La riforma costituzionale di Meloni: populismo di basso profilo

La riforma di Meloni che vorrebbe l'elezione del presidente del Consiglio è un'idea già vista che gli italiani hanno bocciato al referendum del 2016. Un “no” che l’attuale governo intende ignorare.

Mauro Barberis

La madre di tutte le riforme, l’inizio della Terza repubblica! Non ha certo abbassato i toni, Giorgia Meloni, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri della sua riforma costituzionale. Eppure, il testo definitivo si rimangia la legge elettorale con premio di maggioranza, che aveva fatto storcere il naso a costituzionalisti, opposizione e Presidente della Repubblica. Presidente al quale, d’altra parte, la stessa riforma toglie la nomina di nuovi senatori a vita, e il potere di scegliere un premier fuori dal Parlamento. Fine dei ribaltoni e dei governi tecnici, ha proclamato ancora la premier, forse liberandosi dall’incubo dei suoi recenti infortuni comunicativi.
Di fatto, la riforma costituzionale, oggi, si riduce a quattro interventi chirurgici sul testo del 1948, soprattutto in materia di rapporti fra Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica. Ai più, distratti da eventi ben più clamorosi, tipo guerre e cicloni, tali interventi parranno insignificanti, immeritevoli delle divisioni e, alla fine, anche del referendum costituzionale che fatalmente provocheranno. Invece, questa riforma, che vorrebbe essere insieme populista e di basso profilo, tocca proprio il cuore di ogni costituzione – la separazione o meglio l’equilibrio dei poteri – rischiando di sfigurarlo.

Il mantra è sempre quello di Gianfranco Miglio, sin dalla Prima repubblica: rafforzare l’esecutivo. Ma è da molto prima, almeno dalla Prima guerra mondiale, che i poteri dell’esecutivo crescono a scapito di quelli del Parlamento: sono cresciuti anche dal 1948 a oggi, a costituzione invariata. E, a proposito di poteri, non dimentichiamoci le Regioni, rette da “governatori” populisti come Zaia o De Luca, già oggi intenti a svendere la Sanità pubblica ai privati, per le quali è prevista l’altra grande riforma annunciata in quota Lega. Inducendo a chiedersi: e cosa ci guadagnerà Forza Italia, il partito di Mediaset? Solo la demolizione della Rai?
Rafforzare l’esecutivo, conferendogli una legittimazione popolare diretta, è una tipica rivendicazione populista. Il programma di governo della Meloni, anzi, contemplava il presidenzialismo: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Poi qualcuno più esperto di lei, o magari la sorella e il cognato, deve averle suggerito di ripiegare sul premierato, sperimentato solo in Israele fra il 2002 e il 2012, e poi fallito miseramente pure lì. Che poi è il Sindaco d’Italia inventato, guardandosi allo specchio, da Matteo Renzi, e rifiutato dagli italiani nel referendum del 2016, non più di sette anni fa.
Pensate solo a questo paradosso. Mattarella, oggi il governante italiano più popolare, non è stato eletto dal popolo, ma dal Parlamento: così come, del resto, il tecnico Draghi, secondo nella classifica di popolarità. Eppure, i sondaggi registrano una crescita esponenziale della richiesta di elezione diretta dei governanti: come se competenza, esperienza, merito, non contassero più nulla. Ancora: benché il nostro paese sia stato salvato almeno quattro volte dai tecnici – Ciampi, Dini, Monti e lo stesso Draghi – la Meloni considera un successo toglierci la possibilità di farci salvare una quinta volta.
Io, francamente, spero che questa riforma non passi, come quella di Renzi e per le stesse ragioni più una. Pensate all’abolizione dei senatori a vita e chiedetevi: come sarebbe entrata in Parlamento Liliana Segre, se non l’avesse nominata Mattarella?

FOTO ANSA/FABIO FRUSTACI



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