Laicità e democrazia: ‘simul stabunt, simul cadent’

Senza laicità la democrazia si svuota. Ricordiamo il filosofo Salvatore Veca, scomparso a 77 anni, riproponendo questo suo intervento uscito sull'Almanacco di filosofia di MicroMega nel 2008.

Salvatore Veca

Dell’idea di laicità si discute in molti modi. E se ne è tornato a discutere negli ultimi anni, in modi che hanno messo sotto pressione alcuni punti fondamentali che sembravano dei veri e propri punti di non ritorno. Questioni ormai non controverse, quali il principio della separazione e della distinzione fra politica e religione, della neutralità e dell’equità delle istituzioni pubbliche, che sono di tutti, nei confronti delle convinzioni etiche e religiose che sono di qualcuno e che divergono o confliggono con quelle di qualcun altro, sono tornate al centro di una controversia, sia nella teoria sia nel linguaggio di tutti i giorni, sia negli spazi variegati e mutevoli della discussione pubblica. Il bestiario lessicale si è arricchito di new entries quali laicismo, ateismo devoto o laicità positiva, con il corteo ormai familiare di teocon, fondamentalisti religiosi e teodem, appartenenti a differenti comunità di credenza nella salvezza e politicamente più o meno influenti.

L’intensità e l’importanza della controversia non sembrano essere direttamente proporzionali alla chiarezza delle idee, come spesso accade in casi del genere. Propongo, con il solo scopo di mettere un po’ in ordine le idee e gettar luce su un’idea di laicità, alcune osservazioni elementari. Nove, per la precisione. Le nove osservazioni elementari presuppongono che il profilo sotto cui mi interessa mettere a fuoco la questione della laicità è essenzialmente politico. E ha a che vedere con la connessione stretta fra laicità e democrazia. Non hanno rilievo qui importanti questioni di tipo metafisico o etico o epistemologico, del tipo di quelle di cui si occupa convincentemente Paolo Flores d’Arcais nel suo articolo su Etica dell’ateismo. Politica, non metafisicaetica, è l’idea di laicità al centro del mio intervento. Questa è la portata, e questi sono i limiti delle nove osservazioni.

La prima osservazione è la seguente: la connessione stretta fra laicità e forma di vita democratica può venir spiegata esaminando alcune idee di base del progetto di convivenza nella diversità, che è o dovrebbe essere proprio delle democrazie liberali. E la prima idea riguarda la natura della libertà democratica per eccellenza. Come ho sostenuto altrove, sono convinto che tale libertà consista, alla radice, nella libertà, nella eguale libertà per le persone, in quanto cittadine e cittadini di una democrazia liberale, di identificarsi collettivamente in cerchie di riconoscimento fra loro alternative e plurali.

La libera arte di associarsi di Tocqueville viene così specificata, definendo il principio della compossibilità e della mutua compatibilità fra differenti cerchie di riconoscimento o forme di socialità, come sostiene Alessandro Pizzorno. Compossibilità di identità multiple e divergenti. Alle origini, come accennerò più avanti, entro il quadro di sfondo contingente e situato della modernità europea, la soluzione delle guerre di religione dalle nostre parti, e il paradigma della eguale libertà di credenza e devozione religiosa, che ha conosciuto nel corso del tempo alle nostre spalle la sua estensione alla eguale libertà di credenza e devozione politica.

La connessione stretta fra laicità e democrazia si basa quindi su un pezzo fondamentale dei nostri modi di pensare, descrivere, valutare le forme di vita democratiche. E il pezzo fondamentale è esemplificato dal paradigma della libertà democratica per eccellenza.

La seconda osservazione mette a fuoco gli esiti familiari che sono generati dalla priorità della eguale libertà democratica. E chiama in causa un’altra fra le idee di base del progetto di convivenza democratica nella diversità. Tali esiti coincidono con il pluralismo delle convinzioni religiose, etiche e culturali o, se si preferisce, con il fatto del pluralismo dei valori. Il fatto del pluralismo, per un verso, dipende dalla priorità della libertà democratica per eccellenza. Per altro verso, esso mostra il carattere della persistenza e della permanenza nel tempo. (Naturalmente è importante richiamare l’attenzione anche sul pluralismo come presupposto e precondizione delle democrazie liberali: l’effetto dell’arte della separazione fra le arene della verità e della giustizia, fra religione e politica, per dirla con Michael Walzer. La terza idea di base per il progetto di convivenza democratica nella diversità.)

