La sinistra e Hamas: prendere le distanze per prendere posizione

In molti alla richiesta rivolta alla sinistra e al mondo musulmano in Europa di prendere le distanze da Hamas reagiscono con un riflesso di rigetto. Eppure la richiesta è più che legittima.

Cinzia Sciuto

Fra le tante discussioni innescate dal massacro perpetrato da Hamas lo scorso 7 ottobre c’è quella attorno alla richiesta di “prendere le distanze” dall’organizzazione e di condannare “senza se e senza ma” l’azione del 7 ottobre, richiesta avanzata principalmente nei confronti di due soggetti: la sinistra e il mondo musulmano in Europa. Sono fioccati appelli e articoli che denunciano l’assenza in questi due mondi di una chiara e netta presa di distanza, o almeno una certa ambiguità. Gad Lerner, sull’edizione cartacea del Fatto quotidiano del 5 novembre, ha osservato come per tenere insieme tutte le anime della sinistra che hanno manifestato a Milano per la pace a Gaza lo scorso 4 novembre sia stato necessario omettere nel testo di convocazione della manifestazione una parola: Hamas. Il vicecancelliere tedesco Habeck (dei Verdi) in un accorato video ha stigmatizzato l’atteggiamento delle principali associazioni di musulmani tedeschi, che troppo tiepidamente e troppo tardi hanno condannato l’attacco. Io stessa nei giorni successivi al 7 ottobre ho scritto che “oggi qualunque manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese che voglia rimanere nel solco della democrazia, della laicità e del rispetto dei diritti umani non può prescindere da tre premesse irrinunciabili: la condanna totale e senza nessun distinguo delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso; il rifiuto della cornice religiosa fondamentalista nella quale Hamas ha inserito la lotta del popolo palestinese; la dichiarazione convinta che Israele ha diritto a esistere e vivere in sicurezza”. Infine in molti hanno osservato l’omissione nel comunicato di NUDM di convocazione della manifestazione del 25 novembre scorso di qualunque riferimento ad Hamas (così come pure alla guerra di Putin), che pure non brilla certo per posizioni femministe.

In molti reagiscono a queste richieste con un riflesso di rigetto: non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, da quale pulpito viene la predica, è una richiesta di stampo moralistico mentre qui siamo di fronte a questioni etico-politiche di portata storica. Una reazione comprensibile, soprattutto quando la richiesta viene strumentalmente da destra e prende le forme dell’Inquisizione, del dito puntato, della censura, della richiesta di abiura: se non pronunci queste parole, sei complice dei terroristi e non hai dunque diritto di parola in un consesso democratico. Deduzione naturalmente fallace: le centinaia di migliaia di persone che nelle ultime settimane in tutto il mondo sono scese in piazza per chiedere il cessate il fuoco a Gaza non possono certo essere considerate automaticamente e in blocco complici di Hamas per il solo fatto che non premettono a ogni loro uscita pubblica una netta condanna di quello che è accaduto il 7 ottobre.

Eppure si tratta di una richiesta legittima perché manifestare pubblicamente il proprio posizionamento rispetto a un tema che – per le ragioni più diverse, talvolta del tutto indipendenti da noi – ci riguarda da vicino, anche se non ne siamo i diretti responsabili, è un segnale innanzitutto nei confronti di coloro che del nostro silenzio approfittano.
In seguito all’attentato di Londra del 3 giugno 2017, quando un furgone investì i passanti sul London Bridge causando 8 morti e 48 feriti, la sociologa tedesca Lamya Kaddor, apprezzata studiosa di islam e fondatrice dell’Alleanza dei musulmani liberali in Germania, promosse a Colonia una manifestazione contro il terrorismo, il cui motto era #NichtMitUns – Muslime und Freunde gegen Gewalt und Terror [#nonconnoi – Musulmani e amici contro la violenza e il terrore]. L’iniziativa fu un clamoroso flop e in molti spiegarono la loro assenza proprio con l’argomento “non ho bisogno di giustificarmi in quanto musulmano”. Ma, come aveva chiarito la stessa Kaddor, non si trattava di un invito a giustificarsi o a prendere le distanze dalterrorismo, ma a prendere posizione contro il terrorismo.

