La poesia tragica e civile di Nadia Pucci

Di fronte all’esperienza immane del dolore, c’è chi precipita nel fideismo, chi nell’irrazionale. Nadia Pucci, nel suo recente volume di poesie e prose, trasforma il dolore in dimensione cosmica e in legame umano e comunitario.

Luigi Alfieri

In un recente volumetto poetico di Nadia Pucci (Sul davanzale del mondo, Il Vicolo, Cesena 2021) si riflette l’esperienza più tragica e dolorosa che possa accadere a un essere umano, la scomparsa di una figlia ancora bambina. Ma la poesia universalizza quest’esperienza, la proietta su uno sfondo universalmente umano, primordiale quanto eterno. Immediata è l’evocazione della tragedia greca e del mito. La piccola Giulia è la Kore «rapita / sul ciglio del cielo / mentre fiori coglieva» (p. 9). E l’urlo di dolore evoca forze eterne e oscure:

Erinni chiamo
E la Gorgone Medusa
E le Arpie
Dalle zampe d’uccello
Terribili a raccolta

La poesia certamente non consola un simile dolore. Non lo lenisce, non lo allontana. Ma lo trasmette, lo comunica, lo trasferisce nel flusso eterno di ciò che è per eccellenza umano, il linguaggio. Il linguaggio è anche la presentificazione della natura, che in esso cessa di essere orizzonte esterno per diventare vissuto, e vissuto comune. La morte di Giulia è una metamorfosi dell’universo. Non solo una devastazione, piuttosto un’epifania che del dolore estremo fa anche una direzione, un senso di vita, un orizzonte definitivamente conquistato di amore sofferente, ma anche, in qualche modo, vittorioso.

Giulia è scesa come grumo d’acacia
Rosicchiando nuvole basse
Forti ci ha reso e fedeli (p. 17).

Grazie al linguaggio poetico, il dolore può essere “lavorato”, può diventare quasi un manufatto artistico, gelido e puntuto, ma come guarito dal rischio di cadere nel silenzio mortale o nell’urlo senza senso.

Nell’Albero di Neve al tornio
ho lavorato il dolore, l’ho
piagato a larghi pezzi di metallo
lucido perché come travi appuntite
non trafiggesse il cristallo
e le maioliche dei vasi e i vetri
delle vetrine appollaiate
né travolgesse muri […] (p. 21).

Trasformato in dimensione cosmica, o piuttosto come tale riconosciuto, il dolore cessa di essere un fatto privato, apre alla capacità di riconoscere come proprio il dolore degli altri, a una genuina, non dolciastra, compassione. Che non è manifestazione sentimentale, ma riconoscimento, nella solidarietà di fronte al dolore, di un legame umano fondamentale. Che può riguardare persone vicine e conosciute all’interno di una piccola comunità come quella urbinate: è il caso del Giovanni dell’omonima poesia (pp. 33-36), cui offre materia un tragico episodio che a Urbino è noto a tutti, il suicidio di un giovane dolce e geniale, ma lacerato da dolori nascosti. Ma può riguardare altrettanto persone ignote, che vivono in luoghi remoti, come i bambini di Beslan, vittime di uno dei più orrendi episodi di terrorismo (e di controterrorismo altrettanto orrendo).

Ad essi per millenni porterai
aquiloni e cerchi rosa e caramelle
di limone per millenni senza posa
salirai i gradini d’incenso di vento (p.76).

Contrariamente a quella che potrebbe forse essere l’apparenza di un assorbimento nel proprio vissuto, parlerei piuttosto, per Nadia Pucci, di poesia civile. Che è qualcosa di diverso e di più ampio rispetto alla dimensione politica, che pure talvolta affiora, in particolare nella sezione Antiche sono le poesie, cui appartengono anche i versi su Beslan. Poesia civile nel senso che il riconoscimento, il rispetto, l’amore per il dolore degli altri rappresenta il fondamento su cui si può stringere un legame comunitario. Procedendo, per cerchi concentrici, a un allargamento progressivo. Dall’ambiente di una piccola ma gloriosa cittadina di provincia, evocata nella scena della passeggiata di Paolo Volponi e della sua amatissima Giovina al Pincio di Urbino, una scena di cui molti tra gli urbinati meno giovani sono state infinite volte testimoni e in cui si riflettono l’anima e la coscienza di una città (p. 61), fino al mondo più lontano e più cruento, in cui ideologie ottuse e presuntuose distruggono senza neppure accorgersene speranze e destini (si veda ad esempio Nozze in Irak, p. 74). E anche la lingua si allarga, esce dai suoi confini, cerca orizzonti più grandi in cui riconoscersi comunità umana. Alcune poesie, e non le meno belle, sono in francese. E a un certo punto, nei brevi squarci finali, che non sono tanto racconti quanto immagini in parole, la poesia diventa prosa senza mai cessare per questo di essere poesia.

E che la poesia sia dolore che rompe ogni argine e ogni barriera, e così tutto unifica e tutti ci accomuna, Nadia Pucci ce lo dice in versi tra i suoi più belli:

Come un lungo dolore
che si rilascia è la poesia
come un urlo lancinante
senza suono e cangiante
che arrotola le lunghe bandelle
arrugginite del cielo
e fora le case
divelle piazze e strade
apre gli ampi portali
delle dighe e le colorate
cataratte del cielo dirupa a valle
nel silenzio appariscente. (pp. 62-63).

Per concludere con le parole di Paolo De Benedetti, teologo, uomo di fede e lui stesso poeta, che di Nadia Pucci fu estimatore, questo silenzioso urlo poetico esprime «forse il nostro pianto, forse il pianto di Dio».



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