Fa tanto arrabbiare? Sì, moltissimo. Per questo lo faccio.

Gli artisti satirici istigano il senso di vergogna del personaggio che intendono colpire utilizzando gli argomenti sociali idonei a raggiungere lo scopo: il ridicolo e la derisione. La satira non fa battute per ridere, bensì ride per colpire.

Emanuela Marmo

Quando conobbi Vincino e lo intervistai, gli chiesi quale vignetta aveva fatto arrabbiare di più e quale politico. Ne tirò fuori una in cui il personaggio era nudo.
“Cos’ha di crudele questa vignetta?”, domandai.
“Ah, niente, rispose lui ridendo. Ha il pisellino!”
“Fa tanto arrabbiare essere ritratti con il pene piccolo?”
“Sì, moltissimo. Per questo lo faccio!”.
Vincino non aveva nessuna intenzione di ridicolizzare gli uomini con il pene piccolo o di fare del pene piccolo un motivo di vergogna. Parimenti, suppongo, le comiche che fanno battute sulla durata dei rapporti sessuali, sulla prestanza erotica dei partner, utilizzano scientemente la banalità del sessismo per dire altro. In generale, infatti, gli artisti satirici istigano il senso di vergogna del personaggio che intendono colpire utilizzando gli argomenti sociali idonei a raggiungere lo scopo: il ridicolo e la derisione – Margaret Mead insegna – sollevano il senso della vergogna ed è per questo che sono un potente strumento di sanzione sociale. D’altra parte, la satira non fa battute per ridere, bensì ride per colpire.
Gli autori satirici raggiungono il loro obiettivo sia attraverso una scelta semantica che figurativa. Da un punto di vista retorico e formale, la vignetta deve essere veloce, sintetica e facile. Non è un’opera pittorica destinata a restare alla parete a lungo. Di solito prendono di mira un potente, in maniera diretta o meno; si riferiscono a un tema di attualità, per circostanziare la scena entro una trama minima già nota al pubblico; adoperano elementi generici, spesso valoriali, che rispecchiano la fascia sociale di cui il potente in questione è reputato esponente, affinché la satira di personaggio sia in definitiva una satira di categoria e di costume.

Di recente una vignetta di Natangelo ha sollevato molte polemiche: rappresenta gratuitamente una situazione stereotipata, è sessista, colpisce una persona che in realtà non c’entra niente. In verità, anche per questa vignetta vale ciò di cui sopra. Anche per questa vignetta, ci misuriamo con una zona d’ombra che il disegno tende tra il divertissement e l’esasperazione tipica della caricatura satirica, caricatura che si dà non per somiglianza, come l’imitazione cabarettistica, ma proprio per “carico”.
Dunque, cosa posso dire della vignetta di Natangelo? La scena potrebbe essere quella di un vecchio film di Gerry Calà o di un siparietto “senza parole” dei cruciverba che sfogliamo sotto l’ombrellone quando l’adulterio o i supposti meriti genitali degli uomini di colore ci fanno ridere a denti stretti. La natura del canale che pubblica la vignetta – un quotidiano – e il fatto che Natangelo sia un autore satirico ci dicono che gli elementi raffigurati sono trattati in modo tutt’altro che bonario. Le cose che si sarebbero potute dire con pertinenza riguardo la vignetta in questione non l’avrebbero mai portata in bocca allo sdegno degli altri media, cosa accaduta per una catena di fraintendimenti.

Innanzitutto la vignetta non è volgare, è troppo allusiva per esserlo. Non è sessista, sebbene utilizzi il sessismo di certa categoria politica e temi sessuali soliti. La donna disegnata a letto con l’amante non può essere ritenuta bersaglio della vignetta o insultata dall’autore: per quanto fedifraga, aspetto che Natangelo non tratta moralisticamente, non si trova in un atteggiamento ridicolo, degradante o subalterno. Reputo vittima indiretta della scena l’italianità, come idea e come valore. L’autore ne denuncia la banalità appunto mettendola in primo piano e trasformando la questione della “sostituzione etnica”, così pomposa, epica e tracotante, in una baggianata. Ed è una scena di ordinaria infedeltà a rilevarla in quanto tale. Che la satira non possa raffigurare parenti o famigliari del potente preso di mira perché non c’entrano è una assoluta novità: le caricature satiriche fin dalla loro prima comparsa hanno tradizionalmente deriso re, ministri, diplomatici raffigurandone anche il contesto famigliare. Non mancano, anzi sono frequenti, vignette che sottolineano la bruttezza o la vanità persino le velleità di rampolli, eredi, fidanzate. La figura della moglie del ministro Lollobrigida, oltretutto, è quella di una moglie “tipo”, non è neanche connotata fisicamente in modo riconoscibile. Se dobbiamo dirla tutta, ci muoviamo persino nel solco di una certa tradizione. Mi vengono in mente le rubriche della rivista di satira politica inglese Private Eye che pubblicava gli immaginari diari segreti delle first lady, le quali, uniche e sole a conoscere la verità sui mariti, raccontando della loro quotidianità, dei loro vizi, delle loro abitudini, li riportavano al rango dell’uomo comune.