Altro contesto: per anni in Sicilia l’argomento “io non devo prendere le distanze dalla mafia solo perché sono siciliano” è stato utilizzato per giustificare di fatto il silenzio sulla mafia della maggioranza dei siciliani, che ovviamente non sono mafiosi e che però, con il loro silenzio, creavano un ambiente perfetto per il proliferare di Cosa Nostra. È stato solo dopo le stragi del ’92 che si è capito che bisognava letteralmente manifestarsi, per mandare un chiaro messaggio non al resto del mondo ma ai mafiosi: “Non siamo vostri complici, fosse anche solo con il nostro silenzio”.

Un altro ambito ancora nel quale l’argomento “io non sono coinvolto, non devo quindi giustificarmi” viene adoperato spesso e volentieri è quello della violenza contro le donne: è esasperante dover continuamente ripetere che, se da un lato è lapalissiano che non tutti gli uomini sono dei violenti, altrettanto ovvio dovrebbe essere che tutti gli uomini portano la responsabilità nel creare un clima nel quale poi la violenza si sviluppa. Quello che si chiede agli uomini è di prendere coscienza che c’è un problema di genere, un problema che riguarda il genere a cui loro appartengono e che, se non saranno loro i primi ad agire in maniera attiva per modificare quella cultura, si rendono complici, anche solo quando fanno (o ridono a) una battuta sessista. Anche in questo caso, la richiesta non è di prendere le distanze dai violenti (sarebbe peraltro troppo facile), ma di mettersi in discussione e manifestarsi, per isolare questi ultimi e farli sentire non più accettati.

Mutatis mutandis (e sono perfettamente consapevole che le differenze fra questi diversi contesti sono molte) la logica che sta dietro alla richiesta nei confronti della sinistra e del mondo musulmano di schierarsi apertamente contro Hamas è analoga: Hamas agisce in nome della causa palestinese, ci piaccia o no è l’organizzazione attualmente egemone e con l’azione del 7 ottobre ha mostrato tutta la sua forza anche rispetto ad altre realtà che pure esistono nell’ambito della resistenza palestinese; per cui chi sostiene la causa palestinese – proprio perché sostiene la causa palestinese – dovrebbe sentire il dovere di chiarire pubblicamente la propria posizione nei confronti della torsione jihadista impressa da Hamas alla sua lotta.

La mia sensazione è che ci sono due distinte categorie di sostenitori della causa palestinese che sono riluttanti a prendere pubblicamente posizione contro Hamas per ragioni molto diverse fra loro. Una prima categoria è composta da persone che sono intimamente e profondamente scosse da quello che è accaduto il 7 ottobre ma che pensano che in questa fase prendere posizione esplicitamente e pubblicamente contro Hamas farebbe il gioco di chi sta massacrando da più di un mese il popolo palestinese. Questa categoria di militanti vorrebbe veder sparire Hamas ma ritiene che sia un problema da porsi dopo aver posto fine all’occupazione israeliana, che viene vista come la causa principale dell’esistenza stessa di Hamas. La seconda categoria invece è composta da chi pensa che il fine giustifichi i mezzi, che il 7 ottobre sia stato un “momento storico senza precedenti” e abbia rappresentato una legittima “controffensiva contro l’oppressore coloniale”, come si legge nel comunicato degli studenti della Columbia diffuso il 9 ottobre, o che le azioni del 7 ottobre siano “atti di guerriglia contro un esercito occupante”, come ha scritto Potere al popolo, in coerenza (non sappiamo quanto consapevolmente o meno) con la tesi di Hamas secondo cui in Israele non esistono civili. Ora qui la discussione è molto seria, perché si tratta di capire cosa è legittima resistenza e cosa barbarie e se un atto di barbarie può – in quanto inserito in un contesto di resistenza – essere considerato legittimo. È dunque una discussione tutta interna alla sinistra e al movimento di sostegno alla causa palestinese. È niente di meno che la discussione attorno a cosa significhi “resistenza” e a quali sono i mezzi legittimi per portarla avanti. Non è una questione che si possa liquidare con un’alzata di spalle, né rinviare a “dopo la fine dell’occupazione” esattamente perché ha a che fare con la scelta dei mezzi legittimi per resistere a questa occupazione.

CREDITI FOTO: Manifestazione pro Palestina in corso Venezia, Milano 4 Novembre 2023 ANSA/MATTEO CORNER



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