In ogni caso, la frammentazione del dominio di ciò che per noi ha variamente valore è un tratto persistente e strutturale, non un tratto congiunturale e accidentale, come alcuni sostengono o pretendono o si augurano. La forma di vita democratica implica la persistenza del pluralismo e, quindi, la persistenza del disaccordo. E la domanda appropriata è allora: come è possibile che persone divise da differenti e confliggenti lealtà, devozioni e identificazioni possano convivere stabilmente nella durata entro il quadro dei fondamentali di una forma di vita democratica, in presenza della persistenza del disaccordo religioso, etico o culturale?

Almeno in linea di principio, la risposta canonica è semplice: solo istituzioni e scelte pubbliche che siano eque nei confronti di qualsiasi insieme di credenze, e quindi laiche, possono ottenere l’esito felice e difficile di una convivenza bene ordinata nella diversità. L’esito felice è possibile, naturalmente. Le cose della vita possono anche andare male. Molto male. E possiamo conoscere esperienze di perdita e dissipazione dei valori e delle ragioni dello stare insieme, democraticamente inteso. Come vedremo, i punti di non ritorno sono molto più rari di quanto non si pensi o si speri e si desideri, in faccende complicate come queste.

La terza osservazione elementare ci suggerisce di considerare la connessione stretta fra laicità e democrazia, una volta chiarita e presupposta la persistenza del disaccordo, sotto il profilo dell’eguaglianza democratica, intesa nel senso dell’eguaglianza di status della cittadinanza e, a fortiori, dell’eguale considerazione e rispetto dovuto a chiunque (ecco la quarta idea di base).

Si consideri il caso in cui istituzioni e scelte pubbliche si fondino sui valori e i princìpi propri di una particolare dottrina comprensiva fra le altre, nel senso chiarito da John Rawls in Liberalismo politico. Le scelte che vincolano tutti si baserebbero, in questo caso, sulle ragioni accettabili solo per qualcuno. E la clausola di Kant e di Ronald Dworkin sull’eguale considerazione e rispetto risulterebbe palesemente violata. Anche la remota idea di isotimia di Pericle non se la caverebbe granché bene.

Perché una frazione della cittadinanza riceverebbe un trattamento e un riconoscimento di serie A, e altre frazioni di cittadinanza di serie B, provando l’esperienza dell’esclusione e dell’umiliazione civile. E ciò è in contrasto non solo con l’idea di eguaglianza democratica ma anche, a fortiori, con la tutela dell’eguale libertà democratica per eccellenza. Quindi, come si usa dire, laicità e democrazia simul stabunt simul cadent.

La quarta osservazione deriva dalla constatazione del disagio e del discredito cui, nella discussione pubblica, nelle condotte politiche e nell’impiego di autorità di vario tipo (politica o religiosa o culturale), vanno incontro le prime tre proposizioni elementari e la loro battuta conclusiva. È naturale allora porsi la domanda a proposito di quali circostanze possano essere ritenute responsabili della laicità messa sotto pressione e, quindi, della democrazia in deficit.

Alcuni osservatori concordano nell’attribuire ad alcuni fra gli effetti dei processi di globalizzazione una delle circostanze, che finiscono per mettere sotto pressione l’idea ereditata di laicità della politica e delle istituzioni. Si consideri, in proposito, la questione delle grandi migrazioni che convertono il pluralismo in multiculturalismo, almeno dalle nostre parti. Che una società divenga multiculturale è un fatto. Il problema è quale risposta la politica e le istituzioni debbano dare al fatto. Un fatto – a quanto pare – irriducibile e ostinato. Sappiamo che l’esperienza quotidiana della diversità può mettere in moto forme reattive che oscillano fra la domanda crescente di securitas e l’atteggiamento della curiositas.