Difendo la vignetta di Natangelo perché anche in questo caso ho la forte sensazione di dover difendere i processi comunicativi della satira. Ogni volta che una vignetta è commentata, non accade mai come accade per un libro, un film, una serie televisiva. La posizione che gli interpellati assumono nei confronti della vignetta scivola troppo facilmente, a mio avviso, nella discussione su cosa la satira possa legittimamente fare e cosa no. Utilizzare l’interpretazione soggettiva di una vignetta per stabilire dei codici di valutazione e di aspettativa a riguardo del genere satirico è pericoloso perché, anziché innalzare il livello di competenza critico degli spettatori nell’approccio alla satira grafica, si diffondono contro di essa ulteriori pregiudizi e sospetti. Ad esempio, non mostrare la vignetta di cui si sta parlando, come è avvenuto nel dibattito moderato da Mentana, in una situazione in cui però ci si attribuisce la capacità e l’autorevolezza a parlarne, è sleale. Si può dare notizia di un fatto senza mostrarne le immagini, qualora risultino troppo forti, quando la notizia riferisce di un massacro o di uno stupro, ma non si può omettere la visione di un’illustrazione oggetto di un confronto critico, in quanto ciò non dà agli spettatori la possibilità di formarsi una propria impressione e di scegliere in maniera fondata, per quanto personale, quale opinione in campo risulti più adeguata a rappresentare la propria.
Kris e Gombrich hanno studiato approfonditamente i processi psicologici della caricatura e, in generale, sul perché la manipolazione simbolica delle immagini sia così importante. Prima di giungere alla caricatura, partono dalle pratiche magiche di una volta, secondo le quali una lesione inferta all’effigie feriva al tempo stesso l’effigiato: ma questo, scrivono gli autori, è solo lo stadio iniziale di un trattamento dell’immagine che la cultura satirica, caricaturale e il procedimento artistico superano. Noi, però, pretendiamo di commentare una vignetta satirica, grottesca, caricaturale ancora convinti che la lesione inferta all’effigie offenda l’effigiato: commentiamo il prodotto di uno stadio successivo con gli strumenti interpretativi di una fase precedente, ovvero primitiva. Noi, cioè, guardiamo la vignetta da una “serratura” psicologica, emotiva che rende le nostre esegesi rudimentali.

Le modalità attraverso cui le vignette vengono commentate attestano da una parte la loro accettazione nei canali comunicativi di massa, a un tempo decretano la perdita di artisticità della satira grafica, poiché il risalto assegnato alle illustrazioni cela il tentativo di imporre agli autori satirici le caratteristiche che risulterebbero accettabili e che la vignetta di cui si parla ovviamente non ha: delle vignette, cioè, si parla sempre e solo per dirne che sono sbagliate. Le persone chiamate in causa, a commentare la vignetta, hanno molte autorevoli competenze e sono senz’altro esperte nelle questioni di cui sono giustamente referenti, ma la “multidisciplinarietà” dei salotti che spiegano le vignette non riesce mai a mettere al centro le peculiarità del “genere” artistico anche perché la questione quasi mai è affrontata insieme a qualcuno esperto di satira. La vignetta quindi è situata all’interno delle reazioni che ha scatenato ma quasi mai, o solo superficialmente, nel contesto retorico del genere cui appartiene, la cui conoscenza dovrebbe precedere l’opinione sul contenuto. La vignetta riparatoria di Natangelo è il colpo di risata che attesta l’impossibilità del dialogo e conferma il fatto che certe questioni le vediamo solo dallo spioncino.



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