La Siberia: un conflitto assopito tra Russia e Cina

Il confine sino-russo, demarcato dal fiume Amur per 4200 km, è un fronte di guerra addormentato nel ghiaccio dal 1969, quando scoppiò un conflitto per il controllo dell’isola siberiana Damansky, per i cinesi Zhenbao Dao. Quel conflitto servì a mostrare l’innaturalità dell’amicizia tra l’Orso e il Dragone.

Roberto Rosano

La ragione per cui Cina e Russia non saranno mai realmente amiche è riassumibile in una sola parola: Siberia. Un’immensa provincia russa che si estende sopra il corpo orfano dell’Asia settentrionale, 13.100.000 km2 abitati soltanto da 35.000.000 di persone. Per intenderci: il nostro Paese ne ha 58.815.463 in 302.073 km2.
Il confine sino-russo, demarcato dal fiume Amur per 4200 km, è un fronte di guerra addormentato nel ghiaccio dal 1969, quando scoppiò un conflitto per il controllo dell’isola siberiana Damansky, per i cinesi Zhenbao Dao. Quel conflitto per fortuna durò soltanto sei mesi, costò alle due parti poco più di un centinaio di uomini, ma servì a mostrare l’innaturalità dell’amicizia tra l’Orso e il Dragone a dispetto di Mao e Brežnev, che tanto si prodigavano per mostrarsi amici.
Questo fronte, checché ne dicano i due attuali interessati, Xi e Putin, è ancora rovente, ma resterà surgelato in un matrimonio di convenienza ancora per qualche tempo, finché converrà alle parti, anzi finché converrà ad una sola delle due, la più forte. Il Dragone si sta accorgendo di avere sull’orecchio alcuni dei più grandi giacimenti al mondo di nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, gesso, diamanti, diopside, argento e zinco per tacere le ampie risorse inutilizzate di petrolio e gas naturale.

Aristotele nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea ci ha insegnato una legge fondamentale: l’amicizia non è possibile in condizione di disuguaglianza a meno che non vi sia «un affetto proporzionale a riequilibrare la diversità». Fino a questo momento, l’affetto proporzionale è consistito in alcune convenienze: ai russi conviene guardare a levante per sopravvivere alle sanzioni occidentali e alla Cina interessa importare gas via terra dai russi sapendo che le vie marittime potrebbero esserle precluse in caso di un conflitto con l’Occidente. L’interscambio sino-russo quest’anno toccherà i 200 miliardi di dollari, le dogane di Pechino hanno registrato un balzo del 153% su base annua nelle esportazioni verso la Russia e quelle russe il 40% (soltanto per ciò che riguarda il gas e il petrolio). Ma Pechino è troppo accorta per affidarsi ad una sola mano, in questo caso il gasdotto Power of Siberia 1 e l’ancora ipotetico 2: un noto proverbio cinese recita che una sola mano non basta ad applaudire.
Ecco che ne sta già cercando una seconda nei Paesi «Stan», cioè nella tradizionale area di influenza russa, come dimostra il recente vertice tra Pechino e i Paesi dell’Asia centrale. Durante quel vertice Xi ha preteso la costruzione di un nuovo gasdotto (il quarto) tra la Cina e il Turkmenistan. Quando invece ha incontrato il premier russo Mishustin venuto a Pechino con un seguito di 1200 imprenditori, ha dato l’idea di non aver alcuna fretta di avviare ufficialmente la costruzione del Power of Siberia 2, una condotta da 2.600 chilometri che dovrebbe portare il gas russo dalla Siberia nordoccidentale (penisola Jamal) alla Cina, attraversando la Mongolia. I negoziati cinesi possono giocare abilmente sulla reticenza e possono durare molto, a volte moltissimo se Pechino si accorge che le sue condizioni contrattuali possono soltanto migliorare nel tempo: la guerra in Ucraina non accenna a finire e questo significa che i rapporti di forza tra Xi e Putin saranno sempre più sbilanciati a vantaggio del primo, specialmente dopo l’affaire Prigožin.

Ma la Siberia per i cinesi non è soltanto un prezioso scrigno di ghiaccio: è un antico amore, perduto nella seconda metà dell’Ottocento con i trattati di Aigun e Pechino, dopo una lunga epopea iniziata nel XVII secolo, quando i cinesi erano troppo deboli per fronteggiare gli eserciti degli zar in quell’inferno di ghiaccio, vento e foreste impenetrabili. Ma è soprattutto una terra leggendaria, su cui ancora aleggia lo spirito di Gengis Khan e l’ancestrale spiritualità della taiga. Quella antica sapienza, tramandata da millenni da mistici, maghi e guaritori dell’Altaj, è un immaginario caro tanto ai russi quanto ai cinesi. La Siberia è centrale nel destino della Russia euroasiatica imperiale concepita da Dugin, l’ideologo di Putin: terra di irradiazione nel mondo degli Ariani, ultimo Impero del Cielo dopo Thule-Iperborea. Il ministro della Difesa Shoigu è un siberiano di Tuva che, stando a quanto ci racconta Elena Kostioukovitch nel suo Nella mente di Putin (La Nave di Teseo, 2022), si ritiene la reincarnazione di Subedej, uno dei comandanti di Gengis Khan dei Mongoli. Dal loro canto, anche i cinesi guardano con ammirazione alle antiche leggende della taiga e della steppa: sulle loro mappe hanno iniziato a chiamare Vladivostok, Haschenwai, come al tempo della dinastia Qing.
Il suolo dove sorge ora la città russa era un antico villaggio di pescatori cinesi ceduto ai russi dopo il trattato di Peking (1860) e i cittadini della Repubblica Popolare hanno a cuore certe vicende del loro passato: basti pensare che sono ben due i canali della tv di Stato interamente dedicati alla storia con un pubblico medio tra i 60 e 100 milioni di telespettatori. Quando Xi parla del Secolo delle umiliazioni si riferisce anche a questi antichi dissapori che un giorno o l’altro intenderà vendicare. Ammesso che non abbia già iniziato a farlo con una pacifica colonizzazione, che muove prima il capitale e poi una massa di migranti: secondo una stima della BBC già nel 2019 più di un sesto delle terre coltivate nelle cinque regioni russe di confine era ormai gestito dai cinesi.

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CREDITI IMMAGINE Canva | Vintage Medical: foto di un’illustrazione della Siberia e le aree circostanti 1869 – 1870



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