L’ambiente come sfida democratica

Il libro di Matteo Meschiari e quello di Davide Brocchi, diversissimi fra loro, girano attorno alla stessa domanda: “come andrà a finire con l’antropocene?”

Pierfranco Pellizzetti

«La riduzione dello spazio a categoria contingente

è implicita nella nozione stessa di progresso»[1].

David Harvey

«Caminante, no hay camino

se hace camino al andar»[2]

Antonio Machado

 

Matteo Meschiari, Landness – una storia geoanarchica, Meltemi, Milano 2022

Davide Brocchi, By disaster or by design, Mimesis, Sesto San Giovanni 2022

 

Ambientalismo dandy

Due libri diversissimi, quelli di cui oggi parliamo, usciti quasi in contemporaneo e presso due case editrici gemelle; che comunque girano attorno alla stessa domanda: “come andrà a finire con l’antropocene” (l’attuale epoca geologica in cui l’umanità ha prodotto fenomeni distruttivi irreversibili sull’ambiente)? Drastica la risposta di Meschiari: «Oggi, con la classica sonnolenza del trauma, con i bias e il disorientamento paralizzante tipici dello shock cognitivo di una civiltà al suo epilogo antropocenico, c’è un pianeta che teniamo in palmo di mano e che non crediamo di poter riaggiustare» (MM pag. 148). Più problematico Brocchi: «Oggi non si pone più la domanda se nel prossimo futuro si verificherà un cambiamento radicale della società oppure no. Ci siamo già dentro. L’unica domanda aperta è come il cambiamento si svolgerà: by disaster or by design?» (DB pag.14).

Il primo dei due libri in esame è un testo di incerta collocazione: di volta in volta, saggio, romanzo, diario di viaggi o che altro? Certamente un’opera con pretese letterarie nell’altalenarsi di una scrittura spesso strepitosa, talora sciatta e a volte persino incomprensibile, sempre autocompiaciuta; nel susseguirsi pirotecnico di riferimenti non sempre pertinenti (e si faccia finta di non aver notato l’attribuzione a Luigi Nono degli immortali versi di Antonio Cipriano José Maria y Francisco de Santa Ana Machado Ruiz “caminante no hay caminos, hay que caminar”, a pagina 46). Ciò che in ogni caso si percepisce nel blasé dell’autore è la noia per la ripetitività dei discorsi sull’antropocene (da cui salva soltanto il recente saggio sul bizzarro visionario di Telmo Pievani e Mauro Varotto[3]); quanto definisce ironicamente “Gran Tour dell’Antropocene”: «Automatismi, ripetizioni, fraintendimenti che ingarbugliano il filo, ma soprattutto lo scivolare sonnolento, da rollio di carrozza, verso uno svago apolitico e apolide che macina nello stesso mortaio digitale la serie TV, la distopia letteraria, la catastrofe ambientale, la sociologia imitativa del corpo, il femminismo, l’animalità, la collassologia, la theory fiction, il new weird, la demonologia. Un decadimento del discorso forse inevitabile. Ma l’Antropocene è un’altra cosa» (MM pag. 191). Ecco qua la tassonomia che affastella questo inventario della noia per lo snobismo dell’inseguito dallo spleen. Gettando la maschera, la confessata aspirazione al «personaggio dandy in completo di lino [ovviamente bianco, ndr] che voleva essere me» (MM pag. 198). Dunque, il nostro autore, annoiato dal pensiero benpensante sulla transizione politicamente corretta, che si iscrive al club della gente up-to-date che pratica la filosofia del benaltro. Come teorizzato da un altro snob – stavolta della pochette – Jeremy Rifkin: «il passaggio dal paradigma della Terra come risorsa [da possedere, ndr] a Natura come sistema complesso che si evolve autonomamente»[4].