In ogni caso, è messa in questione la soluzione canonica della laicità pubblica in presenza di nuovi entranti che, come nel caso dell’islam dai molti volti, si identificano in culture e forme di vita in cui non vige la separazione fra religione e altre arene della convivenza. Né sembra avere grande successo l’esercizio dell’arte della separazione fra religione e politica. È evidente la difficoltà di ottenere qualcosa come un consenso per intersezione sui fondamentali della convivenza, qualora vi siano frazioni minoritarie di popolazione che non accettano la clausola tacita del «dobbiamo convivere». E ciò, a sua volta, può rendere conto della domanda maggioritaria rivolta a parte populi alle istituzioni e alla politica di tutelare una comunità morale o religiosa omogenea, anche se spesso illusoria. Né è difficile pensare che, a parte principis, per alcuni fra i detentori di autorità politica o religiosa l’opportunità di produrre comunità chiuse a buon mercato sia percepita come altamente profittevole.

Con una clausola limitativa per l’analisi degli effetti dei processi di globalizzazione: è bene distinguere, in queste faccende intricate, fra le distinte risposte agli stessi processi di globalizzazione che dipendono dai particolari contesti politici, sociali e culturali entro cui esse prendono forma. Osservatori piuttosto sbrigativi e ignavi tendono a pensare che la risposta ai processi di globalizzazione sia la stessa in contesti differenti. E ciò è banalmente falso. Quando esaminiamo le risposte, dovremmo sempre tenere presente la specificità situata del contesto, in cui esse vengono apprestate e offerte. (Dovremmo esaminare i diversi modi in cui tradizioni religiose o etiche si misurano, confliggono o si adattano alle trasformazioni sociali, il tasso maggiore o minore di pluralismo religioso, la differente natura delle associazioni o delle istituzioni religiose e del loro ceto di esperti nei discorsi di salvezza e verità, i rapporti mutevoli di forza e debolezza relativa fra detentori di autorità politica e detentori di autorità religiosa, eventuali brecce di Porta Pia, e così via.)

La quinta osservazione aggiunge alla lista degli effetti quelli connessi alla crescita scientifica e, soprattutto, all’innovazione tecnologica. In particolare, in tutti quei casi in cui le nostre responsabilità causali generano responsabilità morali inedite in un orizzonte di incertezza e inevitabile opacità. Un esempio paradigmatico è costituito dalla crescente gamma di questioni in senso lato bioetiche, questioni di entrata e uscita dalla vita finita, questioni dei modi di far nascere, di scegliere di morire o come morire, e così via, che affollano e affolleranno l’agenda pubblica.

Il disagio, che accompagna in ampie frazioni di popolazione l’incertezza della scelta se sia bene o giusto fare tutto ciò che possiamo fare, dipende dal fatto che le persone provano l’esperienza dell’isolamento e, come mi piace chiamarla, della condanna alla sorte della solitudine involontaria. E questo può gettar luce sul pullulare di domande di compagnia e, ancora una volta, di comunità morali omogenee che rendano stabili i criteri della scelta, restituendo loro una durevolezza che assicura contro il rischio e il disvalore.

Naturalmente, il problema non è che le persone aspirino a una compagnia. Come ci insegna il filosofo dell’Illuminismo David Hume, questo è un fatto della vita ed è un fatto molto importante e gravido di conseguenze. Il problema è a quale compagnia le persone rivolgano, prioritariamente o prevalentemente, la domanda di immunizzazione e assicurazione. E di nuovo vale il principio del contesto: per esempio, in culture in cui circola un buon capitale di fiducia nei confronti della comunità scientifica e dei decisori che dispongono di competenza, la domanda sarà indirizzata a tali cerchie sociali; in culture in cui aleggia sfortunatamente un discredito nei confronti dell’impresa scientifica e circolano allegramente leggende metropolitane sul triste destino della scienza e della tecnica, la domanda sarà indirizzata ad altre cerchie, quali quella dei detentori del carisma religioso o a quei detentori di autorità politica che fanno di mestiere gli imprenditori della paura e spesso e volentieri amano genuflettersi, per dirla con Carlo Augusto Viano.

La sesta osservazione mira a rendere solo un po’ più complicato il paniere delle circostanze, cui attribuire una qualche responsabilità per la laicità messa sotto pressione. Essa proietta le domande di comunità illusorie sul più ampio sfondo di società caratterizzate da processi di individualizzazione, in un contesto persistente di instabilità, intermittenza e incertezza. Società liquide, per usare il gergo ormai popolare di Zygmunt Bauman, debitore nei confronti della penetrante e pionieristica analisi di Marx ed Engels osservatori dell’insorgenza della modernità del capitalismo manchesteriano. Circola una voglia di legami durevoli. Legami, quali che siano, che diano senso, quale che sia, a destini personali intrappolati in un’epoca di incertezza, in cui neanche il futuro «è più quello di una volta».

