La retorica disonesta di Mattei e Agamben

Lager, leggi speciali e Comitati di Liberazione Nazionale contro la “dittatura sanitaria”? Nell’escalation di metafore e similitudini da parte di alcuni intellettuali, il disprezzo per la storia è superato unicamente dal disprezzo per il ridicolo.

Fabrizio Battistelli

Come i politici sanno bene la retorica è una cosa seria, dato che è l’arte di convincere gli altri. Tanto più lo sanno i politici del nostro Paese, dove la retorica è stata insegnata nelle scuole fino agli anni Venti del Novecento. Anche la retorica può essere una pratica onesta, per esempio quando si tratta di spiegare in buona fede qualcosa. Prendiamo le figure retoriche più frequenti, quelle analogiche come le metafore e le similitudini. Tutto dipende dal parlante, cioè da chi e con quale motivazione le usa. Un modo onesto di usare la metafora è quello di riferire un oggetto sconosciuto a un oggetto conosciuto, con lo scopo di offrire una rapida conoscenza a interlocutori che ne sono privi. In ipotesi un medico intervistato dalla tv all’inizio della pandemia avrebbe potuto dichiarare: “Il Covid-19 per noi è un marziano”; con ciò rendendo l’idea che la scienza conosceva/ipotizzava alcuni connotati e comportamenti di questo virus, ma ne ignorava molti altri, che restavano da indagare.

L’uso disonesto della metafora, invece, è quello di comunicare non un elemento di conoscenza bensì, sotto una simile veste, di contrabbandare un giudizio di valore, che a sua volta implica un atteggiamento e una strategia da seguire. Come ho avuto modo di segnalare su MicroMega all’inizio del lockdown, questo è ciò che è accaduto con la metafora del virus come un nemico e della gestione della pandemia come una guerra, adottata da quasi tutti i leader mondiali (tra le rare eccezioni, da segnalare una donna, Angela Merkel). La metafora del nemico e della guerra è scorretta in quanto assimila un fenomeno di origine naturale (pericolo) che per definizione è inintenzionale, a una minaccia politica che per definizione è intenzionale e perpetrata da un “altro”. Al contrario, se nella diffusione del virus c’è spazio per una soggettività fatta di decisioni non prese o errate, esse sono imputabili essenzialmente a “noi” che abbiamo decurtato la sanità pubblica nei nostri Paesi e non abbiamo fatto nulla per promuovere la sanità a livello globale. Ecco perché la metafora bellica è una modalità di comunicazione disonesta; il che naturalmente non significa che non possa risultare efficace grazie alla sua semplicità e apparente plausibilità.

Se non sorprende l’uso strumentale di spregiudicate tecniche di comunicazione da parte dei governanti, che hanno per imperativo guadagnare il consenso dei cittadini, non per questo è giustificato l’uso disonesto delle figure retoriche da parte di questi ultimi. O, per essere precisi, da parte di alcuni che si presentano come interpreti dei cittadini, ad esempio nella contestazione ai provvedimenti del governo in tema di pandemia. Nella manifestazione dell’8 gennaio convocata a Milano dal gruppo Dupre-Dubbio e Prevenzione contro l’obbligo vaccinale, il giurista Ugo Mattei è arrivato ad auspicare l’istituzione di un Comitato di liberazione nazionale. Qui non è in discussione il diritto a opporsi a una misura di politica pubblica (certamente coinvolgente le libertà individuali ma giustificata da un’emergenza che non è “inventata”). Al di là delle differenti posizioni che si possono esprimere nel merito, la riflessione che si impone ha a che fare con le forme usate per manifestarle. Il paragone con il Cln che nel 1943 raccolse i principali esponenti dell’antifascismo e coordinò la guerra di liberazione in Italia (come in altri Paesi europei) non è, o non è soltanto, l’iperbole isolata di un intellettuale in cerca di notorietà. È l’ultima tappa di una escalation retorica che ormai da due anni, da quando cioè la pandemia ha fatto irruzione nelle nostre vite, non si limita a denunciare i ritardi e le incongruenze che spesso hanno contrassegnato l’azione dei governi, ma le mette polemicamente e a priori in rapporto con eventi e contesti che nulla hanno a che fare con la situazione attuale, nella nostra e nelle altre democrazie occidentali.

In questa tendenza alcuni intellettuali si sono assunti una responsabilità molto seria. Fra tutti si è distinta la voce del filosofo Giorgio Agamben che, in una serie di interventi online poi raccolti nel volumetto intitolato A che punto siamo. L’epidemia come politica, inanella una serie di stupefacenti paragoni storici. Solo per ricordarne alcuni, grazie alla “cosiddetta pandemia” i poteri dominanti in Italia e nel mondo starebbero imponendo lo “stato di eccezione”, consistente nella “sospensione delle garanzie costituzionali”, in modalità che hanno “punti di contatto con quanto avvenne nel 1933 con Hitler”. Il risultato è “l’instaurazione di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute”, ovvero un dispositivo di governo definibile come “biosicurezza”. Di fronte alla minaccia alla salute brandita dai governi, “gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni alla libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature totalitarie”. Denunciando la decretazione di urgenza e l’acquiescenza mostrata in proposito dai giuristi, Agamben manifesta “l’impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge”. Non soltanto i giuristi, ma tutte le categorie professionali sono coinvolte nel biasimo, sempre facendo ricorso a similitudini estreme. A cominciare dagli scienziati, disposti “a sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale” per le loro ragioni. “Non ho bisogno di ricordare – scrive Agamben – che sotto il nazismo scienziati molto stimati hanno guidato la politica eugenetica” e “approfittato dei lager per eseguire esperimenti letali”. Ma l’analogia più ardita è riservata ai professori: quelli che oggi nel nostro Paese accettano di “sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente online sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista”.

Che fra i teorici della “biosicurezza” il disprezzo per la storia sia superato unicamente dal disprezzo per il ridicolo, è dimostrato dal paragone che nel suo comizio il prof. Mattei ha avanzato fra se stesso e i dodici professori (quelli sì eroici) che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e per questo vennero radiati dall’università. Il danno di gran lunga più serio, invece, è quello operato nelle coscienze dei cittadini, di quei No-vax che hanno sfilato nelle città italiane inalberando le stelle di David, le divise degli internati e i fili spinati dei lager. Oppure condiviso la parola d’ordine della “dittatura sanitaria” che, da paradosso tollerabile in un seminario di filosofia, è divenuto linguaggio corrente nei social e nelle manifestazioni di piazza. Se è scontato che i movimenti di protesta abbiano bisogno di miti, lo è assai meno che si prestino a rappresentarli persone la cui professione sarebbe quella di riflettere, prima da soli e poi insieme agli altri. Nonché, a esagerare in ottimismo, di avere rispetto degli avvenimenti, specie di quelli che hanno fatto la storia.

(credit foto ANSA/TINO ROMANO)



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