Tesi che rimbalza nel testo di Meschiari «la landness, che potrebbe guidarci verso una via d’uscita, resta un motivo musicale tormentato da fastidiosi acufeni: decrescita, sviluppo sostenibile, transizione ecologica, economia ambientale, energie rinnovabili, politiche green, e ogni altro discorso assolutamente ragionevole su ambiente e salute del pianeta che però non sa (e forse non vuole) fare i conti con l’idea di collasso» (MM pag. 199). Da qui il radicalismo – appunto, benaltrista – alla ricerca del suo prologo in cielo. Che l’autore individua – andando a ritroso – in una sorta di “contro-geografia” come critica della ragione cartografica occidentale: «continuiamo a pensare la geografia come una macchina gestionale del territorio, dei movimenti umani e anche dell’ansia. Invece la geografia è e resterà sempre una pratica cognitiva e politica, la geografia è sempre e sarà in qualche modo una controgeografia […] un tool cognitivo sempre più utile (e introvabile) nel ripensamento dei saperi innescato dalla svolta antropocenica. Un punto di partenza essenziale per ritrovare il Tempo, almeno come tempo locale» (MM pagg. 152/154). E l’andata a ritroso lo conduce a imbattersi in una genia di simpatici “geo-anarchici” ottocenteschi bastiancontrari che, sulla scia di Alexander Kropotkin, vanno alla ricerca di landness, «la territà della Terra. La nostalgia per qualcosa che è un luogo reale ma anche un progetto, un’idea» (MM pag. 21); qualcosa che consenta di capire la nostra intima connessione con il corpo terrestre. Il grande progetto di «rifondare la geografia sostituendo al modello cartografico tradizionale, autoritario, coloniale, un modello paesaggistico, più ancorato al corpo, all’universale sensibile, alla libertà esplorativa e cognitiva di chi si espone alla Terra non per dominarla ma per acquisire dei modelli mentali ed etici coerenti alle dinamiche dell’ecosistema» (MM pag. 108).
Con tanti auguri al nostro neo-geo-anarchico di non finire esiliato in Siberia con Kropotkin, sperduto sulla Sierra Nevada colombiana come Elisée Reclus o in vagabondaggio inconcludente sul rio Paraná insieme al naturalista, corrispondente de La Voce del Ticino, Mosè Bertoni.

Ambientalismo socialdemocratico
Mentre, venendo al testo successivo, la prospettiva che si propone Brocchi rispetto alla crisi climatico/ambientale è quella che si precisa affrontando la “questione sostenibilità”. Ossia riprendendo il cammino dal celebre rapporto del 1987 Our Common Future alla Commissione Mondiale sull’Ambiente; legato al nome della socialdemocratica norvegese Margareta Brundtland e centrato sull’altrettanto celebre definizione di sostenibilità: “lo sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie”.
L’organizzazione di una società che, giunta sull’orlo del precipizio, innesta la marcia indietro, in termini sociali e culturali. Ossia, perseguire una trasformazione sostenibile e partecipata, che prenda le mosse dalla dimensione locale, per “democratizzare la democrazia”. L’assunto è che «se l’insostenibilità è un sintomo di una crisi della democrazia, allora la questione della sostenibilità (protezione del clima, solidarietà, pace, ecc.) deve essere posta innanzitutto come questione democratica». Sicché, «la risorsa principale della grande trasformazione verso la sostenibilità non è il ‘capitale economico’, bensì il ‘capitale sociale’» (DB pag. 100).
Dunque una netta presa di distanza dall’impostazione propria dell’egemonia NeoLib, che riduce la protezione del clima a una pura e semplice questione di soldi. Sebbene questo sia lo spirito di tempi economicisti, perfettamente rappresentati da William D. Nordhaus, premio Nobel per l’economia del 2018; celebrato banalizzatore di una questione drammatica quale l’antropocene, riducendola alla mitigazione, ossia la soluzione semplificatoria della tassazione in attesa che giunga in soccorso il Settimo cavalleggeri dell’immancabile pietra filosofale aggiusta-tutto: l’innovazione.
«Quando bruciamo combustibili fossili, emettiamo, senza volerlo, CO2 nell’atmosfera e questo produce tutti gli impatti negativi. […] Tale emissione è un’esternalità che si verifica perché chi produce le emissioni non le paga e quelli che ne vengono danneggiati non ricevono alcuno indennizzo. Una delle lezioni più importanti per l’economia è che mercati non sottoposti a regole non sono in grado di affrontare con efficienza esternalità dannose di larghissimo impatto. I mercati non regolati produrranno troppa CO2, perché il prezzo del danno delle emissioni di CO2 è zero»[5].
Tutto qui. Ma questo è il tipo di approccio imperante nelle varie Davos della plutocrazia finanziaria che occupano la sala comandi del pianeta.
Molto consolatorio (?), mentre ci avviamo alla quinta o sesta estinzione di forme vitali sul pianeta: quella dell’umanità.
Di questo Brocchi è ben consapevole. Difatti il suo assunto è culturale: «in ogni grande trasformazione finora avvenuta, il cambio di regime energetico è corrisposto a un cambio di regime sociale. Ma ad accomunare la Rivoluzione neolitica e quella industriale c’è una seconda costante fondamentale: entrambe sono state anticipate da una rivoluzione culturale. […] Quello che è valso per le prime due grandi trasformazioni, vale anche per la terza: la sostenibilità comporta un cambiamento culturale radicale, vale a dire del modo in cui gli individui socializzano» (DB pag.135).