La voglia di legami durevoli, che offrano criteri per orientarsi nell’età dell’incertezza, si traduce spesso in una gamma variegata di domande di eticizzazione delle istituzioni. Il pluralismo di ciò che per noi variamente vale assume allora il carattere del disvalore, che erode e mina le ragioni dello stare insieme. Di nuovo, il monismo di una qualche dottrina comprensiva, religiosa o etica che sia, si presenta come la bussola per non perdersi nel mondo e ridurre la diversità multicolore che, dopo tutto, è il bello della democrazia. E per minare, con dosi di coercizione urbana e rassicurante, la persistenza del disaccordo. Stili di vita di comunità maggioritarie illusorie contro la diversità degli esperimenti di vita, dei modi di vivere e convivere per uomini e donne, al cui elogio John Stuart Mill ha dedicato le pagine luminose del suo classico saggio Sulla libertà e del suo straordinario Sull’asservimento delle donne.

La laicità stessa delle istituzioni e delle scelte pubbliche è, a questo punto, investita di discredito e considerata come una rinuncia scettica, nichilista e vacua nei confronti dei dilemmi e dei problemi della massima serietà e severità. E un valore fondamentale della forma di vita democratica rischia di finire ai saldi di stagione.

La settima osservazione mette a fuoco, sullo sfondo che ho cercato di delineare sommariamente, una distinzione che spesso sfugge o non è sufficientemente stabile nelle controversie e nella discussione pubblica ai tempi della laicità messa sotto pressione. Si tratta della distinzione fra le arene della discussione pubblica e le arene della deliberazione collettiva. In presenza del fatto del pluralismo e della persistenza del disaccordo, sarebbe grottesco o semplicemente incoerente non prendere sul serio la pluralità delle voci che hanno pieno diritto ad accedere all’arena della discussione pubblica. Non tenere nel conto dovuto l’isegoria nella polis vorrebbe dire non tenere nel conto dovuto uno dei requisiti fondamentali del processo democratico di competizione, presentazione e discussione delle domande, delle aspettative, dei bisogni, dei problemi che vengono definiti e ridefiniti grazie all’uso pubblico della ragione. Questo ce l’ha ricordato più volte Amartya Sen, e ce lo ricorda in modo vivido l’incipit narrativo della splendida autobiografia di Nelson Mandela: la scena del villaggio sudafricano e delle sue pratiche di ascolto delle voci dei partecipanti alla comunità.

Che i detentori di autorità religiosa, quale che sia, comunichino nell’arena pubblica le convinzioni e le credenze ritenute vere e decisive per la vita buona delle persone; che i rappresentanti delle comunità scientifiche si impegnino nella comunicazione nell’arena pubblica; che gli esperti o le esperte in saggezza o sapienza, quale che sia, mirino a modellare le credenze di frazioni di popolazione: tutto ciò è, per dir così, l’esercizio di un diritto fondamentale che per altro chiama in causa il paradigma della libertà democratica per eccellenza, da cui sono partito. Una forma di vita democratica almeno decente dovrà naturalmente assicurare, per quanto è possibile, una qualche simmetria nei costi di accesso all’arena dell’uso pubblico della ragione. Ed evitare addensamenti di monopoli o collusioni oligopolistiche nell’arena della discussione e della comunicazione pubblica.

Jürgen Habermas, fra gli altri, ha insistito nei suoi ultimi scritti sull’importanza della partecipazione delle Chiese e dei rappresentanti delle religioni alla costruzione di un ethos condiviso. Se questo vuol dire considerare con il massimo rispetto le voci etiche delle tradizioni della sapienza, mi sembra semplicemente un’ovvietà. E al massimo rispetto hanno titolo altre voci che in altre prospettive sul mondo e in altri e differenti valori si riconoscono e si identificano. Di qualsiasi Chiesa e di nessuna Chiesa, per usare il gergo di Giulio Giorello. Questo, nella mia congettura, è o in ogni caso dovrebbe essere alla base del ruolo prezioso della discussione pubblica nelle società democratiche. Regimi autocratici o teocratici, dopo tutto, non sembrano mostrare un particolare gradimento per l’ascolto o per la semplice espressione delle voci cacofoniche del disaccordo.

