’esercito regolare. Significa anche che gli internazionalisti che oggi intendono contribuire alla resistenza devono arruolarsi nella Legione internazionale, a sua volta suddivisa in formazioni nazionali il cui carattere politico è vario e spesso egemonizzato da militari di estrema destra. Mentre la sezione bielorussa della resistenza, ad esempio, non presenta questo problema in modo particolare, ci raccontano, quella russa è diretta da neonazisti.

Per questo nell’inverno del 2023 tre internazionalisti – Finbar Cafferkey dall’Irlanda, Dmitry Petrov dalla Russia e Cooper “Harris” Andrew dagli Stati Uniti – hanno deciso di promuovere la costituzione di un’unità internazionalista di sinistra al fronte. Affrontato l’addestramento con individui di tutt’altro indirizzo politico, compresi elementi di destra, sono però stati uccisi nella prima missione che hanno dovuto affrontare. Sergey, che li ha conosciuti bene e ha collaborato con Finbar a lungo, ritiene che la missione in cui sono caduti fosse propedeutica all’autorizzazione dell’esercito a costituire un’unità autonoma. Finbar, Dmitry e Cooper non sono riusciti nel loro intento, caduti sul fronte come sempre può accadere in una guerra. L’ostinazione con cui hanno cercato di fare spazio a idee luminose ed ugualitarie in una resistenza dove il neofascismo è ben presente (anzitutto nelle file degli invasori) si staglia in contrasto con l’attitudine all’inazione e alla mera lamentela di gran parte della sinistra contemporanea.

A Odessa alcuni ragazzi che sostengono i militari di sinistra nelle unità impegnate al confine con la Transnistria e a Kherson ci dicono che ritentare di compattare i combattenti progressisti in una sola unità sarebbe rischioso. Se un’unità del genere cadesse sotto la pioggia di mortai che ha fermato Finbar, Dmitry e Cooper, l’intera resistenza di sinistra potrebbe essere liquidata. Credono sia al momento meglio che molte unità regolari abbiano al proprio interno combattenti in grado di promuovere una visione alternativa del futuro dell’Ucraina. Hanno disegnato un grande murales con i volti dei tre internazionalisti caduti il 19 aprile e, sopra le loro teste, la scritta: “Combattenti”. Raccontano di come Dmitry fosse uno studioso e un traduttore che viaggiava tra Russia e Ucraina per partecipare ad ogni protesta di piazza, compresa Maidan. Il ricordo che hanno di lui è toccante. Per loro è un onore, dicono, che internazionalisti delle Ypg curdo-siriane come Dmitry e Finbar abbiano contribuito anche alla resistenza del loro paese. Ci sono tanti combattenti internazionali con un “Rojava background”, dicono. C’è da credere che i giovani progressisti ucraini di oggi e di domani non potranno dimenticare facilmente i pionieri dell’alternativa politica nel loro paese, impegnati a proteggere la decenza e l’onore della sinistra in un paese a lungo oppresso e oggi abbandonato dalla sinistra, a costo della propria vita.

CREDITI FOTO Facebook | Колективи Солідарності • Solidarity Collectives: foto dei tre militanti caduti il 19 aprile, da sinistra: Dmitry Petrov, Cooper “Harris” Andrew  e Finbar Cafferkey.



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