Una considerazione tra l’ottimismo e l’entusiastico – certamente deterministica – a cui prudenza suggerirebbe di tener conto delle innumerevoli “false partenze” di una nuova visione del mondo che costellano la storia dell’umanità.
E anche in questo caso – l’attuale – le forze contrarie alla profetizzata rivoluzione della sostenibilità sono straripanti, sia sul piano delle risorse materiali, sia su quello ideologico della produzione di modelli accreditativi di una visione del mondo a favore dei propri interessi contro-rivoluzionari. L’immensa capacità di fungere da dente d’arresto del cambiamento propria dello status quo.
Inoltre ci sia permesso di far osservare a Brocchi che la da lui auspicata “grande alleanza” per la nascita di un movimento “per la trasformazione della società verso la sostenibilità” – sistemico, eterogeneo e glocale – si scontra con il piccolo (?) particolare che ad oggi le reazioni della società civile democratica sono state rapidamente isolate e marginalizzate. E proprio nelle declinazioni che ci vengono elencate: il Movimento per la giustizia globale (Seattle 1999), il Movimento per il clima (Totnes, GB, 2006); e staremo a vedere che fine farà il polimorfo Movimento per una pianificazione democratica e solidale del territorio, in queste nostre città colonizzate dall’alto dagli speculatori che accaparrano i quartieri del lusso per conto di oligarchi russi o sceicchi petrolieri e devastate dal basso grazie alla gig economy della cosiddetta “economia collaborativa” alla Airbnb, che espelle i residenti di interi quartieri nei centri storici per fare posto a un turismo mordi e fuggi.
Vale soprattutto lo scoraggiante precedente del “fatale” 2011, quando oltre 800 città di 90 Paesi si popolarono dei quartieri di cittadini indignati contro le malefatte della finanza e delle sue bolle speculative, esplose a Wall Street già nel 2008, e l’anno si concluse con gli Stati che correvano a soccorrere con iniezioni di pubblico denaro le banche in crisi (soccorso in larga misura virato dagli stessi, spudorati, banchieri in benefit a proprio vantaggio). Si tratta soltanto di “indifferenza”, di “reazioni tardive delle élite”, di pulsioni pompieristiche delle imprese (solo quelle americane investirebbero annualmente in propaganda del “migliore dei mondi possibili”, del there is no alternative, qualcosa come 9 miliardi di dollari) e dei maneggi di una folla di lobbisti (negli USA un forchetta allargata da 12.281 a 100.000, nella Ue 15/30.mila) (DB pag. 40)? Francamente una tesi tra il timido e l’ingenuo, riassunta all’epoca da Manuel Castells nell’affermazione molto wishful thinking «se le persone pensano in modo diverso, se mettono in comune la propria indignazione e custodiscono la speranza di cambiare, la società alla fine cambierà secondo i loro desideri»[6]; affermazione che attualmente il sociologo catalano non credo proprio sarebbe ancora disposto ad avallare.

