Non tutti orfani: la tutela dei minori in situazioni di conflitto e calamità

Quando vengono diffuse immagini di minori in situazioni di conflitti e calamità spesso scatta la corsa all'adozione. Ma non è detto che quei bambini siano orfani e separarli da eventuali familiari e parenti arrecherebbe loro solo un altro ulteriore danno. Proprio per questo è necessaria la loro tutela.

Monya Ferritti

In queste settimane la Striscia di Gaza è sotto l’assedio dell’esercito israeliano. Oltre a essere uno dei territori al mondo a maggiore densità di abitanti per chilometro quadrato, vanta anche il primato di un’età media della popolazione molto bassa, circa 17 anni. Questo fa sì che fra i civili uccisi o feriti dai bombardamenti le prime vittime siano proprio tanti – troppi – bambini e adolescenti e che le immagini diffuse in tutto il mondo spingano l’opinione pubblica, oltre a chiedere il cessate il fuoco, anche a veicolare la soluzione più semplice per i bambini e i ragazzi vittime della guerra: l’adozione. Siamo di fronte allo stesso cliché visto anche all’indomani della guerra in Ucraina, quando l’ondata di profughi arrivati nel nostro Paese, per la gran parte donne e minori, ha generato non poca confusione. In molti casi bambini e ragazzi – non accompagnati ma non in stato di abbandono o dichiarati adottabili – sono stati definiti “orfani” da numerose testate giornalistiche. L’ondata di commozione generale per ciò che stava accadendo ha poi generato sui social – e non solo – un pericoloso corto circuito con numerose richieste e disponibilità ad “adottare gli orfani” o, almeno, a prendersene cura.
Ma anche questa non è stata una situazione nuova. Già alla fine della sanguinosa guerra in Corea, verso la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il Congresso degli Stati Uniti, con il Bill for Relief of Certain Korean War Orphans, finanziò e facilitò l’adozione dei bambini coreani nel Paese. Furono circa 3.000 fino alla fine degli anni Cinquanta ma diventarono oltre 150mila nei 60 anni successivi (fino al 2021).  Analogamente, alla fine della guerra del Vietnam nel 1975, con l’Operazione USA denominata Baby-lift, sono stati evacuati dal Paese, a scopo adottivo, migliaia di bambini (almeno 3.000 negli USA e circa 1.300 fra Canada, Europa e Australia).
Non mancano esempi nella storia più recente che ha coinvolto anche l’Italia, basti pensare al genocidio del Rwanda o alla guerra nella ex Jugoslavia. Nel 1992 nel mezzo dell’assedio della città di Sarajevo partì un convoglio verso l’Italia con a bordo 67 bambini, 46 di questi ospiti di un istituto a Bjelave in Bosnia. I bambini furono prima affidati e poi adottati da famiglie italiane, nonostante molti di loro avessero parenti, talvolta genitori, che li stavano cercando. Due anni dopo, durante il genocidio rwandese, arrivarono nella bassa bresciana 41 bambini tra i 4 mesi e i 6 anni di età per essere messi in salvo dai massacri. Nonostante le autorità rwandesi abbiano chiesto il rimpatrio dei loro piccoli cittadini, non si sono concretizzate le condizioni di sicurezza perché ciò accadesse con la conseguenza che la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni ne dispose, a due anni dal loro arrivo, prima l’affidamento e poi l’adozione presso le famiglie bresciane. Ancora nel 2001 il Rwanda tornò a chiederne il rimpatrio ma senza successo.
I protocolli internazionali sulla protezione dell’infanzia vietano espressamente l’adozione di bambini in conseguenza di guerre o catastrofi naturali. Il caso più recente riguarda il terremoto di inizio 2023 che ha colpito la Siria e la Turchia. Il ritrovamento di una neonata sotto le macerie – mostrato sui media di tutto il mondo – ha generato una gara internazionale per adottarla. L’esempio è calzante per capire che proprio lo stato di emergenza che il Paese vive impedisce di verificare con assoluta certezza che i bambini siano realmente orfani o in stato di abbandono tale da dichiararli adottabili. Ma non solo.  In queste situazioni ci troviamo di fronte a bambini e adolescenti fortemente traumatizzati che vanno tutelati e non sottoposti ad altri accadimenti stressanti sul piano emotivo e psicologico, come il trasferimento in un altro Paese e in un contesto famigliare e culturale nuovo. Una delle prime azioni che i Paesi devono operare una volta che l’emergenza diminuisce, infatti, è quella di riunificare le famiglie che sono state separate dalle guerre o dalle calamità naturali e nel mentre garantire ai bambini e ai ragazzi assistenza, cure mediche, alloggio e cibo. Ed è proprio per queste ragioni che non solo va evitata l’adozione ma anche l’evacuazione dei minori in Paesi terzi perché si rischierebbe di perderne le tracce e dunque di non ricongiungerli alle loro famiglie.
I bambini e i ragazzi che hanno già subito un trauma significativo devono quindi essere tenuti il più possibile in condizioni a loro familiari e possono essere raggruppati solo con altri minori o con adulti familiari o da loro conosciuti, come è accaduto ai bambini che vivevano negli Internat in Ucraina. Questi, infatti, allo scoppio della guerra sono stati evacuati in Italia in luoghi comunitari trasferendo l’intero personale dell’Internat, dal direttore ai cuochi e agli educatori, per ricomporre, anche se all’estero, una quotidianità rassicurante.
In situazioni emergenziali, in cui i Paesi coinvolti si ritrovano con l’apparato amministrativo e burocratico fermo o coinvolto esclusivamente nei problemi di estrema urgenza, il sistema di protezione dell’infanzia che si occupa di monitorare le condizioni di vita dei bambini per dichiarane lo stato di adottabilità e individuare una nuova famiglia, nel Paese o all’estero, non  ha mezzi, risorse e forze per funzionare e quindi vengono a mancare i requisiti minimi di efficacia, come anche l’accertamento dell’identità dei minori, che possano garantire la trasparenza delle adozioni. Lo tsunami che colpì il Sud-Est asiatico nel 2004 fu un esempio significativo in tal senso perché le autorità locali, di concerto con le associazioni umanitarie, impedirono l’evacuazione dei bambini dai loro Paesi, facilitando successivamente le riunificazioni familiari. Infatti, nessun bambino, anche uno solo, deve mai più trovarsi in situazioni in cui conflitti o calamità naturali siano le cause che, oltre a stravolgergli la vita, gli corrodano anche i diritti.

CREDITI FOTO: ANSA/JESSICA PASQUALON



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