La transizione non è ecologica se restano gli impianti fossili

L’Italia è in grande ritardo per l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050. Il governo, troppo subalterno nei confronti di Enel ed Eni, punta ancora sulle fonti energetiche fossili.

Giorgio Pagano

Da qui al 2030 installazione, ogni anno, di impianti eolici e fotovoltaici pari a quattro volte la potenza installata nel 2020. Nessuna nuova miniera di carbone o pozzo da cui estrarre petrolio o gas naturale. “Non ce n’è più bisogno”, ha dichiarato Fatih Birol, Direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iae), che ha pubblicato un rapporto che indica ai governi come abbandonare le fonti fossili per l’energia per centrare l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050.

L’Italia, però, non ha ancora imboccato questa strada. Il Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) prevede infatti obiettivi non più in linea con quelli dell’Unione europea, che sta per fissare la neutralità climatica al 2050: la sostituzione delle centrali a carbone con nuove centrali a gas, una fonte fossile anch’essa climalterante. Secondo il gestore della rete, Terna, questi impianti garantiscono la stabilità del sistema e non possono essere spenti senza un’alternativa. Per questo è stato varato il capacity market, aste che remunerano la capacità sostitutiva. Hanno partecipato impianti che ancora devono essere realizzati, come la centrale a gas che Enel vuole costruire alla Spezia al posto di quella a carbone, e che perderebbe gli incentivi qualora non venisse autorizzata.

La questione vera è che la rete può essere stabilizzata in altro modo: con le rinnovabili. Il conflitto gas-rinnovabili ha segnato gli ultimi dieci anni. Bene hanno fatto, a Spezia, tutti coloro che in questi giorni, con le osservazioni al progetto dell’Enel sottoposto a VIA, hanno sostenuto che per far fronte al fabbisogno energetico non occorrono nuovi impianti a gas ma un mix di interventi: efficientamento delle centrali a gas esistenti, impianti di ripompaggio idrico nelle centrali idroelettriche esistenti, nuovi impianti di energie rinnovabili con meccanismi di accumulo. Molto più avanti ancora sono andati a Civitavecchia, dove sindacati, associazioni e istituzioni hanno presentato un progetto fondato sulle rinnovabili, alternativo alla centrale a gas che anche in quel sito Enel vorrebbe realizzare al posto di quella a carbone (ne ho scritto nell’articolo “La transizione ecologica e la svolta di Civitavecchia”, MicroMega.net, 1° aprile 2021).

Gli interventi proposti garantirebbero nuovi posti di lavoro. Cingolani ha dichiarato che “non si può chiedere alle persone di perdere il lavoro perché tutto deve essere verde”. Gli ha risposto indirettamente proprio Birol: “Ci sarà un crollo nella domanda di petrolio e di gas. Ma prevediamo che gli investimenti nelle rinnovabili produrranno trenta milioni di nuovi posti di lavoro, soprattutto nei settori del fotovoltaico, dell’efficienza energetica, delle nuove reti intelligenti di distribuzione. A fronte dei 5 milioni di posti di lavoro persi nell’industria dei combustibili fossili. La vera scommessa dei governi è gestire con saggezza questa trasformazione”.

Il nostro governo, con la sua proposta di Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), appare timido e vecchio, privo di una prospettiva strategica chiara. Il Pnrr prevede sia nuove centrali a gas, sia nuove estrazioni di petrolio e gas. Il Ministro Roberto Cingolani ha mostrato a John Kerry, inviato speciale di Joe Biden per il clima, una mappa dei gasdotti previsti, ma è stato pubblicamente redarguito sul fatto che il gas non è una scelta sostenibile. La questione è che il governo è troppo subalterno nei confronti di Enel ed Eni.

Di Enel ho detto. Riguardo all’Eni, la soggezione è forse ancora più evidente. La compagnia prevede, nel suo piano di sviluppo, un aumento delle esplorazioni di petrolio e la crescita della produzione di gas. Non ha intenzione di uscire dal fossile anche perché, come le altre compagnie petrolifere mondiali, pensa allo strumento CCS (Carbon Capture and Storage, Cattura e Stoccaggio del Carbonio), che consiste nell’estrarre la CO2 contenuta nei fumi prodotti dalla combustione degli idrocarburi e nell’immetterla in una tubazione che la trasporta in un luogo dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando combustibili fossili, la concentrazione dellaCO2 in atmosfera non aumenterebbe. L’operazione risulta particolarmente vantaggiosa se si pompa la CO2 in un giacimento in via di esaurimento, perché in questo modo si può “spremere” altro idrocarburo che diversamente resterebbe sottoterra. Ed è esattamente questo che prevede di fare l’ENI, cominciando dai giacimenti sotto l’Adriatico, di fronte a Ravenna. Insomma, si vuole sotterrare la CO2 per continuare a produrre la CO2. Ma il problema non è quello di non aumentare la concentrazione della CO2 in atmosfera, è quello di diminuirla: l’unico obiettivo possibile per una transizione che voglia essere ecologica.

Conclusione: la svolta green non c’è ancora, e “si perpetua il modello di sviluppo che ci ha portato alla situazione attuale”, afferma la Task Force Natura e Lavoro. È difficile, per una dirigenza delle grandi aziende di Stato cresciuta nella cultura del fossile, guidare una nuova fase. Ed è difficile, per politici da sempre abituati a proteggere i ritardi e gli errori di Enel ed Eni, diventare capaci di imporre, e non di subire, la road map per il futuro energetico dell’Italia. L’auspicio è che la singolare coalizione che si sta creando tra forze battagliere della società civile e istituzioni internazionali lungimiranti, benedetta dalle scelte straordinariamente chiare di papa Francesco, possa sconfiggere una tecnocrazia grigia e una politica debole e senz’anima.

 

(foto di Sergio D’Afflitto, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons)



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