Il Lago di Iseo: tra frane, rischio tsunami e inquinamento

Il 23 febbraio una frana ha fatto scattare l’allarme nei comuni a ridosso del lago. A questo si è aggiunto il rischio tsunami per l’isola lacustre di Montisola. Ma la storia ha inizio nel 1970 e ha come "protagonista" un cementificio.

Rita Cantalino

Nell’immaginario collettivo si pensa a una frana come a un evento rapido e inesorabile, spesso generato da misteriose forze della natura. Sul Lago d’Iseo non è così: un movimento franoso iniziato cinquant’anni fa ha accelerato il proprio percorso, mettendo in allarme la popolazione. La paura si chiama tsunami, un’onda anomala causata dalla caduta della frana in acqua, che si riverserebbe sui paesi circostanti.

Affacciato direttamente sulla riva bergamasca del lago, il cementificio Italsacci, di proprietà di Italcementi (acquisito nel 2016 dalla tedesca HeidelbergCement) spicca tra il blu delle acque e il verde della vegetazione circostante. Sono in molti a ritenere che le attività minerarie che da oltre un secolo insistono sul territorio abbiano dato avvio alla frana che, dal 1970, incombe sulle comunità ai piedi del Monte Saresano.

Siamo nel cuore della Lombardia, le sponde del lago bagnano a ovest comuni bergamaschi e a est quelli bresciani. Al centro, Montisola, la più grande isola lacustre naturale d’Italia e la più alta d’Europa, annoverata tra i Borghi più belli d’Italia. Il territorio ha una vocazione turistica di lunga data.

Da anni il movimento franoso alterna fasi di quiescenza a fasi di allarme che generano piani di emergenza, evacuazioni e rischi concreti per le popolazioni di Tavernola, Parzanica, Vigolo e, appunto, Montisola.

La frana e il lago di Iseo

La frana è al momento costituita da 2,1 milioni di metri cubi di materiale (roccia e terra) in movimento verso il lago: si tratta di una superficie di circa centomila metri quadrati in discesa da altitudini che vanno dai 370 ai 630 metri. La sua storia abbraccia mezzo secolo e intreccia la geomorfologia del territorio con le attività di escavazione portate avanti dal cementificio.

Il Monte Saresano è costituito da una tipologia di calcare specifica, diffusa nelle Prealpi, che forma degli strati ripiegati su sé stessi. Sergio Santambrogio, il geologo che ha monitorato la frana, afferma che lo scollamento di alcune di queste pieghe e il peso degli strati sovrastanti potrebbero essere alla base del movimento franoso.

La versione per cui le prime escavazioni siano state condotte partendo dalla base della montagna, determinando lo smottamento delle parti più in alto, aggravato dall’utilizzo di esplosivi, ritorna in molte dichiarazioni.

Tutto inizia nel luglio del 1970 quando a Squadre (frazione di Vigolo) si verifica l’apertura di fessure nei terreni. Immediata l’evacuazione dei campeggi lacustri di Montisola e dei paesi della sponda bresciana per paura delle potenziali conseguenze dell’onda generata dalla caduta della frana nelle acque del lago. La strada tra Parzanica e Vigolo si abbassa di un metro e iniziano a fioccare le accuse alla cementeria.

Nel 1986 un nuovo importante evento franoso si registra nella miniera Ognoli. Si pianifica l’abbandono della miniera e di quel lato della montagna, già scavato per quasi un secolo. Si apre un nuovo giacimento, situato stavolta a nord del monte (Ca’ Bianca, a Parzanica). In cambio, viene costruita una nuova strada provinciale, che colleghi Parzanica alla riviera.

La situazione sembra assestarsi fino al 22 novembre 2010, quando dall’ex miniera si genera una frana di 20mila metri cubi di materiale, parte del quale cade immediatamente; il resto rimane a pendere sulle teste degli abitanti di Tavernola.

