La storia di Nanda Singh, minorenne vittima di tratta

Partito a 16 anni dall'India per trovare un lavoro e arrivato in Italia due anni più tardi: il viaggio di Nanda in mano ai trafficanti di esseri umani.

Marco Omizzolo

Dall’India e dal Bangladesh verso l’Europa passando per l’Armenia, la Russia, la Serbia e la Slovenia. È una delle vie della tratta di esseri umani che dall’Asia conduce ogni anno migliaia di persone, a volte minorenni, in Europa. Un giro d’affari milionario, fatto di violenze, debiti che restano sulle spalle delle vittime per anni, soprusi e patimenti estremi. Si stima che i profitti medi annuali generati dalla sola tratta di esseri umani arrivino a circa 32 miliardi di dollari. Denaro e potere che uniscono Europa, Russia, India e Cina. Le vittime sono donne e uomini che subiscono violenze di ogni tipo, costretti a camminare a piedi per giorni, a dormire nei boschi, spesso arrestati e picchiati dalla polizia dei Paesi che attraversano e costantemente obbligati a pagare i trafficanti per riuscire a completare il viaggio della speranza.

Tra questi Nanda Singh (nome di fantasia), partito dal Punjab a soli 16 anni, concordando ogni dettaglio del viaggio coi genitori e un trafficante indiano al quale ha consegnato il suo destino e oltre 20 mila euro. «L’ho fatto perché in India non trovavo lavoro, i soldi erano pochi e la mia famiglia aveva bisogno di denaro per vivere», racconta seduto al tavolino di un bar, a pochi passi dalla Questura di Latina.

Il suo viaggio è durato due anni, due anni in cui quasi quotidianamente ha dovuto subire violenze e soprusi le cui cicatrici e traumi probabilmente non andranno mai via.

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Nanda si mette in cammino insieme a un suo connazionale, guidati via cellulare dal trafficante indiano il quale garantisce che entro pochi giorni arriveranno in Europa, dove troveranno documenti pronti e un lavoro regolare. La meta di Nanda è l’Italia, o meglio Sabaudia, in provincia di Latina, dove abitano da anni alcuni suoi parenti. Il suo connazionale invece punta a entrare in Germania, dove vuole lavorare come lavapiatti per il ristorante di un suo connazionale. Per guidare i due malcapitati il trafficante chiede un anticipo di circa 10 mila euro alle rispettive famiglie e poi altri soldi a ogni tappa del viaggio. Denaro che le famiglie, preoccupate per il destino dei figli, non possono rifiutarsi di pagare. «La mia famiglia ha dovuto vendere alcuni suoi beni. Soprattutto terreni che ci appartenevano da generazioni e che ora sono in mano a quell’uomo, ormai uno dei più ricchi di Calcutta. Quando il ricavato delle vendite non è stato più sufficiente, abbiamo fatto dei debiti con le banche e con varie società finanziarie indiane, che ci stanno dissanguando». Un business, quello della tratta internazionale, che ormai coinvolge anche istituti di credito bancari che hanno fatto di questo sistema mafioso una delle fonti di credito più redditizie.

Durante il suo interminabile viaggio Nanda subisce di tutto, a partire dalla violenza delle forze di polizia lungo i confini che deve attraversare. Vede anche morire alcuni ragazzi, minorenni come lui, spesso per il freddo. «A guidarci era sempre il trafficante indiano con il quale parlavamo via cellulare e che ci indicava che strada prendere, in quali alberghi dormire, dove mangiare. Ovviamente per ognuna di queste informazioni le nostre famiglie dovevano fare dei versamenti, altrimenti saremmo rimasti senza alcun riferimento, rischiando di morire». Lungo il viaggio Nanda convive con decine di altri ragazzi e ragazze provenienti da Bangladesh, Pakistan, Cina ma anche da alcuni Paesi dell’Est Europa come Bulgaria, Moldavia e Croazia, vittime come lui di trafficanti senza scrupoli. Alcuni sono diretti verso la Grecia e Cipro, altri verso il Centro e Nord Europa. Migliaia di persone per milioni di euro che finiscono col finanziare una delle tratte di esseri umani più pericolose al mondo. Tra loro molte donne, spesso violentate, obbligate a restare in silenzio dinnanzi a quei soprusi quasi quotidiani e a volte imbottite di anticoncezionali.