Ma si consideri ora il fatto che le considerazioni sull’arena della discussione pubblica non valgono allo stesso modo nell’arena della deliberazione collettiva. Quando si tratti di pervenire a scelte collettive, che rispondano coerentemente ai processi e agli esiti di equilibrio instabile via via raggiunti nella discussione pubblica, il presupposto dell’arte della separazione deve valere in modo cogente. E, ancora una volta, le scelte che valgono per tutti e per chiunque non possono basarsi su dottrine e concezioni che valgono per qualcuno. Come ho sostenuto nella seconda osservazione, è un fatto elementare di giustizia o di equità nei confronti della varietà delle idee sul bene o sui beni umani presenti in una società democratica. E si dovrà trattare di scelte che permettono, e non di scelte che obbligano. Perché, nel secondo caso, le scelte che obbligano violerebbero il principio dell’eguale considerazione e rispetto dovuto a chiunque nella polis.

E alle domande di eticizzazione delle scelte e delle istituzioni, i decisori pubblici di un regime di democrazia liberale dovrebbero rispondere con l’offerta di un ampliamento, nelle circostanze appropriate, dei diritti delle persone di scegliere se stesse nel tempo. Questo, almeno, richiede la tesi sulla connessione stretta fra democrazia e laicità.

L’ottava osservazione chiama in causa una storia, la nostra. Dovremmo ricordare, nell’avvio opaco del ventunesimo secolo fra passi del gambero, fondamentalismi, fanatismi e cupe teocrazie e guerre sante di vario tipo, la saggia massima di Michel de l’Hopital, che la formulò nel terribile secolo delle guerre di religione europee: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme».

La storia ci mostra, dopo tutto, un repertorio di possibilità. Di possibili soluzioni ai ricorrenti dilemmi della convivenza nella diversità. Non ci indica naturalmente le magnifiche sorti e progressive. Si limita, se la interroghiamo in certi modi, a mostrarci esperimenti riusciti di convivenza. E a suggerirci che anche le sfide più difficili, non per questo, devono essere inflazionate e classificate come irresolubili.

Un po’ di umiltà e di strategia deflazionista, in casi come questi, non disturbano.

La nona osservazione propone una conclusione inevitabilmente provvisoria. E intenzionalmente impressionistica. La tesi su laicità e democrazia, che è stata formulata nelle prime osservazioni elementari, è debitrice alla fin fine nei confronti dell’eredità dell’Illuminismo. E del suo progetto recente e inadempiuto. Se le cose stanno grosso modo così, allora possiamo dire che l’idea politica di laicità sotto pressione è il sintomo e l’effetto, per una varietà di ragioni abbozzate nelle osservazioni precedenti, nell’avvio del ventunesimo secolo, dell’offensiva dei nemici dell’Illuminismo. Sembra si possa dire che viviamo in un’età di romanticismo politico.

In un’epoca in cui i confini fra religione e politica divengono a tratti porosi e ambigui, e si avanza qua e là la pretesa del monopolio sulle credenze quanto alla verità su noi e sul mondo, e si appanna il principio della separazione, come nel caso dei progetti teocratici della potente destra fondamentalista americana o dei genuflessi nostrani, e la religione rischia di tornare instrumentum regni nella forma della secrezione di ideologie e devozioni politiche, nel quadro di un globo affollato di teocrazie e autocrazie, l’eredità stessa dell’Illuminismo è a rischio. Quando, dalle nostre parti, ideologi creativi della destra dispensano visioni basate su «Dio, patria e famiglia», per chi mantiene integra la propria lealtà al grappolo di valori dell’Illuminismo anche in tempi così drasticamente mutati, in tempi difficili, c’è un gran lavoro da fare.

È naturalmente possibile pensare a un futuro in cui Illuminismo, laicità e democrazia siano esposte a una gamma di trasformazioni tali che ne alterino la riconoscibilità e la fisionomia consolidata, dopo tutto, in una complessa vicenda contingente e situata che è alle nostre spalle. Ma dobbiamo riconoscere che un futuro di questo tipo sarebbe inevitabilmente valutato come un futuro di perdita e dissipazione, punto e basta. Con una glossa a margine: un futuro di perdita e dissipazione non per noi, ma per chiunque.



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