Dal 23 febbraio di quest’anno la strada tra Vigolo e Parzanica è stata squarciata da fratture larghe più di 20 centimetri e profonde circa mezzo metro: il movimento di circa 10 millimetri di spostamento al giorno ha determinato l’istituzione di una “zona gialla”.  Se negli episodi passati si era registrato uno scostamento parziale, questa volta è l’intero blocco a essere in movimento.

Zona gialla, livello “attenzione”

L’allerta ha portato all’attivazione di dispositivi d’emergenza, con l’evacuazione di alcune abitazioni, quella parziale dell’ospedale d’Iseo, l’elaborazione di un piano di sfollamento per circa 470 persone per Tavernola e la chiusura della litoranea e della strada provinciale 78, che collega il comune con Parzanica, rimasta quasi completamente isolata per alcune settimane. Costruita dalla stessa proprietà del cementificio in cambio di concessioni minerarie, la strada collega in pochi minuti il piccolo borgo con il resto del mondo.

In tempi record, squadre di cittadini hanno liberato la strada “del Colderone”, riasfaltata con uno stanziamento di centomila euro da parte della Regione Lombardia. Una soluzione che tuttavia non poteva che essere provvisoria: quella via è scomoda e pericolosa. Impossibile far transitare tir: i negozi, già provati da un anno di pandemia, si sono ritrovati isolati e si è potuto garantire il loro approvvigionamento solo grazie a staffette da parte della cittadinanza stessa. Anche la campagna vaccinale ha dovuto adattarsi alle nuove condizioni: i vaccini per gli over 80 e over 60 sono arrivati dal cielo, il 2 marzo, a bordo di elicotteri.

Nel frattempo, sono stati prodotti studi e approfondimenti per verificare le condizioni di pericolo e tutti i possibili esiti. L’Università Bicocca ha ipotizzato tre scenari di progressiva gravità: il più grave prevedeva la caduta di tutti i 2,1 milioni di materiale franoso a una velocità elevata, coinvolgendo il cementificio e parte del territorio di Tavernola generando un’onda anomala di 600mila metri cubi di acqua, alta tra i 5 e i 9 metri.

L’emergenza è finita. Fino alla prossima volta.

Già il 2 marzo la Prefettura di Brescia ha comunicato un rallentamento dello spostamento e l’assenza di segnali di imminente caduta. Il 18 marzo è definitivamente terminata l’allerta gialla, e l’iter per la messa in sicurezza della strada provinciale verso Parzanica è stato attivato dopo qualche giorno con uno stanziamento di risorse per circa 300mila euro da parte della Regione.

La situazione pare ora essersi assestata, resta da capire se questo sarà un ennesimo episodio senza conseguenze, cui si risponderà continuando a monitorare la montagna, o se invece si interverrà in maniera drastica.

Come prima, più di prima?

Il dibattito è aperto. Secondo Dino Alberti, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, la causa degli smottamenti sarebbe riconducibile alle attività minerarie perché i primi svuotamenti sono stati condotti nell’area alla base della montagna, determinando il movimento della parte superiore. Ha risposto, in maniera tutt’altro che rassicurante, l’assessore lombardo al Territorio, Pietro Foroni, che ha parlato di debolezza strutturale della montagna, senza alcun riferimento alle attività antropiche condotte dal cementificio, del quale invece cita gli studi sulla messa in sicurezza della miniera Ognoli. I medesimi studi che sollevano la proprietà da ogni responsabilità sugli smottamenti.

Anche il presidente della Società italiana di geologia ambientale, Antonello Fiore, collega la frana all’attività estrattiva condotta lungo il versante che ora sta dando segni di cedimento. I pentastellati Dori Devis, Alberto Zolezzi e Claudio Cominardi, hanno presentato un’interrogazione parlamentare chiedendo al premier Draghi l’istituzione dello stato di emergenza e di accertare le responsabilità del cementificio. La richiesta dello stato di emergenza è giunta anche da parte del sindaco di Tavernola, Ioris Pezzotti.

