La teoria sociale del governo Meloni

Dopo le celebrazioni di buoni sentimenti e i generosi pronunciamenti ecumenici del day after il successo elettorale di Giorgia Meloni, il vero volto dei vincitori e i loro retropensieri effettivi balzano fuori in tutta l’inquietante protervia che li caratterizza.

Pierfranco Pellizzetti

Passata la festa gabbato lo santo. Dopo le celebrazioni di buoni sentimenti e i generosi pronunciamenti ecumenici del day after il successo elettorale di Giorgia Meloni, il vero volto dei vincitori e i loro retropensieri effettivi balzano fuori in tutta l’inquietante protervia che li caratterizza. Sicché la Manovra per la Legge di Bilancio 2023 è la più accreditata vetrina di cosa abbiano in testa i nuovi governanti. Quel programma definito da qualsivoglia commentatore non allineato all’ortodossia meloniana per cortigianeria o ideologia, un palese regalo agli evasori e uno sfregio impietoso alla povertà. Insomma, il solito target reazionario composto da abbienti e impauriti/risentiti: i ricchi, a cui non si deve toccare “la roba” (far pagare le tasse), e quanti si sentono minacciati dai poveracci; vuoi in quanto “ceto pericoloso”, vuoi come presenza esteticamente imbarazzante. In altre parole, i gruppi sociali che sono la base di consenso cui questa Destra si rivolge e con cui sintonizza nelle proprie scelte; con cui condivide la visione del mondo da travasare in azione politica. Ergo, il blocco sociale di riferimento, accomunato dalla ferocia eppure profondamente diversificato.

Infatti, proprio in quanto assemblaggio di realtà umane diverse per matrice, assomma due componenti portatrici di interessi/valori non omogenei; mentalità/aspettative (e vissuto storico) non facilmente omogeneizzabili.

Se la prima componente risente in misura evidente del processo di colonizzazione culturale che caratterizza il secondo dopoguerra italiano, accentuato in misura parossistica dall’americanismo alla brianzola berlusconiano propagandato dalle reti televisive commerciali, la seconda filiera presenta tratti prettamente autoctoni e dipende da specifici processi di formazione dei ceti medi nazionali. Esplorazione in cui tornerebbe ancora prezioso l’apporto di un grande economista, improvvisatosi sociologo di genio, che nel 1972 – in un’Italia profondamente diversa dall’attuale – scrisse un celebre “Saggio sulle classi sociali”: Paolo Sylos Labini.

Allora si parlava di rapporti tra ceti medi e classe operaia, considerando quest’ultima ancora subalterna seppure in ascesa. Oggi i colletti blu risultano estinti in quanto soggetto politico, mentre ancora rimane in vigore il giudizio sulla piccolissima borghesia quale ricettacolo di non infrequenti “individui famelici, servili, culturalmente rozzi”. Soprattutto inorriditi alla sola idea dell’avvento di strati inferiori. Oggi potremmo dire di massima, i fruitori del reddito di cittadinanza.

Dunque, una componente reazionaria in quanto si percepisce minacciata nella sua precarietà sociale, la cui formazione può essere fatta risalire all’arresto della modernizzazione (e della civiltà urbana) nel nostro Paese del XVII secolo, con il ritorno al latifondo e il formarsi di una società parassitaria attorno alle famiglie nobili, composta dal loro servidorame (poi diventato ceto impiegatizio), faccendieri e un sottoproletariato artigianale al lavoro per beni di status. Un tutto tenuto assieme dal cemento ideologico della Chiesa controriformista. L’altra componente reazionaria, di più recente formazione, può essere fatta risalire agli indebiti arricchimenti sul deficit dello Stato (BOT-people) promossi clientelarmente dal trio CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) nella ristrutturazione del quadro politico dopo la morte di Moro e Berlinguer.

Un ceto ispirato alle modalità argomentative dell’individualismo possessivo anglo-americano, tradotto in parole d’ordine e rimesso a nuovo nei think tank della Destra repubblicana, impegnata a smontare il lascito del New Deal e opporsi al Welfare State: “lo Stato non metta le mani nelle nostre tasche”, “privatizzare scuola, sanità e pensioni”, “i programmi sociali sono immorali perché l’assistenzialismo è uno spreco”, “la protesta sociale è invidia”, “la superiorità morale dei benestanti” e così via.

Tornando alla composizione del governo, la reazione risentita/impaurita può trovare la propria naturale personificazione in Giorgia Meloni, cresciuta nel popoloso e semi-periferico quartiere della Garbatella, già borgata di sfollati. Mentre quella obbligata per la neo-borghesia della roba non può che essere il nababbo Silvio Berlusconi. Con la Lega di Salvini – tra padroncini e valligiani – collocata in una via di mezzo.

Comunque – in un senso o nell’altro – tutte componenti intimamente ostili alla democrazia della cittadinanza inclusiva. Come Manovra conferma.



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