«Sono finito in carcere più volte. Per esempio in Armenia, da cui poi sono stato espulso insieme a tutti i miei compagni. Da quel Paese mi hanno fatto prendere un aereo per Mosca dove ho dormito in un albergo in condizioni pessime. Eravamo in più di 20 in una stanza senza bagno, per la quale la mia famiglia ha pagato il trafficante circa 1.000 euro. Ci hanno dato da mangiare uno snack e una bottiglietta d’acqua e basta. Eravamo senza documenti ma a Mosca ci hanno fatto prendere comunque un aereo. Come abbiano fatto non lo so. Siamo atterrati in Croazia, siamo stati identificati dalla polizia, trattenuti in arresto per circa 48 ore e picchiati sistematicamente. Io sono stato picchiato da un poliziotto con il calcio di un fucile, sono stato preso a schiaffi e pugni e una volta sono stato anche colpito con un calcio sul viso. Eppure non avevo fatto nulla. Mi hanno preso a caso tra i tanti che erano lì presenti, forse per far capire a tutti chi comandava».

Per uscire dalla Croazia la famiglia di Nanda paga altri 2.500 euro. E da lì un altro viaggio verso la Slovenia. Insieme a circa altre 20 persone segue un uomo che afferma di conoscere la strada verso il confine italiano. Attraversano a piedi i boschi prima croati e poi sloveni, dormono all’addiaccio, mangiano erba e bacche che trovano per strada e patiscono un freddo mortale. «Non ho mai sofferto la fame e il freddo come in quei giorni. Qualcuno di noi si è sentito male, altri piangevano e alcuni, soprattutto i più piccoli o i più fragili, svenivano oppure camminavano a stento. Ma chi si fermava rischiava di morire. Per questo io sono andato avanti. Ormai non potevo tornare indietro né potevo fermarmi perché sarei sicuramente morto».

Nanda non ha più contatti con la famiglia né con il trafficante connazionale perché il cellulare è ormai scarico e non ha possibilità di ricaricarlo. «Una notte ho pensato di morire. Ho pensato di farla finita. Mancavano poche settimane ai miei 18 anni e stavo per festeggiarli in un bosco croato, sommerso dalla neve, quasi morto di freddo e di fame. La mia famiglia forse mi credeva morto, non avevo soldi e non sapevo dove stessi andando. Avevo ancora addosso il sangue delle mie ferite e con esse la paura di essere rapinato e poi ucciso. Alcune donne che erano con me sono improvvisamente sparite. Me ne sono accorto tardi, purtroppo. Pensavo fossero rimaste indietro ma credo siano state violentate e abbandonate. Sono stati giorni e notti terribili».

Una delle persone che è con lui lo invita a resistere e a seguirlo perché afferma di sapere dove andare e che presto avrebbero incontrato una donna italiana pronta a portarli in Italia. E così sarà. Proprio sul confine tra Italia e Slovenia, una donna con indosso una pettorina arancione li carica in auto per portarli in Italia, non prima però di aver requisito loro il cellulare per evitare che scattino foto o altro. «Ci ha detto di non parlare – racconta ancora Nanda – di non fare domande e di non dire a nessuno che eravamo saliti in auto con lei». Quel viaggio infernale si conclude alla stazione ferroviaria di Trieste, dove viene abbandonato.

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Nanda sa solo una cosa: deve arrivare a Sabaudia, a circa cento chilometri a sud di Roma. E così prende un treno nascondendosi come può per evitare di essere individuato dai controllori, diretto prima a Roma e poi a Latina. «Appena arrivato alla stazione di Latina mi sono venuti a prendere dei parenti e ho potuto così finalmente parlare di nuovo coi miei genitori, che mi credevano morto. È stato come rinascere per me, solo che ero ancora senza documenti e non sapevo come andare avanti. Per questo ho contratto un altro debito per ottenere tramite un connazionale residente in Portogallo dei documenti falsi che mi sarebbero dovuti arrivare da Firenze. Nel frattempo ho lavorato in nero per 14 ore al giorno dentro un paio di aziende agricole tra Sabaudia e Pontinia, fino a quando da un amico, Harbhajan Ghuman, ho saputo di una associazione che poteva aiutarmi».

L’associazione si chiama Tempi Moderni e con il progetto “Dignità Joban Singh” ha provveduto a prendersi cura di Nanda, così come di altre decine di donne e uomini vittime di sfruttamento, caporalato e tratta. Anche grazie a questo sostegno Nanda ha deciso di sporgere denuncia alla Questura di Latina, che ha raccolto la sua testimonianza e, secondo quanto prevede la normativa italiana, avviato l’iter per il riconoscimento di un permesso di soggiorno. Non è il primo caso di indiano vittima di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo che viene individuato a Latina, ma è il primo minorenne ed è il primo di cui si sa che ha impiegato due anni per arrivare in Europa, vittima di violenze sistematiche, arresti e patimenti terribili.

Una storia che parla di una tratta che lega India, Armenia, Russia, Croazia, Slovenia e Italia, e che, in questo tempo di guerra e di divisioni discriminatorie tra profughi legittimamente accolti e altri drammaticamente lasciati al loro destino, fa ancora più male raccontare.

* Marco Omizzolo, sociologo, è presidente dell’associazione Tempi Moderni.



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