Ma la questione delle responsabilità del cementificio è una delle costanti di questa vicenda, che si ripropone ciclicamente ormai da oltre quattro decadi.

Il 20 maggio 2018, attraverso un referendum consultivo, erano stati gli stessi cittadini di Tavernola a chiedere l’avvio di un iter verso la “riconversione o dismissione verso altre attività a ridotto impatto ambientale e paesaggistico”. Il referendum era arrivato dopo l’autorizzazione, concessa dalla Provincia a Italsacci, a sperimentare l’alimentazione degli impianti con combustibile derivato dai rifiuti. La proposta era già stata avanzata in passato e un altro referendum (nel 2007) ne aveva decretato la bocciatura.

Secondo Dario Balotta di Legambiente Lombardia, nonostante l’allarme sia cessato, “il pericolo oggettivo c’è e resta”. Per questo l’associazione si è mossa promuovendo la petizione “Liberiamo Tavernola dal cementificio”.

Il problema non è solo la frana.

“Quell’attività è nociva per l’impatto paesaggistico, essendo situata dentro il paese”. A questo “si connettono i rischi ambientali: è l’impianto stesso a essere inquinante con la presenza del forno interno e le conseguenti emissioni di polveri derivate dalla combustione”. È naturale pensare che queste emissioni possano comportare impatti sanitari : “Nei nostri territori c’è un’incidenza di tumori ai polmoni superiori alla media, attestata da uno studio preliminare condotto nel 2017 per conto dell’Agenzia di Tutela della Salute di Brescia e che avrebbe dovuto portare a ulteriori approfondimenti del monitoraggio”. Che però non ci sono mai stati.

Anche all’idea che gli impianti vadano tutelati perché garantiscono occupazione, i dati oppongono una realtà diversa: se negli anni Sessanta le miniere garantivano circa 400 posti di lavoro, adesso sono poco più di sessanta i dipendenti (di questi appena trenta i residenti locali), e secondo Balotta potrebbero essere coinvolti nella bonifica e nell’eventuale riconversione degli stabilimenti in chiave turistica.

Chi inquina paga?

“Gli interventi di emergenza, il piano di monitoraggio della montagna come pure tutte le spese che ne sono derivate dovrebbero essere sostenuti dal cementificio. L’Europa ci dice che chi inquina paga”, continua Balotta, “ma se nessuno glielo chiede, HeidelbergCement non pagherà mai. Perché deve essere lo Stato, in un momento così delicato, a pagare per le conseguenze delle loro attività?”.

Transizione ecologica. Sì, ma quale?

Secondo l’ambientalista l’unica strada percorribile è quella che conduce alla chiusura degli impianti: “La domanda di cemento è in calo: la sua chiusura non avrebbe alcun impatto negativo sul settore”. Nonostante le evidenze e la volontà popolare espressa nel referendum del 2018, la riconversione o dismissione degli impianti pare essere ancora lontana. “Alla proposta, da parte dell’azienda, di recuperare marna scavando la frana sono stati concordi anche i sindacati. Così non si frena la produzione, la si incrementa”.

Il problema va ben oltre il cementificio, essendo le sponde del lago interessate dalla presenza di altri impianti e industrie. “Il nostro è il più malato dei laghi alpini, vanno portate a fine le attività industriali”. Nel 2019 proprio nelle acque d’Iseo era stata individuata una discarica sommersa di scarti di guarnizione di gomme contenenti amianto. Anche in quel caso le indagini non riscontrarono esiti. “Ultimamente parliamo tanto di transizione ecologica”, conclude Balotta. “Se queste sono le premesse, e non si riesce a immaginare uno sviluppo diverso per questo territorio di cui pure tanto si decanta la vocazione turistica, di quale transizione ecologica stiamo parlando?”

Domanda interessante. Di quale transizione ecologica stiamo parlando?

 

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