D’altro canto Brocchi, riminese che vive in Germania dal 1992, dovrebbe conoscere le analisi iper-francofortesi/demistificanti del suo (ormai) conterraneo Wolfgang Streeck, già direttore del Max-Planck Institute di Colonia, che parla apertamente di “avvenuto divorzio tra capitalismo e democrazia”.
«L’utopia dell’attuale management della crisi prevede il completamento, tramite strumenti politici, di una depoliticizzazione dell’economia politica, del resto già molto avanzata: una depoliticizzazione che dovrebbe concretizzarsi in un sistema di Stati nazionali riorganizzati sotto il controllo di una diplomazia governativa e finanziaria internazionale separata e contrapposta alla partecipazione democratica; Stati la cui popolazione dovrebbe aver finalmente imparato, dopo una rieducazione forzata durata ormai anni, a ritenere giusti, o perlomeno privi di un’alternativa, i risultati della distribuzione, così come viene realizzata dai soli meccanismi di mercato»[7].
Ad avviso di chi scrive, una prudenza che si spiega solo con la condiscendenza nei confronti del mainstream rispetto all’odiato “populismo”; una mistificazione linguistica che Brocchi avvalora parlandone in termini di «cultura dell’intolleranza e di sfiducia nella natura umana» equiparata alla xenofobia (DB pag. 101). Ovvero l’operazione mimetica del privilegio, nella collusione tra plutocrazie e ceto politico ridotto a caporalato del consenso; per esorcizzare non irresponsabili demagoghi bensì un pensiero critico della degenerazione ricorrente nelle classi dirigenti, da sanare con quelle terapie che reclama lo stesso Brocchi: rifondazioni della democrazia che partano dal basso. Tesi che oggi trovano le proprie portavoce in Chantal Mouffe e Nancy Fraser, ieri Ernesto Laclaud e Chistopher Lasch. Mica i trinariciuti di Vox o di Afd.

Un’altra ipotesi
Alla fine di questo breve excursus tra testi assolutamente divergenti ci si chiede: esiste un altro approccio all’emergenza ambientale, in alternativa alla vocazione pedagogica di Brocchi e la furia anti-sistemica malpensante di Meschiari?
Forse la risposta può essere trovata nell’ultimo lascito di Bruno Latour, apparso quest’anno nell’almanacco filosofico di MicroMega; trasportando il tema dal mercato delle idee all’arena politica: «abbiamo ormai capito che ci vuole un’azione decisiva per contenere la catastrofe, ma che mancano i legami, la motivazione e la direzione che permetterebbero di agire. Si parla anche troppo di ‘rivoluzione’ e di ‘trasformazione radicale’, di ‘collasso’, ma si vede bene che niente riesce a tradurre queste angosce in un programma di azione mobilitante all’altezza della sfida»[8]. Ossia la risposta alla domanda su quali condizioni l’ecologia, invece di essere un insieme di movimenti tra tanti altri, potrebbe diventare il perno attorno al quale organizzare una politica, a partire da una chiamata generale che dia origine a quanto Latour chiama “classe ecologica”. In una visione del conflitto che – come diceva Karl Polanyi – amplifichi la resistenza della società all’econimicizzazione depistante del discorso pubblico, perseguita dagli William Nordhaus da establishment (e ci ricavano pure un Nobel).
Rispondendo politicamente all’incessante domandare dello storico dell’economia novecentesco – appunto Polanyi – che analizzando l’impatto della società di mercato sulla civiltà occidentale, ne colse meglio di chiunque altro gli effetti politici, culturali e antropologici nella crisi degli anni trenta. Proprio oggi, mentre imperversa una nuova Grande Recessione: «la nostra economia di mercato fa appello a quelli che definiamo i ‘moventi economici’, ossia il timore della fame e la speranza di guadagno. Tuttavia, definendo la fame e il guadagno come ‘moventi economici’, non stiamo pregiudicando la stessa possibilità di adattamento della sfera economica all’esistenza?»[9].

 

[1] David Harvey, La crisi della Modernità, EST, Milano 1997 pag. 252

[2] Antonio Machado, Poesie, Lerici, Torino 1961, pag,562

[3] Telmo Pievani e Mauro Varotto, Il giro del mondo dell’Antropocene,  Cortina, Milano2021

[4] Jeremy Rifkin, “Noi umani abbiamo finalmente capito di essere a rischio”, Il Fatto Quotidiano 4 novembre 2022

[5] W. D. Nordhaus, Spirito green, il Mulino, Bologna 2022 pag. 334

[6] Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza, Università Bocconi Editore. Milano 2012 pag.114

[7] W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013 pag. 67

[8] Bruno Latour, “Appunti sulla nuova classe ecologica”, MicroMega 3-2022

[9] Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente, il Saggiatore, Milano 2013 pag. 76



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