La trappola del consenso

Nelle vicende giudiziarie sulle violenze sessuali a farla da padrone è il tema del "consenso". Ma davvero basta che "lei è consenziente" per non avere più nulla da dire?

Cinzia Sciuto

Sembrerebbe semplice: ogni atto sessuale, di qualunque tipo, è perfettamente lecito e accettabile se a compierlo sono due (o più) adulti consenzienti. Più in generale qualunque comportamento è non solo accettabile ma anche letteralmente indiscutibile se chi lo adotta lo fa liberamente. Attorno all’accertamento del consenso ruotano tutte le vicende giudiziarie che riguardano violenze sessuali (ad eccezione di quelle che coinvolgono minori): “Lei era consenziente?” è diventata la domanda chiave e pare essere diventata l’unica cosa che conta. Se sul piano giudiziario forse questa è davvero l’unica cosa che conta (anche se, notiamo en passant, questo fa di nuovo ricadere l’onere della prova sulla donna che, se forse non deve più rendere conto di come era vestita, deve oggi dimostrare di non aver dato il consenso), certamente non lo è da un punto di vista etico, sociale e politico. Da questo punto di vista sono due gli aspetti da tenere in considerazione, uno che viene prima dell’esercizio del consenso e uno dopo.

Il primo ha a che fare con il fatto che questo fantomatico “consenso” non è un oggetto astorico che cade dal cielo, liscio e lineare. È esso stesso un prodotto culturale, esito di stratificazioni secolari, ambiguo, carico di contraddizioni. Per molti secoli, per diversi gruppi sociali – le donne, i bambini, gli schiavi – il problema del consenso non si poneva proprio: soddisfare il volere del marito/padre/padrone era semplicemente l’unica opzione possibile. E in diversi contesti e in molti ambiti è ancora così. Quante donne accettano (dunque tecnicamente prestano il loro consenso) a rapporti sessuali con i propri partner anche quando non ne hanno voglia perché hanno introiettato un modello di relazione che impone alla donna di soddisfare sempre il desiderio maschile? E quanto contano le condizioni materiali di vita delle persone (sì, tocca tornare a un po’ di sano materialismo) nella loro maggiore o minore propensione a prestare o meno il proprio consenso? Quante lavoratrici accettano le meschine molestie dei loro superiori per paura di perdere il posto? Che margine di “libertà” aveva la donna che ha accettato di farsi ricoprire di cioccolato e di stare sdraiata attorno al buffet di un albergo in Sardegna? La libertà non è un bene discreto che c’è o non c’è, ma un bene continuo: fra il grado 0 di assoluta mancanza di libertà (assoluta coercizione fisica) e il grado 1 di assoluta libertà (livello inarrivabile anche solo per il fatto che siamo esseri finiti, ma ideale regolativo a cui tendere) ci sono infinite gradazioni ed è sempre possibile valutare verso quale dei due poli ci si sta muovendo. La libertà di dare o negare il proprio consenso è una conquista frutto di lotte politiche recenti, e ancora oggi è un privilegio per poche.

Il secondo aspetto del problema viene dopo l’esercizio del consenso, ed è se possibile ancora più rilevante dal punto di vista etico, politico e sociale. Il punto è questo: se anche tutte le condizioni per un esercizio assolutamente libero del consenso fossero soddisfatte (condizione impossibile nella realtà, ma facciamo questo esperimento mentale per amor di ragionamento), non rimane davvero nulla di cui discutere? Tornando alla vicenda della donna che è stata ricoperta di cioccolata in un albergo, davvero il problema è solo se lei era d’accordo o meno e se non sia stata sottoposta a pressioni? Facciamo finta che non si trattasse di una lavoratrice che obtorto collo ha acconsentito a essere usata come un oggetto, ma di un’artista che magari ha proposto lei stessa la “perfomance” all’albergo: davvero possiamo archiviare la vicenda, fare spallucce e girarci dall’altra parte come se la cosa non ci riguardasse più come società, e come femministe? Davvero possiamo ignorare che in questa come in altre situazioni (pensiamo alla vicenda degli orinatoi a forma di bocca di donna in alcune palestre) a dominare l’immaginario collettivo è ancora, morbosamente, il desiderio maschile ed è quello che la nostra ipotetica artista pensa eventualmente di soddisfare con la sua “performance”? E ci sta bene un mondo che ruota attorno al desiderio maschile, che noi donne “libere” e “autodeterminate” possiamo magari anche sfruttare per trarne un qualche vantaggio? Sono queste le relazioni fra uomini e donne che auspichiamo? Quelle in cui basta mettere la spunta alla casella “consenso sì/no” per dirci soddisfatte?
Il consenso – in questo come anche in altri contesti – sta diventando la parola magica, la chiave passe-partout per sollevarci dal pesante fardello dell’immaginare una società diversa, del fare i conti con le asimmetrie strutturali che regolano i rapporti sociali, del prenderci la responsabilità di esprimere un giudizio etico. A rimetterci saremo nuovamente noi donne. Non cadiamo nella trappola.
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CREDITI IMMAGINE Flickr | Jeanne Menjoulet



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