La rotta migratoria innevata: ultimo “miglio” faticoso e doloroso

"I ragazzi della Clarée", ultimo libro di Raphaël Krafft, ci racconta una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani. Si tratta del confine italo-francese sull’arco alpino, dove le persone che migrano, al termine del lungo viaggio, affrontano le montagne, sia d'inverno sia d'estate. Uno stile efficace, senza fronzoli, con una scrittura serrata e volutamente scevra di orpelli. Un esempio del giornalismo che serve.

Christian Elia

Stabilire il limite del racconto in prima persona, nel giornalismo narrativo, è tema che non ha trovato soluzione dopo molti anni di dibattito e forse non la troverà mai. In fondo dipende dalla capacità di chi scrive di sapersi dare un limite.
Raphaël Krafft, scrittore e giornalista, quel limite non solo non sembra interessato a trovarlo, ma non finge neppure di cercarlo. D’altronde i suoi lavori, da quelli su radio indipendenti che nascono in remote regioni dell’Afghanistan a quelli sulle migrazioni in Francia, sono parte di una scelta personale. Il suo rapporto con la bicicletta, ad esempio, nei suoi lunghi viaggi, o le sue scelte di campo, per i suoi reportage radiofonici che poi diventano anche libri.
Lo stile personale dell’autore francese non si smentisce in I ragazzi della Clarée, edito in Italia da Keller, nell’ormai mitica collana RazioneK, e tradotto da Luisa Sarlo. In continuità con il precedente libro, Passeur, anche questo edito in Italia da Keller nella stessa collana, Krafft lavora sul confine italo-francese, che almeno dal 2016 è diventato una rotta importante delle migrazioni che iniziano dal confine tra la Turchia e la Grecia. Un ultimo ‘miglio’ faticoso e doloroso, sempre più al centro delle attenzioni delle organizzazioni che si occupano di difendere i diritti umani. I respingimenti illegali – soprattutto di minori stranieri non accompagnati – da parte della polizia di frontiera francese avvengono in violazione delle norme internazionali (con il silenzio/assenso delle autorità italiane), anche grazie a una forzata clausola che permette di sospendere gli accordi di Shengen.
Krafft non nasconde fin dalle prime pagine come la pensa, ma da ottimo giornalista quale è sostiene le sue tesi con i fatti e le indagini. Che nascono sempre da una domanda. La sua, nello specifico, è semplice e per questo ancora più preziosa, perché nessuno di coloro che si occupano da tempo di quel confine e di quella rotta migratoria – compreso chi scrive – se l’era mai posta: perché la stragrande maggioranza dei minori stranieri non accompagnati che passano da quella rotta provengono dallo stesso, piccolo, paese africano, la Guinea Conakry? Partendo da un gruppo di quattro ragazzini, che Krafft (che non si sottrae alle questioni dell’etica del racconto di realtà) sente di aver contribuito in buona fede a far acciuffare dalla polizia, ne ricostruisce l’itinerario, seguendolo fino al paese di origine.
Ne nasce un affresco potente, ricco di analisi di contesto, ma anche di elementi narrativi.
Che si coniugano bene con gli elementi di inchiesta, a volte sociale a volte classica. Ecco che emerge con forza una riflessione sul ruolo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nata negli anni ’50 in clima da Guerra Fredda per volere degli Usa, in modo da controbilanciare il ruolo delle Nazioni Unite, ritenute a Washington troppo esposte alle influenze sovietiche. E Krafft dimostra come fiumi di denaro vengono investiti in campagne che dissuadono i giovani a partire dall’Africa, ingaggiando grandi star, e nel farsi complici di rimpatri che più che ‘volontari’ risultano forzati. Denaro che mai viene investito per combattere le ragioni che spingono questi giovani a partire. In parallelo Krafft lavora a dimostrare come la tratta di confine tra Italia e Francia, progressivamente, sia state resa sempre più feroce e letale, spingendo i migranti a salire di quota, su sentieri impervi e che possono diventare mortali, soprattutto quando scattano gli inseguimenti della polizia francese. E dimostra come non sia un caso.
Accanto alla narrazione più d’inchiesta, Krafft riesce sempre a inserire elementi di racconto che completano – senza forzature – il quadro. Dagli scenari in Africa, passando per la variegata umanità del movimento solidale francese, fino alle voci della società civile e delle istituzioni in Francia come in Africa. Volti, storie, luoghi: tutti personaggi che s’intrecciano alla storia principale senza che nessuna delle voci si faccia preponderante, compresa quella dell’autore. Forse quel che manca, ma in una narrazione già molto ricca, è un po’ la storia della rotta, però Krafft ci restituisce ritratti profondi, dal veterano della guerra d’Algeria che aiuta i migranti, fino ai circoli francesi in Guinea, mai davvero emancipati da un approccio coloniale, tornati in forma di cooperazione internazionale.
Un libro importante, su una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani. Uno stile efficace, senza fronzoli, con una scrittura serrata e volutamente scevra di orpelli. Un esempio del giornalismo che serve, al tempo dell’autoracconto: quei ragazzi hanno tutti gli strumenti per raccontarsi da soli, ma operazioni che tengono assieme le fila del contesto e delle connessioni diventano operazioni importanti di servizio al lettore che non vuole vivere nell’eterno presente a una dimensione della cronaca.



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